martedì, dicembre 08, 2009

LO SCIOPERO


Questo pezzo l’ho scritto qualche anno fa e forse sembrerà un po’ datato. Come si sa, da allora in Italia per gli immigrati molte cose sono cambiate. In peggio.

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3 ottobre 2003.
Una data come tante, uno di quei giorni in cui ci sforzeremo di ricordare se per caso è il compleanno di un amico, se avevamo preso un impegno importante o se è una ricorrenza particolare. Sarà una di quelle date che ci ronzerà in testa: “Cosa cavolo sarà successo il 3 ottobre del 2003?”, ci chiederemo senza trovare una risposta. Eppure la risposta c’è, e la rintracceremo, d’ora in avanti, in tutti gli almanacchi-del-giorno-dopo televisivi e in tutte le edizioni regalo di storia-degli-anni-2000 e forse anche in qualche libro di storia ad uso delle scuole medie superiori, dipenderà ovviamente dall’autore.
Il 3 ottobre del 2003 l’Italia si fermò.
E si fermò perché tutti gli immigrati, i cosiddetti extracomunitari ma anche i comunitari, all’unisono, senza essere convocati da nessuno, come chiamati da una voce superiore di cui non ne senti il suono ma ne percepisci la portata, non andarono a lavorare, non uscirono per le strade, non si fecero vedere. Come un sol uomo. Così. Semplicemente sparirono. Non so dire se scioperarono, escludo che ne avessero acquisito il diritto; fatto sta che in nessuna città d’Italia quel giorno si vide uno straniero, foss’egli maghrebino o romeno, cinese o peruviano, filippino o indiano, senegalese, polacco o cingalese. Neanche uno. Nemmeno nelle loro case si trovavano, né nei ritrovi dove sono soliti incontrarsi. Quel giorno non si vide un hijab né un turbante né una jallaba manco a pagarli a peso d’oro. Non erano nelle stazioni, né nei giardinetti o nelle moschee, non nei negozi etnici o nelle macellerie hallal. Da nessuna parte.
Detta così sembra una cosa neanche troppo grave, anzi da far gioire coloro che considerano la presenza degli stranieri come un problema o un peso per la nazione. Eppure quel giorno, il 3 ottobre del 2003, tutta l’Italia ebbe una gran batosta. Soprattutto economica. E soprattutto il Nord d’Italia, quello con la più alta densità industriale. I treni e i pullman dei pendolari non portarono al lavoro alcun immigrato, tant’è che le compagnie di trasporti lamentarono perdite notevoli, quel giorno. Le fabbriche erano vuote per metà giacché nessuno di quelli che normalmente facevano i lavori pesanti si era presentato al lavoro. Già, i lavori pesanti, quelli che gli italiani non voglion fare, ad alto rischio di pericolosità o tossicità e scarsa protezione dagli infortuni. I proprietari delle fabbriche, i padroni, erano disperati. Mandarono a cercare i lavoratori stranieri nelle loro case ma nessuno trovò nessuno. Quel giorno ebbero perdite enormi. Lavori non terminati, merce non consegnata, ordinativi non rispettati e soprattutto la paura che la cosa si potesse ripetere il giorno dopo o nei giorni a seguire o per sempre. Stessa cosa avvenne nei cantieri, dove una bella percentuale di lavoratori quel mattino non si presentò. Il buono di quel giorno fu che gli incidenti sul lavoro diminuirono ma i padroni erano terrorizzati dalla prospettiva di dover assumere manodopera italiana, doverla pagare con salari sindacali, versare contributi all’INPS, concedere ferie, malattie e gravidanze varie, provvedere all’alloggio, avere a che fare con sindacati, camere del lavoro, patronati, statuti dei lavoratori, articoli 18, cazzi e mazzi. Molto meglio avere dei “negretti” silenziosi alle proprie dipendenze. Li fai lavorare a un tot al giorno, li tieni buoni buoni e quando non ti servono più gli dai un bel calcio nel culo e alé andare.
Anche l’agricoltura ebbe una bella botta. Nei posti dove si faceva la raccolta nessuno si presentò a raccogliere. I campi, le vigne e i frutteti erano desolati, si vedevano solo le distese di piante, e i padroni dei fondi, con le mani nei capelli, che bestemmiavano tutti i santi per quella tragedia. I caporali al mattino nelle piazze dei paesi avevano aspettato sui pulmini i lavoratori stranieri ma non si era fatto vivo nessuno. Pensavano, chessò, a un’addormentata globale, per cui li andarono a cercare nelle loro case o gli telefonarono. Ma il responso fu unanime per tutti: non si trovava nessuno. Essi stessi, i caporali, privati dei loro introiti truffaldini, con i padroni dei campi e con tutti gli altri delle loro famiglie, con gli amici e i parenti che riuscirono a raggranellare, si misero in ginocchio o con la schiena curva sotto il sole, e dopo almeno quattordici ore di lavoro ininterrotto, riuscirono a raccogliere una quantità irrisoria di frutti. Un’ammazzata generale. E per di più i padroni dovettero pagare, e bene, quelli che avevano lavorato per tutto il giorno. Molti frutti rimasero sulle piante, alcuni andando a male, con grave legnata economica. A ciò si aggiunse l’incertezza dell’indomani: gli extracomunitari, sarebbero tornati il giorno dopo al lavoro? Il rischio di perdere tutto il raccolto e mandare in fumo la fatica di un anno intero era concreto.
Decine di migliaia di famiglie andarono in tilt, il 3 ottobre del 2003. Al mattino aspettarono le badanti, le colf, le babysitter ma, come per gli altri casi, non si fece vedere nessuno. Migliaia di anziani e ammalati rimasero senza la loro ragazza filippina o bielorussa che se ne prendesse cura. Il loro lavoro, fatto con amore e spirito di servizio oltre che per la paga ovviamente, fu sostituito da quello approssimativo e superficiale di figli, nuore o generi rimasti giocoforza in casa ad accudirli. Lo Stato pagò migliaia di giorni lavorativi a persone che non erano andate al lavoro (tanto un certificato medico se lo procura chiunque). Ma gli anziani, si sa, non sono stupidi, e neanche gli ammalati. La sofferenza o la vecchiaia li ha resi forse più cattivi e certamente più esigenti. Cominciarono a richiedere la presenza delle loro badanti, piangevano, urlavano, per la disperazione dei parenti. Lo stesso fecero i bimbi rimasti senza babysitter: parcheggiati davanti alla televisione a guardare Uno Mattina o la videocassetta di Re Leone per la duecentesima volta, dopo un po’ reclamarono di uscire, andare al parco, e nulla vollero sapere dei dinieghi dei papà e delle mamme. Le case rimasero sporche, i cani abbandonati, le siepi non potate, i pranzi non cucinati e i menage familiari, almeno per quel giorno s’intende, andarono in malora. Certo, per quel giorno, ma il giorno dopo?
Molte scuole videro la loro utenza decimata. I duecentomila e rotti studenti stranieri della scuola italiana bigiarono all’unisono. La popolazione scolastica subì un drastico calo in molte zone del Paese. Ad esempio nella città di Prato, che ha l’otto per cento di alunni non italiani, o nelle scuole dei rioni popolari o delle periferie delle grandi città, alcune classi videro solo presenze sparute di studenti e scolari italiani. I dirigenti scolastici allertarono le segreterie che si affrettarono a chiamare le case degli allievi assenti senza altro risultato che telefoni muti. Presidi, insegnanti e bidelli assistevano increduli e terrorizzati a un fatto nuovo e terribile. Increduli, vagavano per gli edifici semivuoti chiedendosi il perché di quella situazione, congetturando possibilità e motivazioni varie per quell’assenza massiccia; terrorizzati, si chiedevano se e quanto sarebbe durata quella congiuntura che avrebbe messo in crisi molti posti di lavoro. Nella tarda mattinata di quello stesso giorno, infatti, il Ministero della Pubblica Istruzione, diramò una nota raccapricciante: continuando così le cose, la brusca contrazione di alunni avrebbe causato una forte riduzione di classi e un conseguente taglio di organico non ancora quantificabile. Certamente qualche decina di migliaia di posti di lavoro tra personale docente e non docente. Una catastrofe.
