giovedì, marzo 26, 2009

SUPER SANTOS



Sono nato nel 1962.
E questo potrebbe anche non significare niente ma mi pare una giusta premessa per continuare quello che voglio dire. Sono nato nel ’62, dicevo, per cui ho vissuto la mia infanzia a cavallo tra gli anni ’60 e ’70. Ciò vuol dire che non faccio parte né della generazione scampata alla guerra, né di quella del computer. Io sono un figlio del boom economico (o dell’immediato post-boom), sono cresciuto nell’Italia della Democrazia Cristiana e della Seicento FIAT, delle cucine in formica (foto) e di Italia-Germania 4-3, di Un disco per l’estate e di Rischiatutto. L’ultima generazione che crebbe nelle strade, ovviamente in condizioni certamente migliori di quelle in cui i nostri padri furono costretti a vivere. Tuttavia anche noi abbiamo attinto a quella palestra che è, appunto, la strada. E questo ci ha forse insegnato ad essere più scaltri, a sapercela cavare meglio nella vita. Può anche darsi che non ci sia servito a nulla. Ma tant’è.
Più che in una strada, i miei fratelli e io siamo cresciuti in un cortile, ‘u chianu dell’INA Casa, in Via Callicratide, nel popolare e popoloso quartiere del Sottogas. Giocavamo a calcio, insieme a tanti altri bambini, in questo cortile che a noi sembrava l’Olimpico ma che a guardarlo adesso non è che una piazzetta. E tornavamo a casa con i lividi alle gambe, le ginocchia sbucciate, i cucuruna in testa e altri infortuni simili.
Perché le partite che si giocavano erano tutt’altro che amichevoli. Nell’attesa che si raggiungesse il numero legale per organizzare una vera e propria partita, i presenti si intrattenevano nel passaggi-e-tiri-‘n’porta, una sorta di allenamento al match, nel quale il tormentone era l’esortazione del portiere: ‘Mpégnami! Quando si raggiungeva un congruo numero di ragazzini, il quorum sostanzialmente, si formavano due litigiosissime squadre nel seguente modo: tutti i partecipanti alla partita (quindi tutti i presenti) si schieravano al muro e due “bravi” sceglievano alternativamente i calciatori a partire dai migliori fino alle schiappe (anni dopo mi resi conto del perché venivo scelto sempre per ultimo). C’erano delle liti, le sciarre, propedeutiche alla formazione delle squadre ed erano tese a stabilire chi dovesse scegliere i propri uomini. La partita cominciava prima del fischio d’inizio (si fa per dire, ovviamente) con della pretattica in puro stile Mohamed Alì: Vi facemu u culu tantu, Si pparli assà abbuschi, Ti fazzu firriari, e altre lepidezze del genere. Poi si faceva la tattica vera e propria: Tu ti marchi a iddu, Isamilla ca ci vaiu di testa, etc…; e si stabilivano alcune regole, tipo il fallo laterale o la sponda, ovvero se la palla potesse rimbalzare sul muro oppure no. La regola più importante era la famosa A-tri-corner-u-rigori. Infatti i calci d’angolo non venivano battuti subito ma, quando se ne accumulavano tre, la squadra guadagnava il diritto a battere un rigore. I più scarsi andavano in porta, anche se poi ad un eventuale rigore, doveva lasciare il posto al più bravo. U paru iu!, diceva quest’ultimo, e il legittimo titolare della porta, suo malgrado, si faceva docilmente da parte.