Nelle città interi quartieri si ritrovarono semideserti. L’Esquilino a Roma e tutti quei posti che vengono con alterigia identificati come le Chinatown delle nostre città, si ritrovarono improvvisamente desolati. Saracinesche abbassate e nessun cenno di spiegazione. Neanche un cartellino, foss’anche in cinese. Le famiglie che erano uscite per andare a far compere nei negozi degli orientali, tornarono indietro con le sporte vuote e le pive nel sacco. E pensare che molti padri avevano preso un giorno di permesso dal lavoro proprio per far shopping per tutta la famiglia ai magazzini dei cinesi. Eh sì, perché oggigiorno con l’Euro, il costo della vita e tutto il resto, è meglio comprare da loro: le cose sono un po’ più scarsette però hanno delle buone imitazioni, uno spende meno e fa figura lo stesso. Sì, vabbé, ma i cinesi erano chiusi, per cui quel giorno si tornò a casa o si andò nei negozi “normali”, costretti a comprare meno roba e pagarla il triplo. Anche dei ristoranti nessuno seppe nulla. Comitive intere dovettero procrastinare pranzi e cene ai Giardini d’Oriente e alle Rose di Shangai e anche i ristoratori libanesi, indiani, giapponesi per quel giorno non spignattarono e di loro non se ne seppe né vecchia ne nuova.
Anche degli sportivi extracomunitari non si ebbe traccia. Gli strapagati brasiliani, argentini e africani delle nostre squadre di calcio disertarono i ritiri e gli allenamenti con grande dispiacere e preoccupazione dei presidenti delle squadre e dei loro cassieri. La Champions League, la Coppa Uefa e il campionato stesso rischiavano di trasformarsi in incubi per molti dei club sportivi più ricchi e blasonati del nostro paese.
Altri affari andarono molto male, quel giorno. La storia non ufficiale racconta che gli sfruttatori della prostituzione e i protettori, rigorosamente italiani, ebbero la sgradita sorpresa di non trovare più le loro ragazze. Ma anche i rispettabilissimi e integerrimi padri di famiglia che tutte le sere a bordo delle loro Fiat Punto e Ford Fiesta percorrono i viali del nostro Paese alla ricerca dell’amore mercenario, si ritrovarono privati delle loro fate nigeriane, moldave e albanesi. Dovettero fare dietro-front e ritornare a casa dalle mogli in bigodini, vestaglia e ciabatte sbertucciate. Furono richiamate in servizio le vecchie battone d’un tempo, ormai chiatte e sformate, le quali prestarono la loro opera con il senso del dovere delle professioniste vecchio stampo. Quella notte le anziane pantere del materasso guadagnarono un bel po’ di lirette e forse furono le uniche a godere, in tutti i sensi, di quella situazione che sperarono si protraesse a lungo.
Analoga sorte subirono i trafficanti di sostanze stupefacenti nel ritrovarsi, stupefacendosene a loro volta, senza i loro pusher nordafricani. Nelle stazioni centinaia di tossicodipendenti vagavano frignando alla ricerca del fornitore, chi per una bustina, chi per una pista, chi semplicemente per un pezzo di fumo. Castità e rinuncia furono le parole d’ordine il 3 ottobre del 2003.
Ai semafori solo automobili. Tutta l’umanità varia che vi si affolla in giornate normali era scomparsa. Non c’erano i lavavetri polacchi, non c’erano i venditori di fazzolettini di carta, né gli strilloni a vendere il giornale del mattino, non i senegalesi con i cd taroccati e gli accendini né i cingalesi coi fiori finti. Nelle piazze delle città non si videro i venditori ambulanti di paccottiglia, con i plaid per terra e la mercanzia in vista. Non c’erano più le donne e i bambini rom a chiedere l’elemosina. Ma, ovviamente, tutti questi non li cercò nessuno.
A viale Jenner, a Milano, quel giorno, ed era un venerdì, c’era una calma irreale, come in tutti gli altri magazzini adibiti a moschee,disseminati nel nostro Paese. Gli Uffici Immigrazione delle Questure divennero posti silenziosi e quasi spettrali e gli agenti addetti a quel servizio temettero di dover tornare di pattuglia per le strade. Anche nei Municipi, alle Poste e nelle Agenzie delle Entrate vi erano interi corridoi vuoti, senza nessuno che chiedesse certificati o carte d’identità, vaglia internazionali o codici fiscali.
E immaginatevi cosa accadde nei CPT, gli splendidi Centri di Permanenza Temporanea, quelli che tutti chiamano centri di accoglienza, quando i poliziotti di guardia svegliandosi si accorsero che tutti gli ospiti si erano disospitalizzati. Erano certi che i fuggiaschi avrebbero avuto i minuti contati, non può passare inosservato un gruppo di fuggitivi numeroso. Ma ovviamente non ci fu traccia di evaso. I responsabili degli enti gestori dei CPT, alcuni dei quali piissimi e misericordiosi personaggi, furono presi da sacro svenimento vedendo i loro centri svuotati e i loro affari in fumo. Il Ministero dell’Interno, infatti, fece sapere che tutte le convenzioni venivano sospese seduta stante fino alla risoluzione del problema e, si sperava, al ritrovamento degli ospiti.
Il 3 ottobre 2003 non ci furono sbarchi di clandestini. Né a Lampedusa, né a Pantelleria o a Capo Passero. Ma neanche a Lecce o a Otranto. Nessuno varcò la frontiera tra la Slovenia e Trieste. Ma soprattutto nessuno morì in mare né nei camion né nei container per trovare riparo in Italia. Le guardie costiere non registrarono alcuna imbarcazione sospetta nei loro radar e nessun guardacoste uscì dai porti se non per normale pattugliamento. Per gli incrociatori della Marina Militare, quella che noi mettiamo a guardia del nostro mare contro eventuali invasioni di pirateria extracomunitaria, fu un giorno di calma piatta. Eppure il mare era buono e avrebbe agevolato la navigazione delle carrette del mare.
Questo è quello che successe in Italia il 3 ottobre del 2003.
***
Sì, perché il 4 ottobre, il giorno successivo, tutto tornò come prima. Come richiamati dalla stessa voce che li aveva fatti scomparire, al mattino gli operai riaffollarono i mezzi di trasporto e furono accolti dai loro compagni di viaggio italiani con un sospiro di sollievo. Le fabbriche e i cantieri ripullularono di operai stranieri malpagati e le campagne di raccoglitori sfruttati. Finalmente le famiglie rigodettero di una tranquillità che credevano perduta: gli anziani, i bambini e gli ammalati rividero le loro Dolores, le Fatme e le Svetlane e le risalutarono come svegliandosi da un brutto sogno. I professori e i maestri quel giorno furono indulgenti come non mai: riaccolsero in classe i giovani alunni stranieri senza nemmeno chiedere la giustificazione. I negozi dei cinesi, come anche i ristoranti, rigurgitarono di clienti: l’abbigliamento a buon mercato si vendette che era una bellezza e gli involtini primavera andarono via come il pane. Le strade si ripopolarono di tutta la colorita umanità di cui il giorno prima si era sentita forte la mancanza. Sui viali ritornarono le ragazze, scosciatissime e smutandatissime per la gioia dei giovanotti italici e trovare una dose di eroina non fu più così difficile. Nei CPT ritornò, normale, la vita di sempre per la gioia di vescovi, preti e misericordie varie. E in tutto ciò nessuno ebbe più il coraggio di ritornare sull’argomento. Solo qualcuno pensò che forse riparlare di diritto di cittadinanza per gli stranieri non sarebbe stata una minchiata.
Comunque, nessuno volle sapere cos’era successo il 3 ottobre del 2003. Perché il giorno dopo tutto tornò come prima e si pensò che il peggio era passato.
Infatti, durante la notte del 4 ottobre, alle 0,01, un barcone carico di immigrati partito dalla Tunisia e con a bordo un centinaio circa di uomini, donne e bambini di diversa nazionalità si rovesciò a poche miglia dall’isola di Lampedusa. Nessun superstite.