Si davano e si prendevano calci di quelli pazzeschi. Non esisteva spirito sportivo, manco a dirlo; quando una squadra era in netta superiorità rispetto all’altra, i suoi giocatori, dopo ogni gol, si lasciavano andare a un insulso ritornello, snervantissimo per l’avversario, che faceva Eho eho, vi stamu ‘mmriacannu!, e che ogni tanto, giusto per gradire, provocava qualche sciarra. Apro una breve parentesi: la sciarra in linea di massima, era di due tipi. La prima era la scazzottata vera e propria, che consisteva nello sbinchiarisi a vastunati, con interventi degli altri compagni per dividere i contendenti o, talora, per ammiscarisi in difesa di uno dei due. In realtà era piuttosto raro che una sciarra degenerasse in questo modo; ricordo pochissime liti di tale virulenza. L’altro tipo di sciarra, certamente più diffuso, seguiva una specie di rituale sicuramente più cavalleresco, che ricorda quello, ad esempio, dei maschi dei cervi reali, quando la fanno a cornate. Non ci si partiva subito a testa bassa per darle; inizialmente ci si guardava in cagnesco, digrignando i denti, mugugnando minacce e invettive varie. Poi ci si avvicinava e ci si cominciava a dare dei reciproci colpi di petto. Una cosa spettacolare. Nel frattempo si continuavano a profferire frasi minacciose o ingiuriose. Ma quando la sciarra seguiva questo andamento, non c’era volontà di farla finire a schifìo, per cui, dopo un lasso di tempo di questo strano rimbalzo toracico, intervenivano i compagni di gioco per spàrtiri i due litiganti. I quali, da lì a poco, avrebbero ripreso a giocare assieme come se nulla fosse accaduto.
Ma torniamo alla nostra partita. Io giocavo quasi sempre in porta, per il motivo che ho detto prima, e devo dire che a un certo punto cominciai a essere considerato anche abbastanza bravino. Immaginavo, come tutti del resto, di giocare un giorno in serie A, magari in una squadra di second’ordine, posto che Cudicini, Albertosi o Lido Vieri erano praticamente intoccabili. I miei sogni di guardapali sfumarono verso la fine delle elementari con l’avvento della miopia – e degli occhiali. Nelle nostre partite non esisteva l’arbitro (neanche le regole, se è per questo), per cui i casi controversi venivano trattati uno ad uno con largo uso del turpiloquio, dell’insulto personale e familiare e della sciarra. Era tollerato il cosiddetto enzi ovvero la palla toccata col braccio. Mi chiedevo spesso cosa significasse questo strano nome e mi resi conto che enzi era solo una pessima pronuncia della voce inglese hands (mani), ma solo parecchi anni dopo aver preso la laurea in lingue e cioè in tempi recenti. Ci si davano degli spintoni terrificanti che venivano chiamati spalletta regolare ma nessuno fu mai in grado di citare la regola alla quale ci si rifaceva, tutt’al più si nominavano dei fantomatici cugini che conoscevano il regolamento a menadito e che avevano assicurato che quella spallata da scaricatore di porto era regolare.
Alcuni ragazzini si destreggiavano molto bene e per questi vi era anche un motivo in più per ben figurare: in una palazzina dell’INA Casa, una signora teneva uno “stanze in famiglia” dove erano alloggiati alcuni calciatori dell’Akragas. Ogniqualvolta costoro uscivano di casa o si affacciavano al balcone, si innescava una sorta di effetto osservatore-della-Nazionale, in virtù del quale alcuni dei giovanissimi promettenti calciatori (i più bravi, per la precisione) facevano sfoggio dei loro migliori numeri di tecnica sopraffina. Si impadronivano del pallone e palleggiavano, anche di testa, fino allo sfinimento, si producevano in dribbling (scartari) e finezze varie oppure tiravano delle poderose sufuniate, anche se con il pericolo della puntazzata e quindi del pubblico ludibrio. In ogni caso bisogna dire che i calciatori dell’Akragas erano più interessati alla figlia di una signora del pianterreno che non alle finezze dei giovanissimi frombolieri!
A volte il pallone finiva in dei giardinetti di civili abitazioni per cui occorreva che qualcuno scavalcasse le inferriate per andarlo a raccattare, col rischio, a volte rivelatosi più che fondato, di essere beccati dai proprietari, rimproverati aspramente o, perché no?, malmenati. Spesso mi offrivo volontario per questa incombenza: scavalcare mi piaceva un sacco, che posso dire? Mi destreggiavo abilmente tra fili spinati e spuntoni delle inferriate, anche se qualche maglioncino e qualche paio di pantaloni li ho pure sacrificati alla causa.