domenica, novembre 15, 2009

Petrella: “Le tre bugie indecenti del potere che parla di crisi”

La prima grande indecenza perpetrata dai gruppi sociali dominanti, in particolare dei paesi occidentali, è rappresentata dal fatto che l’impoverimento crescente durante gli ultimi trent’anni di circa tre miliardi di esseri umani non è mai stato considerato un indicatore evidente di «crisi economica mondiale». E’ bastata invece la perdita di valore finanziario di alcune migliaia di miliardi di capitali speculativi per proclamare e dichiarare con grande drammaticità l’esistenza di «una crisi finanziaria ed economica globale gravissima», tanto grave da aver condotto, secondo gli stessi dominanti, il sistema capitalista sull’orlo del baratro.Il fatto che ci siano oggi più di 2,8 miliardi di esseri umani (non piante o automobili) che «si trovano» al disotto della soglia di povertà assoluta (meno di 2 dollari al giorno), che 1,5 miliardi non hanno accesso all’acqua potabile, che 2,6 miliardi non dispongono di servizi sanitari e d’igiene, che 1,7 miliardi vivono in baraccopoli, che da 1,6 a 2,0 miliardi non hanno accesso all’elettricità, che circa 2 miliardi (soprattutto di giovani) non sanno cosa sia un impiego retribuito… tutto ciò non è – a dire dei dirigenti politici, dei manager dei grandi gruppi multinazionali e delle varie Confindustrie nazionali, dei banchieri, e degli economisti di servizio – l’espressione di una crisi economica strutturale del sistema attuale. Lo è, invece, l’esplosione dei disastri provocati da un capitalismo finanziario speculativo fra i quali il «disastro » di aver «bruciato» 24.000 miliardi di $ in titoli finanziari e quindi ridotto la ricchezza finanziaria dei ricchi e le loro orge speculative.Questa violenta mistificazione della realtà è indecente sul piano politico ed etico perché si fonda sul disprezzo profondo reale dimostrato dai gruppi dominanti nei confronti della vita di miliardi di esseri umani e del loro diritto ad una vita decente. La vita dei «poveracci» non è stata né è, al di là delle varie retoriche, la priorità della politica e della tanto venerata «crescita economica». La priorità è stata ed è data all’aumento del valore del capitale finanziario posseduto. Per i dominanti, la caduta di liquidità (la perdita di moneta peraltro speculativa) è più «critica», fa più crisi dell’aumento della fame, della sete, delle malattie, dell’ignoranza, della disoccupazione …La seconda grande indecenza, già perpetrata, è consistita nel fatto che i gruppi dominanti, rei espliciti e confessi della crisi finanziaria ed economica attuale, si sono arrogati spudoratamente il diritto di essere i pensatori ed i comandanti della soluzione della crisi; e lo hanno fatto, aggiungendo scherno e falsità alla spudoratezza, unicamente per salvare i propri interessi e far pagare i costi alle vittime della crisi, in particolare alle popolazioni più impoverite e più vulnerabili. Durante i famosi trent’anni che dal trionfo rapido della globalizzazione capitalista del mercato ha condotto alla crisi attuale, i gruppi dominanti non hanno fatto altro che proclamare gli orrori dell’intervento dello stato nell’economia e i benefici assoluti del mercato, specie dei mercati finanziari, come meccanismo regolatore fondamentale ed efficace dell’allocazione ottimale delle risorse disponibili del pianeta nell’interesse generale. A crisi esplosa, non hanno esitato un istante ad invocare in coro (da Goldman Sachs a Citigroup, da GeneralMotors a Fiat, da Rwe a Hydroquébec, daMerryll Linch a Dexia e Unicredit….) l’intervento dello Stato per «salvare il sistema» (The Economist dixit). Cioè coloro che hanno avuto il potere (anche perché eletti!) di governare lo stato, di smantellarlo, di svendere i beni comuni, di affossare l’interesse generale per privatizzare e mercificare tutto ciò che poteva essere privatizzato e mercificato (promuovendo cosi il sistema capitalista finanziario di mercato universale), questi stessi poteri hanno abusato dello stato, del denaro pubblico, per ridare liquidità monetaria alle loro banche, per rialzare il valore del capitale finanziario delle imprese di cui sono i principali azionisti, e a tal fine hanno creato più di 12.000 miliardi di moneta indebitando, così, il cittadino/contribuente generale per i prossimi 10-15 anni. Il tutto con la pretesa, chiaramente falsa, di difendere il reddito dei risparmiatori e garantire la lotta contro la disoccupazione. Che indecenza, politica ed etica!La terza grande indecenza é in corso. Essa si manifesta con le grandi fandonie che i gruppi dominanti raccontano sul fatto che la crisi finanziaria sarebbe stata risolta e che il sistema, avendo risanato le sue fondazioni, sta ora efficacemente affrontando la soluzione della crisi economica. Da alcuni mesi, i politici, gli economisti di servizio, gli imprenditori «sparlano» di ripresa economica, di strategia di uscita lenta od accelerata dalla crisi, di sintomi incoraggianti che indicherebbero che il salvataggio del sistema è definitivo e che si tratta oramai di una questione di mesi perché l’economia capitalista mondiale ritrovi i livelli di «crescita» (sic!) precedenti la crisi. L’indecenza ha origine nella convinzione che, secondo i criteri dei dominanti, la «loro» crisi è in via di soluzione come dimostra il ritorno alla pratica dei bonus strepitosi, al «business as usual» per quanto riguarda i paradisi fiscali, le società di notazione, le società di revisione dei conti, la libertà dei movimenti di capitali, le facilitazioni fiscali alle imprese, la risalita delle transazioni finanziarie per mezzo dei fondi d’investimento (hedge funds compresi) e dei mercati dei derivati. E’ vero, i dominanti sono riusciti ad imporre, senza vergogna, e a fare accettare dal popolo l’idea che il salvataggio dei loro interessi particolari di potenza e di ricchezza rappresenta la salvezza del sistema e degli interessi di tutti. Una beffa terribile nei confronti dei due miliardi di senza lavoro retribuito e del miliardo di persone con lavoro precario e reddito reale in diminuzione (su più di quattro miliardi di popolazione in età attiva).Quanto sopra mostra che l’indecenza politica ed etica dei dominanti non ha limiti. Essa è assimilabile ad un comportamento criminale. Contro tale indecenza, i cittadini hanno il diritto ed il dovere di rivoltarsi per costruire una società giusta e rispettosa del diritto alla vita per tutti. Verrà un giorno, mi auguro, in cui la giustizia dell’umanità saprà ridare diritto al diritto alla vita.

di Riccardo Petrella

[Fonte: il manifesto]

mercoledì, novembre 04, 2009

IO STO CON SANTORO (ALESSANDRO)



Tempi duri in Italia per i gay. Sono molto ma molto preoccupato per l’ondata di omofobia che sta attraversando questo Paese. Da nord a sud – persino da Canicattì, scherzi a parte – non passa giorno che non arrivino notizie di aggressioni, pestaggi e violenze contro persone omosessuali. Tira una brutta aria per i gay, le lesbiche, i transessuali. La maggior parte di questi episodi, ancorché messi in pratica da teste di cazzo di ragguardevoli dimensioni, ha anche una precisa connotazione politica. Checché ne dicano, anzi non ne dicano, i nostri rappresentanti politici, sono attacchi di stampo fascista. Ripeto, fascista. (Casomai non si fosse capito lo ripeto ancora: fascista.) La squadraccia di arditi coglioni arriva, circonda il malcapitato gay e – cinque contro uno – lo pesta a sangue, in un tripudio di saluti romani, inni al duce e insulti ripugnanti. E del resto “meglio fascisti che froci”, disse con precisa scelta stilistica, forte del suo cognome, Alessandra Mussolini, augusta rappresentante del popolo omofobo.
Purtroppo anche la Chiesa cattolica, non interviene con l’autorevolezza che ci si aspetterebbe in questi casi. Non mi pare di aver sentito – ma sicuramente sarò stato distratto – qualcosa che possa farmi dire che la mia preoccupazione per questi episodi e questo clima sia condivisa dalla Chiesa. Anzi, sui gay cala sempre un forte imbarazzo. E sì che sull’aborto, la famiglia, il fine vita, la Chiesa interviene un giorno sì e un giorno sissignore; ho come il sospetto che sui gay la Chiesa sia capace solo di fare filosofia da quattro soldi.
Solo in alcuni sporadici casi, dal popolo di Dio si ergono voci di dissenso. Una di queste è quella di don Franco Barbero da Pinerolo, che viene definito “il prete dei gay” – con la solita mania che si ha dell’etichettatura facile. In realtà è un sacerdote che ha avviato da anni in tutta Italia, dei cammini di ricerca spirituale per i fedeli omosessuali. Che finalmente si sentono accolti nella famiglia di Dio senza essere discriminati. Inutile dire che don Barbero è stato ed è ferocemente osteggiato dalla Chiesa.
Un’altra buona notizia arriva anche da Firenze, dove qualche giorno fa il giovane parrino don Alessandro Santoro ha sposato una coppia “anomala”: uomo lui, donna lei. Il busillis sta nel fatto che la signora, Sandra, era nata uomo, anzi “donna per sbaglio in un corpo di uomo”, secondo le sue stesse parole; negli anni ’70 si era sottoposta all’operazione per il cambio di sesso e qualche anno dopo lo Stato l’aveva riconosciuta donna. Da 25 anni – mica da ieri – viveva con il suo uomo, Fortunato, col quale, da qualche tempo, aveva iniziato a seguire un percorso di fede, accompagnati da don Alessandro.
Certo, non si può dire che il Nostro sia un personaggio facile. Nessun vescovo, immagino, vorrebbe averlo tra i suoi parrini. In un rione fortemente a rischio – il quartiere delle Piagge –, egli cerca di strappare i giovani dalla strada, organizza la gente facendo fare loro esperienze di vita comunitaria (Comunità di base delle Piagge), apre associazioni (Il Pozzo), giornali di quartiere (l’Altracittà), incoraggia esperienze di consumo etico e solidale, accoglie immigrati organizzando per loro corsi di alfabetizzazione e altro. Pensate che una volta ha pure digiunato per protestare contro l’ordinanza del sindaco contro i lavavetri e un’altra ancora si è presentato in gommone in Piazza della Signoria per sensibilizzare sul problema dei migranti. Ha fatto manifestazioni antirazziste, anticapitaliste, nonviolente. Che tipo! C’è un grande container (foto) dove si fa tutto, alle Piagge: ci si riunisce, si discute, si fa l’asilo ai bambini e il doposcuola agli scolari, si stampa il giornalino e tanto altro. E si celebra pure la Messa. Come nei villaggi africani, in cui la chiesa non è solo il luogo di culto ma il centro vitale della comunità.
Nella Comunità di base delle Piagge, organizzati da quel mascalzone di don Alessandro Santoro, sono sorte iniziative di indiscutibile valore sociale, quali un fondo di solidarietà (il Fondo Etico e Sociale, una sorta di banca dei poveri), un laboratorio politico (Cantieri Solidali), piccola imprenditoria cooperativistica, attività di economia alternativa (progetto Villore, di agricoltura biologica), piccola produzione editoriale (Edizioni Piagge) e tanto altro. E tutto questo non da solo ma grazie alla partecipazione attiva degli abitanti del quartiere che sono diventati essi stessi gli artefici delle loro esperienze. Non è, insomma, uno di quei bravi preti ai quali siamo abituati, quelli, cioè, che tengono aperta la chiesa per un paio d’ore e poi sono irrintracciabili per tutta la giornata. Ma che però organizzano il pellegrinaggio da padre Pio.
Non è certamente ortodosso, don Alessandro, ma almeno cerca di seguire il Vangelo. Meglio ancora, mette il Vangelo al primo posto, cosa che però mette lui al di fuori della Chiesa ufficiale, alla quale il Vangelo piace proclamarlo ma quasi mai metterlo in pratica. Lui, invece lo mette in pratica e questo è un errore che pochi nella Chiesa sono disposti a perdonargli. Il Vangelo prima delle regole, degli apparati, del magistero, della gerarchia, del papa? Non sia mai, ecco perché mons. Betori (foto), Arcivescovo di Firenze, dignitario di Santa Romana Chiesa, di recente sostituito in qualità di segretario della CEI da mons. Crociata (nomen omen!), ha sollevato il povero Santoro dalla cura pastorale della comunità delle Piagge presso la quale operava fin dal 1994. L’Arcivescovo chiede a don Alessandro Santoro “di vivere un periodo di riflessione e di preghiera” e nel frattempo ha già mandato il suo sostituto, don Renzo Rossi, 84 anni.
Sono molto triste per questa vicenda e voglio fare una serie di personali – assolutamente personali – considerazioni. La prima riguarda proprio la coppia che Santoro ha indebitamente unito in matrimonio. Perché hanno voluto sposarsi in chiesa? Non sapevano che non è possibile? Non sapevano che la Chiesa non ammette se non il matrimonio eterosessuale? Eppure io credo che i due, Fortunato e Sandra, hanno voluto proprio questo: entrare con forza, scardinando la serratura, dentro una struttura che non li vuole, proprio per rivendicare il diritto di sedere a un posto con tutti gli altri, come tutti gli altri. Se a loro non fosse importato nulla del matrimonio canonico, sarebbero andati a farsi sposare in chiesa? Magari facendo anche un cammino di fede prima di arrivare al grande passo? Eppure niente, fuori!, non c’è posto in chiesa per Fortunato e Sandra. Sembra che per lei sia una colpa, un peccato essere diventata donna. Come se un giorno, quando era ancora un ragazzo, annoiato nella sua Firenze, si fosse chiesto: Occhè si fa oggi? Si va alle Hascine? Si va a vedè la Fiorentina? No, si va a cambià sesso, nun s’è mai fatto! Non credo sia andata così. Temo ci sia dietro una dolorosa presa di coscienza e una storia di sofferenza, esclusione ed emarginazione, che alla fine l’ha portato a fare l’unico passo possibile. Di cui, peraltro, non si è mai pentita. Eppure per la Chiesa questo non è possibile. È possibile invece che arrivino ragazzetti sprovveduti, che non hanno la benché minima idea di quello che stanno per fare, di cosa sia il matrimonio e la vita in comune ma, poiché eterosessuali, vengono ammessi senza la minima discussione al sacramento. Fanno un corso prematrimoniale – una decina (forse meno) di incontri in cui si discute del nulla; poi, qualche giorno prima della cerimonia, il prete fa il cosiddetto processetto matrimoniale, una serie di domandine facili facili – che lo stesso sacerdote assicura essere pro forma – e la coppia è pronta per il sì. Se dopo un anno i due si separano senza il minimo pentimento, la Chiesa si chiede il perché della crisi del matrimonio, non chiedendosi però se, per caso, non sia anche colpa sua. E poi, cosa non sono quei matrimoni celebrati in chiesa? Il tripudio del lusso, dello sfarzo, dell’inutile, dello spreco. Per un giorno si è capaci di spendere svariate migliaia di euro. Ci sono spose che arrivano all’altare con abiti costati un patrimonio – alla facciazza di chi non mette assieme il pranzo con la cena – ma non c’è un solo parrino che si metta contro questo andazzo scandaloso. Tutti a fare le prefiche, però, quando la signora Sandra chiede alla Chiesa di sposare il signor Fortunato dentro le sua mura. No, non è questa la Chiesa in cui credo.
Ok, ma si può dire: la Chiesa ha delle regole e si devono rispettare. O dentro o fuori. Sì, ma questo chi lo dice, esattamente? La Chiesa stessa o Gesù Cristo, che della Chiesa si suppone essere il fondatore? Io vorrei conoscerlo, il parere di Gesù. Vorrei sapere la sua opinione su parecchie delle cose che succedono – per non parlare di quelle che son successe in passato – oggigiorno nella sua (?) Chiesa. Vorrei sapere cosa ne pensa innanzitutto del caso di don Alessandro Santoro e dei due sposi delle Piagge. E in generale cosa ne pensa del modo in cui gli omosessuali vengono trattati nella Chiesa, mi piacerebbe sapere. E del perché, invece, se è un prete ad essere omosessuale e magari anche ad aver commesso fatti assolutamente non edificanti, la Chiesa lo protegge e lo custodisce possibilmente contro le stesse persone da quel prete oltraggiate. Queste cose io le vorrei sapere. Ma da Gesù, mica da un prete o da un vescovo o da chicchessia.
Poi c’è anche la velata minaccia: o dentro o fuori. Dentro o fuori da cosa? Da una struttura? O dalla grazia di Dio? A non rispettare le regole della Chiesa si è fuori da essa o si è fuori dalla presenza di Dio? Ma noi cristiani (perché tale mi sento, e anche cattolico, a prescindere che qualcuno importante lo riconosca o meno) dobbiamo cercare di essere in grazia di Dio o di compiacere alla Chiesa? Dobbiamo cercare “il Regno di Dio e la sua giustizia” o il favore di personaggi porporati? E poi non capisco il perché nella Chiesa non ci possano essere opinioni discrepanti ma tutto debba essere ricondotto a una disciplina unica dalla quale non si può debordare. Non capisco, ad esempio, perché non si possano criticare le opinioni del papa, dei vescovi, dei preti. So di tantissime persone – i cosiddetti “cattolici del dissenso”, ne conosco un sacco – che amano profondamente la Chiesa eppure raramente si ritrovano in quello che viene emanato dalla gerarchia. Nella Chiesa contano quanto il “due di coppe” però ci sono. Personalmente, di essere un buon cattolico, ligio alle leggi e ai precetti della Chiesa non me ne importa più di tanto. Di essere un buon cristiano, mi importa. Io so di dover essere un giorno giudicato da Dio – è questo casomai che mi preoccupa – non dagli uomini. Io so che quando sarò al suo cospetto, egli mi chiederà conto della mia fede e di come l’ho vivificata con le opere non di quanto ho servito la Chiesa cattolica. Ho come il sospetto che davanti a lui non ci servirà essere stati dei buoni cattolici. Forse non ci servirà neanche essere stati cattolici. Altrimenti dovrei pensare che (giusto per non fare nomi) il famigerato Marcinkus – una vita dedicata a Mammona – sarà lì a godere dell’eternità in virtù del suo cattolicesimo, mentre il Mahatma – non cattolico, ahilui – brucerà nelle fiamme dell’inferno. La salvezza dipenderà da che chiesa hai frequentato o da che religione hai professato in vita? No, non riesco a crederci, a questa cosa. Del resto, Dio non è cattolico.(*)
Infine, per ritornare all’argomento, mi chiedo: che ne sarà delle Piagge? Che ne sarà di quella comunità, di quel lavoro fatto, di quel seme gettato? Pare che mons. Betori non sia mai andato a vedere ciò che è sorto grazie a don Santoro – non ne avevo dubbi – ma sono certo che qualcuno lo avrà informato. Come finirà? A leggere l'Altracittà, il giornale della comunità delle Piagge (http://www.altracitta.org), assieme al dolore per lo strappo di don Alessandro, c’è anche la fiducia e la speranza di andare avanti per la strada che il prete ribelle ha tracciato. Ma si sa come vanno queste cose. Don Renzo Rossi sicuramente avrà tanta e tale energia che non lascerà che quest’opera vada persa. Del resto, ha solo 84 anni…
E Betori ha vinto la sua personale battaglia con don Santoro. Non so col Vangelo, ma con don Alessandro sicuramente. Si beerà, Betori, di aver “messo a posto” un ribelle, un comunista (è una parola sempre utile per denigrare qualcuno), e starà sereno nella sua importante curia da dove potrà tranquillamente parlare di Cristo, del Vangelo, dei poveri e magari raccontare la storiellina tanto bella del buon Samaritano. Secondo me però è proprio lui, Betori, che avrebbe bisogno di un periodo – ma bello lungo – di riflessione, preghiera e rilettura del Vangelo (e poi essere interrogato a saltare) perché ovviamente ne sconosce i principi fondamentali, che invece Santoro oltre a conoscere mette in pratica. Innanzitutto quello dell’accoglienza. Aver sposato quei due è stata l’unica cosa che Santoro doveva fare. E l’ha fatta.
Ma questo è soltanto il mio modesto parere. Che peraltro condivido.