Ma il vero terrore era che il pallone, normalmente Super Santos, sfondasse il vetro di una finestra che malcapitatamente dava sul campo di gioco, anzi proprio alle spalle di una delle due porte (era la casa della signora la cui figlia era concupita dai calciatori dell’Akragas). La qual cosa a volte capitava e in questa sequenza: tiro forte, pallone seguito da sguardi inorriditi, coro di Iiinchiaaa!, sfondamento del vetro, urla della padrona di casa, e la medesima che un attimo dopo si affacciava alla finestra con in una mano il pallone e nell’altra uno strumento da taglio. Occorre anche dire che del grido di disperazione esisteva pure la frequentissima variante Iiigghiaaa!, determinata dall’impossibilità da parte di molti bambini di pronunziare i suoni nasali, visto che il naso era perennemente intasato di mòccaru. Del resto fummo tutti dei bambini muccarusi. Ma tornando all’apparizione della furibonda donna con pallone e arma da taglio, a questo punto vi erano due possibilità: se aveva un coltello, generalmente da pane, la sfera veniva aperta al suo Equatore e le due calotte in seguito usate come papaline; se aveva una forbice da sarta, si seguiva il procedimento del taglio a “buccia d’arancia” (la spirale di gomma veniva restituita). L’autore della prodezza pedatoria subiva, ovviamente, un processo sudamericano; veniva preso di mira, beccato in più modi (pedi tunni! era il migliore), soprattutto dal proprietario del pallone che pretendeva il risarcimento danni, e la partita finiva in sciarra (come sarebbe finita comunque!).
Dopodiché, terminate le ostilità sportive, tutta questa folla di piccoli calciatori si recava alla porta di una donnetta che stava al pianterreno di una delle palazzine a chiedere un bicchiere d’acqua. E la signora Arancio (questo era il suo nome), andava in cucina, lasciandoci in attesa sullo zerbino con la scritta SALVE e dopo un po’ tornava con bottiglie e bicchieri, rigorosamente di vetro, e ci dissetava, concedendoci a volte anche il bis. Ogni tanto mio fratello ricorda il grado di trasparenza e l’odore di quel vasellame, la cui opacità era dovuta ai sommari risciacqui cui erano sottoposti quei bicchieri da chissà quanti anni e l’olezzo apparteneva ad una gamma olfattiva che andava dall’acido muriatico all’olio di infima qualità. Ora, io credo che chiunque, anche la persona più gentile, ci avrebbe garbatamente licenziati dopo il primo bicchiere d’acqua – voglio dire, mia nonna abitava due piani sopra, tutti abitavamo in quelle palazzine, perché non andavamo a bere a casa nostra? –, chiunque ci avrebbe cacciato via senza tanti complimenti, ma non lei, che dispensava bicchieri d’acqua a tutto spiano con inspiegabile, ingiustificata generosità. E sì che allora, come anche adesso, ad Agrigento l’acqua scarseggiava; nei giorni della distribuzione – tutti lo ricorderanno – si riempivano decine di bottiglie, che venivano stivate sotto il lavabo della cucina, per coprire il fabbisogno della famiglia fino alla successiva distribuzione. Voglio credere che la gentile signora Arancio, venuta meno diversi anni fa, stia ancora riempiendo bicchieri d’acqua in Paradiso!