(*) La frase non è mia, purtroppo, ma di mons. Carlo Maria Martini – non esattamente un cretino.

domenica, novembre 01, 2009

STAVOLTA SE N'E' ANDATA DAVVERO




La cosa più superba è la notte
quando cadono gli ultimi spaventi
e l’anima si getta all’avventura.
Lui tace nel tuo grembo
come riassorbito dal sangue
che finalmente si colora di Dio
e tu preghi che taccia per sempre
per non sentirlo come rigoglio fisso
fin dentro le pareti.
CIAO ALDA.

giovedì, ottobre 22, 2009

GRATZIANEDDU



La televisione italiana ha dei grandi programmi, di qualunque genere. Si sa. Ma alcuni, non c’è niente da fare, sono più grandi degli altri. Il Grande Fratello, di Canale 5, è probabilmente il paradigma della buona televisione, quella che tra una scoreggia e una bestemmia in diretta, diverte, fa rilassare e educa milioni di italiani. Non disdegno Uomini e donne di Maria De Filippi, sempre su Canale 5, la trasmissione dei tronisti. Chi non conosce i tronisti? Giovanotti di grande bellezza ma dal neurone assenteista, che, seduti su un trono – e dove, sennò? – fanno bisticciare una ventina di signorine cacciatrici, anch’esse dalle stesse caratteristiche psicofisiche. Sempre la femminile Maria De Filippi conduce C’è posta per te, prototipo della tv del dolore, e Amici, una sorta di Saranno famosi de noantri. Ma ci sono anche dei tg molto interessanti: il TG4 di Emilio Fede, per esempio, campione di imparzialità ed equità o Studio Aperto di Italia1, al quale, se togliessero le notizie di gossip, rimarrebbe solo la frase: Buonasera, cari telespettatori.
Ecco, tutti ‘sti programmi arrivano nelle nostre case per merito delle televisioni di quel signore che, a detta del ministro Alfano, ha portato moralità nella politica. Dopo averla portata nella televisione. Ma questo l’ho aggiunto io.
Non si dica, però, che la RAI TV non si sia adeguata. L’Isola dei famosi, ad esempio, dove la mettiamo? In un posto dove ha perso le scarpe il Signore – tipo in Honduras, Brasile, Capo Verde – una ventina di personaggi più o meno famosi (recentemente mischiati a degli sconosciuti, se non sbaglio) vengono “abbandonati” in balia di loro stessi e dei loro più bassi istinti. Si vedono e si sentono le peggio cose. Gazzarre per il cesso, pianti disperati per il cibo, crisi per il freddo e la pioggia. Naturalmente anche roba di genere sessuale, molto in alto nel gradimento degli Italiani. E tutti a fintoscandalizzarsi in studio, dove una scatenata Simona Ventura arringa un manipolo di “opinionisti”.
Ecco, in questa atmosfera da collegio svizzero, quest’anno – ho sentito – vogliono infilare anche Graziano Mesina, Gratzianeddu, come lo chiamano nella sua terra, il re dei banditi sardi (foto). Non uno stinco di santo, per carità. Ed ecco cominciare a sollevarsi il solito polverone di polemiche, messo su dai soliti politici di alto rango, che, dimentichi di quanti delinquenti quotidianamente siedono al loro fianco in Parlamento, o di quali gaglioffi li hanno portati tra quegli scanni, simulano indignazione contro la partecipazione del “re del Supramonte” al reality.
Ma chi è Gratzianeddu? Un pendaglio da forca, si direbbe; uno che nella sua vita ne ha combinate di cotte e di crude, anche di molto sporche, arrivando persino a uccidere. Ha rubato, rapito, truffato; è stato arrestato un sacco di volte e 14 volte è evaso. Uno che perciò è anche entrato nell’immaginario collettivo come il migliore, benché in una categoria non invidiabile. Un personaggio non commendevole affatto al quale sono anche stati dedicati film, libri e canzoni. Uno che non prenderesti come precettore per tuo figlio, insomma.
Epperò io sono favorevole alla partecipazione di Mesina all’Isola – per quello che me ne può fregare. Dice, perché? Perché il nostro ha passato 40 anni in galera, ha scontato tutto. Se il carcere serve a far sì che chi ha sbagliato paghi, chi ha pagato è a posto. No? Mi preoccuperei per quelli che non hanno mai pagato, che profittando della loro posizione affermano diritti che in effetti non dovrebbero avere. Gratzianeddu ha pagato: che vada in tv, a quel paese o dove cavolo gli pare. Non ho simpatia per lui ma per me – ora – può fare il cavolo che vuole. Dice, e quelle persone che hanno avuto un parente ucciso? Vero, ma ripeto: Mesina ha pagato. Ha scontato la pena di aver portato il lutto in quelle case. Certo, i parenti di coloro che sono stati ammazzati da lui lo vorrebbero morto fra atroci dolori; lo Stato, invece, gli ha inflitto una pena e questa pena è stata estinta. Se la Legge è uguale per tutti, e tutti siamo uguali per la Legge, Mesina è stato uguale. Quindi sì a Gratzianeddu all’Isola dei famosi.
Piuttosto NO all’Isola dei famosi e a tutte le altre schifezze della televisione.

giovedì, ottobre 15, 2009

SORELLE D’ITALIA

Non si può dire che non ci appassioniamo alle minchiate, noi Italiani. L’ultima in ordine di tempo è la polemica, al vetriolo, che sta infiammando la penisola. No, nulla a che vedere con le prodezze sessuali del nostro premier erotomane e neanche coi migranti che muoiono a decine nel mare nostrum; non con le quotidiane aggressioni ai gay e nemmeno, mi si consenta, con la gran cazzata delle ronde padane né con la metodica, paziente demolizione di quel che resta della scuola pubblica. No. Come si permettono, no, dico come si permettono a usare l’inno nazionale per pubblicizzare delle calze da donna? È questa la polemica che sta tenendo viva l’attenzione degli Italiani. Non mi dite che non sapete di cosa parlo. La ditta Calzedonia – la stessa che fa quella promozione di calzini di cotone filo di Scozia da uomo, 5 paia a € 10, ve le consiglio – lancia una campagna pubblicitaria con uno spot in cui una serie di pezzi di gnocca si fa ritrarre con addosso le belle calze della ditta. Perché, si sa, se non sei figa non usi le calze. Vi immaginate delle donne chiatte che fanno le pubblicità ai collant? O delle cinquantenni un po’ malandate in autoreggenti?
Bella réclame, comunque. Ambienti molto suadenti; giornate di sole ma non di caldo; una donna si sveglia, una porta si apre al nuovo giorno, una corsa in moto, bambini che giocano e la città di Roma col cuppolone sullo sfondo, ben delineato. Insomma, una vera meraviglia: ci son solo persone sorridenti. Proprio come nell’Italia d’oggidì.
Epperò, cosa c’è che non va? Questi gran geni hanno usato come colonna sonora l’inno nazionale, sì, proprio quello di Novaro-Mameli: il Canto degli Italiani, meglio noto come Fratelli d’Italia. C’è una cantante che lo interpreta in modo accattivante e con bravura, aggiungerei. Nulla che faccia pensare alle carnascialate dei prepartita, quando i nostri strapagati ragazzi in maglia azzurra e mutanda bianca lo eseguono a squarciagola, stonati come mufloni, solo per dimostrare che lo cantano. Qualche anno fa ci fu un’altra polemica, quella dei calciatori che non cantavano l’inno nazionale. “E rappresentano l’Italia, e lo devono cantare, e gli altri lo cantano perché i nostri no…” Due palle così! E allora, tanto hanno fatto e tanto hanno detto che alla fine i calciatori sono stati costretti a cantarlo. Si vede chiaramente che alcuni non lo conoscono neppure e in generale lo massacrano, arrivando a cantare anche l’intermezzo potopom-potopom-potopom-pom-pom-pom-pom tra una strofa e l’altra e l’urlo Sììì alla fine del brano. Una vera schifezza. Ma almeno l’amor di patria è salvo. Sai, in un paese fascista…
Ma torniamo alle cose serie, si fa per dire. C’è chi si è infastidito, chi si è davvero arrabbiato per l’uso improprio dell’inno e chi se n’è proprio risentito. “Con il canto degli italiani non si gioca” – ha tuonato Angelo Vaccarezza, PdL, presidente della provincia di Savona; due consiglieri pidiellini della regione Liguria, Plinio e Saso, hanno chiesto all’Authority di prendere provvedimenti, giacché secondo loro lo spot sarebbe “obiettivamente – non soggettivamente (nota mia) – di discutibile gusto, inopportuno e gravemente irriverente”; Romano la Russa, coordinatore provinciale del Pdl a Milano, invece si rivolge direttamente alla ditta Calzedonia intimandole di ritirare “immediatamente la messa in onda di quella pubblicità infame”.
Ovviamente non intervengo su queste dichiarazioni. Certo, penso che questi signori ne avrebbero altre cose di cui schifarsi, se fossero seri. Basterebbe che guardassero all’interno del loro partito-azienda. Ne troverebbero; a bizzeffe ne troverebbero. Ma preferiscono guardare queste cose qua, quindi s’indignano.
Stamattina mi è venuta in mente questa roba mentre stavo chiamando l’appello in II C. Non credo ci fosse alcuna relazione tra lo spot di Calzedonia, l’appello in II C e l’inno nazionale ma fatto sta. Allora ho pensato di chiedere ai miei alunni, intanto se avevano visto la pubblicità del disonore, poi se era loro piaciuta e se avevano qualcosa da dire in merito. Poi ho avuto la folgorazione: Ma a voi, questo inno nazionale piace? E no, perché, diciamolo fuori dai denti: Fratelli d’Italia fa cagare anziché no. No, è proprio brutto, stupido forte. La melodia è una marcetta melensa e le parole, poi… Sicché ho pensato di commentarlo coi miei ragazzi della II C.
Riporto il testo e a seguire i commenti dei miei alunni, che, giuro, sono reali.

Fratelli d'Italia,
L'Italia s'è desta;
Dell'elmo di Scipio
S'è cinta la testa.
Dov'è la Vittoria?
Le porga la chioma;
Ché schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò.

· Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta. Com’è l’Italia? Seddesta? Chi veni a diri? S’è desta, si è svegliata. Non potevano dire che si era svegliata? Ma è un testo poetico. Un si capisci, provessù.
· Dell’elmo di Scipio. Cos’è l’elmo? Lermo? L’elmo. Ah, provessù, ‘u cappeddu d’i surdati. Brava, il cappello dei soldati. Ma perché era discipio? Di Scipio, maiuscolo e staccato, non discipio. E cu era Scipio? Come, Scipio, Scipione, Scipione l’Africano, il grande condottiero. Chi era nivuru? No, non era nero ma aveva combattuto in Africa, sicché l’hanno chiamato l’Africano. Era bianco. Menu mali. E che c’entra con l’Italia? Come che c’entra? Era di Roma, i tempi degli antichi Romani, li avete studiati, no? Vabbè.
· S’è cinta la testa. Chi si fici? S’è cinta la testa. Che vuol dire? Si piglià ‘a cinta e s’a misi ‘n testa? No, se l’è messo in testa. Soccu? (Cosa?) L’elmo di Scipio. Non potevano dire: e l’elmo di Scipio se l’è messo in testa? Era una poesia, scritta da Goffredo Mameli nell’800 e si sa che le poesie spesso hanno un linguaggio difficile, a volte strano.
· Dov’è la vittoria. Chi? Vittoria. Vittoria chi? Ma perché, la canzone non dice: dov’era Vittoria? No, dice: dov’è la vittoria? Mi pariva. E dov’era la vittoria? A Roma. E chi faciva ‘a vittoria a Roma?
· Le porga la chioma. Cos’è la chioma? ‘I capiddi, provessù. Esatto, i capelli.
· Che schiava di Roma Iddio la creò. Picchi, provessù? Perché cosa? Perché Dio l’ha fatta schiava di Roma? Perché Roma era la più forte di tutte quindi la vittoria era assoggettata a Roma. Mah, nenti si capisci. Ragazzi, dovete considerare il linguaggio poetico, non potete pensare con la mente di oggi, cercate di pensare con la mentalità dell’800. Seee…
· Stringiamci a coorte – dico scandendo le due o. A corte, provessù. Non a corte, a coorte. Chi è ‘sta coorti? Dai, non lo sapete? Era un’unità dell’esercito romano. Ah veru, nnu dissi ‘a provessoressa. Visto che lo sapete? ‘A tartaruca, provessù. Cosa? La testuggine, sceccu. Bravi, la testuggine; i soldati della coorte si mettevano l’uno accanto all’altro, con gli scudi ravvicinati e formavano una corazza, tipo quella delle tartarughe. Così erano praticamente imbattibili.
· Siam pronti alla morte. Chi di voi è pronto alla morte?
Nessuno ha alzato la mano, anzi, ho visto qualcuno dei più grandicelli portarsela – la mano – in zone del corpo ritenute, a torto o a ragione, apotropaiche. Ma come, non siete pronti a morire per l’Italia? Mi si stavano innervosendo. Ho lasciato perdere.