venerdì, marzo 20, 2009

PUPA’

Poi c’erano naturalmente le figurine (Panini, e basta!), i cosiddetti pupazzi o pupà. Andavamo a comprare le bustine col calciatore in mezza rovesciata acrobatica (la stessa immagine dell’album) dal giornalaio di via Manzoni ed era una gioia scartarle, buttare gli involucri per terra, ovviamente, sentire l’odore dell’adesivo che ricordava quello della camomilla, vedere quali giocatori avevamo trovato, gioire se non li avevamo ancora, restare delusi se li avevamo già. Poi prendevamo l’album per impiccicare i nuovi o mercanteggiavamo sui mancanti. Passavamo le giornate a giocarci, a scambiarceli o ad appiccicarli sugli album. Si giocava col soffio (‘u sciusciù), con l’esplosione labiale (‘u ppà), c’a malizia e senza malizia, ovvero con l’uso o meno di stratagemmi che lo rendessero più difficile, come per esempio, piegare la figurina e metterla a pancia in giù. Ci si buttava a terra senza il benché minimo rispetto per i vestiti e per la propria persona. Il primo soffiatore veniva scelto col sistema dell’io-io-iiio (detto anche tuni-tuni-tuuuni), una conta simile alla morra cinese, per cui alla fine si sommavano le dita e si contava in senso orario a partire da io o da tuni (cioè tu). Si contava sempre, tranne se usciva il numero tre; in quel caso, infatti, si diceva tri chiova – immagino l’allusione fosse ai chiodi della croce di Cristo – e si rifaceva la conta. Anche se veniva fuori il quattro si ricontava, dicendo quattru pedi ‘i sceccu. A chi toccava, soffiava per primo. Il fine ultimo del gioco era vincere tutti i pupà, ovvero spulìri (o scapulìri) l’avversario e per questo a volte si giocava d’azzardo mettendo a terra anche molte figurine. Soffiare sui pupà non era neanche semplice perché occorreva farlo bensì molto forte ma cercando al contempo di far passare l’aria attraverso la lingua a U. E, come al solito, alcuni erano dei veri e propri assi ma non mancavano i bari.
I pupà venivano scambiati, dicevo. C’era tutta una liturgia: il proponente gli scambi sciorinava il mazzo di pupà, uno ad uno a velocità supersonica e l’interlocutore, riconoscendo le effigi dei calciatori, controllava mentalmente se possedeva quelle figurine (che si dividevano in tre categorie: i giocatori, le squadre e gli scudetti) o se gli mancavano. E quindi una litania di ce l’ho, ce l’ho, ce l’ho veniva ogni tanto interrotta da un mi manca. Qui avveniva lo scambio. Se era una figurina normale – che ne so, Giubertoni, Frustalupi, Garlaschelli – veniva scambiata con un altro pezzo, o con due-tre se era una squadra o uno scudetto. Se invece era una rara, si mercanteggiava sul prezzo e alcuni mettevano in mostra spirito levantino e capacità dialettiche non indifferenti che li portava a sparare cifre improponibili anche per calciatori ordinari laddove non infimi; altri, tra cui io, che non mostravamo alcuna propensione per il commercio, a volte sbolognavamo pezzi rari a cifre risibili. Ero la disperazione di mio fratello. Riuscivano a fregarmi in qualunque modo. Vero è anche che in alcuni casi – fai conto Martiradonna del Cagliari, Bui del Torino, Pizzaballa della Sampdoria etc… – erano pupà ben spesi. Il fine ultimo era completare l’album. E qui riapro una delle ferite più sanguinolente della mia vita: io non ho mai completato un album! Quando i più attaccavano col secondo, a me mancava ancora mezzo Lanerossi Vicenza, un quarto di Verona Hellas o parte del Palermo (che so io, Tanino Troja, giusto per dire) e si era già a fine campionato. Mi vergognavo come un delinquente ma a un certo punto credo di aver dato la colpa al destino.

domenica, marzo 15, 2009

GIORNI AFRICANI - Riflessioni in forma di diario


Nell’estate del 2004 sono andato in Africa per la prima volta. E per la prima volta ho scritto un diario. Questa è ovviamente la forma breve. Nonostante ciò è piuttosto lungo ma, secondo me, molto bello. Naturalmente sarà bello solo se riuscirò a comunicare l’emozione, sennò è solo un lungo pezzo di riflessioni personali. In forma di diario.