domenica, ottobre 04, 2009

FRANCESCO D’ASSISI



Non ho nessuna – ma proprio nessuna – simpatia per il culto dei santi, che invece Santa Romana Chiesa continua a tenere in vita. Mi sembra un surrogato di fede talmente basso e di scarso spessore, anche morale, che preferisco non commentare. Naturalmente faccio salva la buona fede di tante persone che dal profondo del loro cuore sentono amore vuoi per Padre Pio, vuoi per Rita da Cascia (mia madre tra quelli), vuoi per Antonio da Padova e per tanti altri.
Eppure tra tutti i santi ce n’è uno che mi incanta ed è il vecchio Francesco d’Assisi. Intanto perché mio padre da bambini ce ne parlava e ci leggeva il Cantico delle Creature; mi piacevano da morire le parole strane (mentovare, ennallumini, robustoso) e mi sganasciavo dal ridere al passo che diceva Et ellu è bellu. Parlava agli uccelli, ammansiva lupi, roba mica da ridere, comunque. Poi perché era figlio di Pietro di Bernardone, nome che alle elementari mi faceva scompisciare. Trovo che sia una figura – Francesco non Pietro – talmente moderna da sembrare ormai fuori moda da un pezzo. Mi spiego. Questo tizio, un ragazzo all’epoca, rinunziò a tutto quanto – ed era tanto – quello che possedeva per rifugiarsi tra le braccia di Madonna Povertà. La povertà, quindi, come opzione che diventa stile di vita. In un’epoca – la nostra – dove avere è tutto, un tipo come Francesco è moderno perché è di rottura. Di palle sicuramente. Puntare il dito contro l’accumulo di capitali, che genera ingiustizia sociale e disuguaglianza è di certo una cosa molto scomoda in un tempo in cui il possedere è tutto e pensare agli altri è roba da dame di carità; vestirsi di sacco nel momento in cui lo sfoggio delle vesti migliori è elevato a sistema è certamente di rottura; alzare la voce contro una Chiesa che, esattamente come il mondo, sta dalla parte dei ricchi (benché a parole sia il contrario), oggigiorno sarebbe eversivo.
Ah, se tornasse Francesco!
Beh, se tornasse Francesco verrebbe messo alla gogna mediatica, processato e dichiarato colpevole. Se tornasse Francesco, la sua voce verrebbe soffocata dalle grida scomposte di tanti che hanno i valori cristiani solo per poterli sbandierare in favore di telecamera – che è sempre meglio che metterli in pratica. Se tornasse Francesco verrebbe sospeso a divinis.

***


Altissimu, onnipotente bon Signore,

Tue so' le laude, la gloria e l'honore et onne benedictione.


Ad Te solo, Altissimo, se konfano,

et nullu homo ène dignu te mentovare.


Laudato sie, mi' Signore cum tucte le Tue creature,

spetialmente messor lo frate Sole,

lo qual è iorno, et allumeni noi per lui.

Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:

de Te, Altissimo, porta significatione.


Laudato si', mi Signore, per sora Luna e le stelle:

in celu l'ài formate clarite et pretiose et belle.


Laudato si', mi' Signore, per frate Vento

et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,

per lo quale, a le Tue creature dài sustentamento.


Laudato si', mi' Signore, per sor Aqua,

la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.


Laudato si', mi Signore, per frate Focu,

per lo quale ennallumini la nocte:

ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.


Laudato si', mi' Signore, per sora nostra matre Terra,

la quale ne sustenta et governa,

et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.


Laudato si', mi Signore, per quelli che perdonano per lo Tuo amore

et sostengono infirmitate et tribulatione.


Beati quelli ke 'l sosterranno in pace,

ka da Te, Altissimo, sirano incoronati.


Laudato si' mi Signore, per sora nostra Morte corporale,

da la quale nullu homo vivente po' skappare:

guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;

beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,

ka la morte secunda no 'l farrà male.


Laudate et benedicete mi Signore et rengratiate

e serviateli cum grande humilitate..



sabato, ottobre 03, 2009

MINCHIATINA


Giacché attraverso un periodo di blackout, vi sbatto calda calda una bella minchiatina di coq baroque - con tutto il rispetto. (Sì ma cliccate sulla figura sennò non si capisce una bella cippa)

Buon weekend.

domenica, settembre 27, 2009

giovedì, settembre 24, 2009

IO STO COI RAGAZZI DEL GANDHI


Bei tempi, quelli della Moratti. Come Ministro della Pubblica Istruzione, voglio dire. Anzi, solo dell’Istruzione. La prima cosa che fece da ministro fu quella di togliere quell’inutile aggettivo: pubblico. Fu un pessimo ministro, la Moratti. Eppure, nell’epoca di Maria Stella Gelmini, la nullità tonante del governo italiano (no, perché gli altri…), ho come un leggero, contenuto rimpianto per i tempi della Moratti, quando andavo a Roma coi miei colleghi dei Cobas della Scuola e facevamo di quelle belle manifestazioni davanti al Ministero in Viale Trastevere. Altri tempi. Adesso che agli insegnanti è vietato fare politica, tutti allineati e coperti.
Poi la letizia di tutti gli insegnanti d’Italia si è ritirata nella sua Milano, la Milano da bere. Fa il sindaco – non so se bene o male – ed è molto defilata rispetto alla grande politica italiana, quella dei Bondi e dei Brunetta, dei Gasparri e dei Capezzone ma soprattutto del più grande Presidente del Consiglio, da Romolo ai nostri giorni. Remolo compreso.
Ieri sera Letizia nostra ha anche esordito come attrice. Sì, in un teatro di Milano stava interpretando, in inglese, un testo su Abramo Lincoln. In tempi di grande tolleranza e apertura verso l’Altro, fa bene richiamare alla mente questo padre della democrazia, colui grazie al quale la schiavitù venne abolita negli Stati uniti d’America, subito dopo la Guerra Civile. Chissà cosa penserebbe oggi il vecchio presidente del pacchetto sicurezza degli amici di Letizia, la stessa che ora legge Lincoln.
Ma vabbè, bando alle minchiate e torniamo al fatto. Allora, dicevo, la Moratti, sul palco, alta, ritta, in bianconero, orchestramunita, si appresta a leggere il testo. E lo fa, anzi, lo inizia, perché a un dato momento alcuni giovani in platea cominciano a urlare, a inveire contro il sindaco. “Hanno fatto l’inferno”, diremmo a Girgenti.
Perché tutto ciò? Ho letto l’episodio. Questi ragazzi sono studenti – a questo punto ex studenti – del liceo serale Gandhi di Milano. Ai quali è stata chiusa la scuola. Non so perché, lo ammetto, non lo so. Immagino per motivi economici. Ma la chiusura di una scuola è sempre una sconfitta per tutta la società, questo lo so. Certo, per frequentare una scuola serale, niente niente sono figli di operai, i genitori non hanno la fabricheta, al mattino lavorano per pagarsi la vita e alla sera, credendo di vivere in un paese civile dove queste cose vengono riconosciute come merito, vorrebbero frequentare la scuola. E invece no, la scuola viene chiusa. E alé, andare. Hanno chiesto spiegazioni, i giovani del Gandhi, ma non le hanno ricevute. Come non sono stati ricevuti dal sindaco quando le hanno chiesto udienza; come non hanno avuto nessun cenno quando hanno fatto le lezioni in piazza o le manifestazioni davanti al Comune di Milano. Sicché hanno deciso di inscenare questa manifestazione nonviolenta – del resto, vanno al Gandhi – e hanno bloccato il sindaco neoattore.
Perché non sono stati ricevuti? Perché non hanno dato loro spiegazioni? Perché hanno chiuso il Gandhi? “Perché?”, continuava a ripetere ieri la ragazza ricciuta dalla platea. “Perché non posso studiare?” Allora, sindaco Moratti? Vuoi scendere da quel cazzo di palcoscenico e rispondi a ‘sta povera creatura, sì o no, porca puttana? Perché avete chiuso il liceo serale Gandhi di Milano?
“È la democrazia” – pare abbia commentato la Moratti ritornando sull’accaduto. È vero, è la democrazia, esattamente come chiudere una scuola senza dare spiegazioni a nessuno.

martedì, settembre 22, 2009

CIAO WESS

No, vedi, ci sto rimanendo troppo male.
Vero è che l'avevamo perso di vista decenni fa, però non bisogna mica morire per ritornare alla ribalta...
Qualche anno fa ci era ritornato in mente per via di una pubblicità con telefonini e calciatori e soprattutto quella canzone: E non ci lasceremo mai… Che poi si intitolava Un corpo e un’anima. Arrivò prima a Canzonissima
È morto Wess.
Sì, Wess, Wess Johnson, quello di Wess e Dory Ghezzi è morto proprio oggi, stanotte. Wess and the Airedales.
Ciao, Wess.