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27 luglio. Non so ancora spiegare, neanche a me stesso, perché sto andando in Africa. Ho alcune motivazioni, in verità, ma forse ne sto cercando altre, che magari troverò soltanto quando sarò là o addirittura quando sarò tornato. E certo non andiamo al villaggio Valtur di Malindi, ammesso che esista; stiamo andando in ben altri villaggi, quelli della missione di Ismani in Tanzania, nel cuore dell’Africa nera. Comunque per il momento siamo su un aereo. Men­tre pranziamo, mi accorgo che stiamo sorvolando il deserto. Penso che in questo momento qualcuno lo sta attraversando su dei camion per raggiungere la costa, libica probabilmente. Magari qualcuno proviene anche dal paese nel quale stiamo andando io e i miei amici. I miei amici sono Roberta, la responsabile del programma di adozioni a distanza, Andrea, Elena, Vicky, Gerlando, Emanuele e Anna Maria.
28 luglio. In mattinata, molto presto, arriviamo a Dar es Salaam, l’ex capitale della Tanzania e sicuramente la città più grande e probabilmente più ricca. L’impatto con la prima città africana è abbastanza forte. Alle 7,00 del mattino c’è già un sacco di gente per strada. La città è grande, trafficata, inquinatissima. Per le strade gruppetti di persone stazionano ai bordi, forse cucinano qualcosa, c’è del fumo, molti camminano speditamente. Ci sono donne con le classiche vesti africane multicolori (le kanga); alcune di loro portano delle cose sulla testa (secchi, ceste, balle) con grande maestria. Attraversiamo delle zone in cui le case sono solo baracche col tetto di lamiera. Siamo osservati con curiosità e per la prima volta sento la parola che sentirò tante altre volte: Mzungu! Vuol dire uomo bianco, più sottilmente, europeo.
30 luglio. Oggi si parte per Ismani. Il viaggio verso la missione dura circa cinque-sei ore ma non è affatto noioso. Per strada ci fermiamo anche in un posto di sosta, subito ribattezzato l’Autogrill, dove mangiamo patate fritte, spiedini di carne e frittata, di patate ovviamente, che il tizio ci incarta grondanti olio in fogli di giornale. Lì mi rendo conto che forse per tutto questo viaggio non devo aspettarmi molto in tema di igiene. Arriviamo a Iringa nel pomeriggio e poi, dopo un’oretta circa di jeep su strada sterrata e malandatissima, a Ismani. In missione veniamo accolti da un canto e una danza di karibu, benvenuto!
31 luglio. Mi sveglio molto presto e vado in chiesa. Metà della chiesa è piena di persone, uomini da una parte, donne dall’altra, più o meno come nei nostri paesi. Si alza un canto, praticamente celestiale, con una seconda voce in registro basso da restarci secchi. Le donne sono tutte avvolte nelle loro kanga coloratissime dalle quali, ogni tanto, sbuca fuori la testolina di un bambinetto piccolissimo. Gli uomini hanno vestiti logori (mi colpisce l’assenza del concetto di moda); da questo punto di vista la differenza tra me e loro è praticamente offensiva. Dopo colazione andiamo in magazzino. È pieno di roba arrivata coi container dall’Italia e dobbiam preparare dei sacchi da portare nei vari villaggi, nel giro che faremo per le adozioni. Mi viene duro pensare che stiamo portando in dono della roba smessa e che dall’altra parte l’accoglieranno come fosse chissà cosa; come mi viene duro pensare, dal quel poco che ho visto, che l’unica cosa che il mondo occidentale fa per loro è proprio questa: mandare container di vestiti smessi e scarpe vecchie.
1° agosto. Oggi è domenica, per cui si va a messa. Non dura meno di due ore! Fanno un canto a ogni pie’ sospinto; ogni tanto entrano gruppetti di bambine danzanti e la musica è fatta di organo, tamburi e tamburelli, in più c’è un tizio che balla con le cavigliere. Mi pare che comunque tutto si svolga in una bella atmosfera di gioia, cosa che certamente manca nelle nostre chiese. Finisco all’estrema destra della chiesa, in un posto pieno di bambini. Li osservo attentamente: sono vestiti spaventosamente. Alcuni non hanno le scarpe e in generale credo che nessuno di loro abbia mai avuto nulla di nuovo. Indossano quello che noi buttiamo, e in più, quello che gli tocca in sorte dal magazzino, per cui si vedono magliette di tutti i tipi (furoreggiano quelle di una parrocchia di Ravanusa), giacchini e completini che qui da noi andavano dieci anni fa. Siccome è domenica, le bambine soprattutto, hanno la roba più bella, non importa se è un giubbotto in pyle e fa un caldo porco; alcune hanno vestitini di tulle e merletti che le nostre bambine non metterebbero più neanche sotto tortura. Qui sono l’ultima frontiera del lusso.