giovedì, settembre 10, 2009

TASSISTI E BERLUSCONI


I tassisti amano Berlusconi. Be’, non c’è dubbio che tra i tassisti italiani abbia avuto percentuali talmente bulgare che a Sofia se le sognano. Questo forse (e senza forse) dovuto alle famose liberalizzazioni dell’ex ministro – e prossimo segretario PD – Bersani, che, a detta degli autisti di piazza, avrebbero danneggiato a strafottere la categoria. Una sera, anzi una notte, rischiai il linciaggio all’aeroporto di Ciampino, dove un gruppo di tassisti non voleva portarci – me e mia moglie – a Roma per 30 euro (tariffa dichiarata dal manifesto affisso da loro stessi sui muri dell’aerostazione). Essi evidentemente aspettavano i turisti giapponesi o americani da spellare vivi. Venni fuori con una frase: “E poi vi lamentate di Bersani!”. Al pronunziare quel nome ho visto gente con gli occhi iniettati di sangue, sopraffatta dal furore. Mi venne risparmiata la vita solo per la presenza della mia buona moglie, ne sono certo. Per cui credo che i tassisti italiani abbiano votato a valanga per quel simpaticone.
Ma dove il Cavaliere riscuote grande successo – ben più che con le quindicenni a Villa Certosa – è tra i tassisti del resto del mondo. Successo ed estrema curiosità, invero. I tassisti del globo sono assolutamente calamitati dalla figura di Berlusconi. Lo so per certo.

Dublino, luglio 2003: io e ‘st’amico mio, Federico, prendiamo il taxi dall’aeroporto per raggiungere altri amici che ci avevano preceduto al centro della capitale irlandese. Il tassista di tanto in tanto ci fa vedere qualcosa della città e a un certo punto, mostrandoci un pub dall’altro lato della strada, ci spiega che è quello in cui il Primo Ministro, finita la sua giornata di lavoro, va a farsi la classica pinta di Guinness. “Come se Berlusconi andasse…”, faccio per dire al mio amico ma… quel nome arriva come una fucilata per il buon uomo. “Oh, Pelusconey – grida lui – Sivio Pelusconey”. Qualche giorno prima l’ineffabile Silvio aveva funestato il Parlamento Europeo, di cui era appena diventato presidente del semestre di turno, con la celebre curtigliata col deputato Schulz (il kapò, per intenderci). Assolutamente estasiato dal nostro premier – non sono certo che ci invidiasse, però –, l’amico tassista ci chiede se il nostro uomo è davvero così o magari lo fa per scherzo; se ci è o ci fa, in definitiva. Lo abbiamo assicurato che è tutta farina del suo capiente sacco. Continuando freneticamente, l’uomo ci racconta che per tutta la settimana successiva all’episodio incriminato, i giornali di tutta l’EIRE avevano dato in prima pagina resoconti di vario genere e di vario tenore sul fatto e sul suo indiscusso protagonista. Ecco perché il nostro tassista, come se fossimo suoi amici (suoi di Silvio, ovviamente) ci chiedeva notizie e informazioni sul brevilineo eroe italiano.

Buenos Aires, luglio 2008: come la gran parte degli argentini, anche il nostro tassista ha antenati – neanche poi tanto lontani nel tempo – italiani. Dopo averci chiesto – stavolta ero con mia moglie, in luna di miele, perdipiù – se fossimo italiani, il caro autista spara la domanda: “Como es la historia de Silbio Verlusconi con su secretaria que se puso ministro?” Non abbiamo capito, lo ammetto, cosa volesse dire ma continuando ci fece capire che si riferiva alla storia – notoriamente insufflata dalla sinistra becera ai media internazionali – della ministra Carfagna, colei che di fronte a cotale marcantonio pare sia rimasta “a bocca aperta”. L’amato tassista non poteva credere che fosse andata così; l’aveva sentito alla radio ma stentava a convincersene. Pertanto chiedeva a noi se la cosa fosse vera. Ma sarà vera, poi? Per come sono andate le cose e secondo recenti sviluppi, forse sotto c’è ben altro, caro tassista porteño, cose che noi umani…

Dar es Salaam, agosto 2009: il nostro tassista si chiama Iddy ed è un giovanottone nero – del resto è tanzaniano. Parla in inglese, il raccogliticcio (detto con tutto il rispetto) inglese africano, e sin dai primi momenti si rivela molto amichevole, simpatico e di piacevole conversazione. E siccome anche noi tre (io e miei amici Maurizio ed Emanuele) condividiamo le stesse caratteristiche, Iddy si apre molto. Poiché siamo italiani, si sente in dovere di consigliarci localini di una certa caratura, con donnette disinvolte, non so se mi spiego. Poi la conversazione cade sull’Italia e sul fatto che a lui piacerebbe venirci. Gli diciamo che in questo momento storico per gli immigrati non è aria, in Italia; forse è meglio che si tenga il suo bel taxi a Dar es Salaam. Ed è qui che il nostro amico Iddy non si trattiene più. “Sivlusconi – ci chiede – Sivlusconi”, in un intreccio tra nome e cognome del nostro beneamato Premier. In fin dei conti anche Emilio Fede, se ci avete mai fatto caso, lo pronunzia così. Aveva sentito alla radio – i tassisti sono tra i principali radioascoltatori al mondo – le storie di Villa Certosa, le femminette allegre e Topolanek, la festa di Noemi, le pulle di Bari e tutto il resto. Insomma, Iddy era inebriato ed è a questo punto che esce fuori al naturale: “Jik-jik – comincia a dire, mimando un rapidissimo atto sessuale sul sedile del taxi – Sivlusconi jik-jik”. Io e i miei tre fidati amici ovviamente ci sganasciamo, mentre il buon Iddy per tutto il viaggio continuerà la sua copula simulata al grido divertito di “jik-jik Sivlusconi”.

Niente da fare, Silvio Berlusconi (Sivio Pelusconey – Silbio Verlusconi – Sivlusconi) è la star di tutti i tassisti del mondo. Sono assolutamente orgoglioso di lui. E mi sto già comprando il taxi.

mercoledì, settembre 02, 2009

CIAO, TERESA

«Dopo avere insieme condiviso per quindici anni il tempo dell'amicizia, del rispetto per la vita e per la sofferenza di tutti, dopo il lungo tempo di affetto, di speranze, di timore per la sua sorte personale, Emergency annuncia la morte della sua presidente Teresa Sarti Strada.
Con la stessa apertura e con la stessa semplicità che aveva voluto per la vita di Emergency, Teresa ha accettato anche in questi suoi ultimi giorni la vicinanza di tutti coloro che hanno voluto esserle accanto. La serenità consapevole con la quale è andata incontro alla conclusione del suo tempo ha espresso il coraggio e la determinazione che rappresentano la verità della nostra azione in un'attività che ha dato senso alla sua e alla nostra esistenza. La dolcezza del ricordo coincide per noi con il rinnovo del nostro impegno per la pace e per la solidarietà.»
dal sito di Emergency

Nell’Italia di Papi e di Noemi, di Fabrizio Corona e dei tronisti di Maria De Filippi; nell’Italia degli attacchi ai gay e di Svastichella, in questa Italia del “pacchetto sicurezza” di Maroni e della “riforma della scuola” della Gelmini; c’è ancora qualcosa o qualcuno che mi fa sentire orgoglioso di appartenere a questo Paese e questo popolo.
Grazie Teresa, arrivederci.


mercoledì, agosto 26, 2009

QUASI QUASI…


Certo, la vita in Africa non è delle più semplici. Neanche per me che sto un mese e poi torno via. Il caldo, le zanzare, la mancanza di acqua (per dire le minchiate); la povertà, la malaria, l’AIDS (per dire le cose serie).
Però il fatto è che, rientrando nella bella, cara, civile, democratica, cristiana Italia trovo che 73 persone sono annegate in mare perché non sono state soccorse; i gay vengono aggrediti, picchiati, accoltellati per spasso; le controversie in famiglia vengono trattate a pistolettate… Non è che, quasi quasi, è meglio tornarsene in Africa?