3 agosto. In mattinata andiamo al villaggio di Mikong’wi, dal quale iniziamo il nostro giro, e qui visitiamo la scuola e ci intratteniamo coi bambini. Il loro corredo scolastico è costituito da un quaderno e una matita e basta. Penso ai miei alunni con gli zainetti Invicta con dentro penne nere blu rosse verdi, quaderni grandi e piccoli, pennarelli, gomme e matite, colori a cera a spirito e di legno, astucci temperamatite bianchetto diario ma anche evidenziatori forbicine e colla oltre che compassi righe e squadrette. Perché tutta questa differenza? Dopo la messa, facciamo il lavoro delle adozioni. La cosa è piuttosto semplice anche se a lungo andare pesantuccia: il bambino o la bambina già adottati, accompagnati da un familiare, vengono ascoltati su come vanno a scuola, sulla famiglia e tutto il resto; dopodiché si fa loro una foto da mandare alla famiglia adottante e gli si dà il famoso sacchetto con il vestiario e i quaderni. Poche volte i bambini vengono coi propri genitori. Per il semplice fatto che non li hanno. L’AIDS sta decimando la popolazione della Tanzania e in generale dell’Africa, ovviamente nell’indifferenza della comunità occidentale. A Mikong’wi abbiamo 40 bambini e 16 nuove adozioni. Alla fine del lavoro la signora Ernestina ci invita a pranzo. Mangiamo ugali, la polenta bianca e solida di farina di mais, che abbiamo imparato a mangiare facendone palline e intingendole nel brodo di pollo o nella zuppa di fagioli. Alla fine del pranzo ci offrono Coca-Cola, Fanta e Sprite. Eh, sì, perché dimenticavo di dire che qui in Tanzania tutto manca tranne la Coca-Cola. Ce la offrono quasi fosse uno status symbol, una cosa che li avvicina a noi, come a dire “beh, non siamo poi così distanti, anche noi abbiamo la Coca-Cola”. Spesso quando andiamo in giro per villaggi sulle strade polverose e scassate ci capita di incontrare il camion rosso e maestoso della Coca-Cola Company.
4 agosto. Di mattina diamo una mano in magazzino e al sanatorio, per trasferirlo dal vecchio sito al nuovo, una delle casette di questo nuovo quartierino che stanno costruendo con le raccolte per la missione e che si chiamerà Nyumba Yetu, la nostra casa. Con noi c’è Emanuele, un giovanissimo medico napoletano che se potesse curerebbe tutta l’Africa; sono molto colpito dal suo spirito di servizio, dalla sua forza interiore e dal suo entusiasmo. Nel pomeriggio andiamo al villaggio di Kigasi, dove mi sembra se la passino abbastanza male. Mi pare, infatti, di riscontrare alcune differenze tra un villaggio e l’altro. Kigasi mi pare proprio messo male. Ed è qui che penso a tutta l’ipocrisia dell’occidente verso il Terzo Mondo, in particolare mi vengono in mente le riunioni del G8, dove gli otto più grandi buffoni della Terra si riuniscono, blindano intere città, reprimono il dissenso e dicono di voler risolvere i problemi del mondo. Non c’è dubbio: non hanno mai parlato di Kigasi.
6 agosto. Ieri siamo andati a Igula mentre il villaggio di oggi si chiama Usolanga. Vi operano delle missionarie laiche: Maria Ausilia, che ricorda istintivamente Ugo Tognazzi (in suo onore organizziamo una supercazzola prematurata) e Rita, una donnetta canuta di Cuneo che non si riesce a far stare zitta. Hanno messo su un piccolo ospedale di maternità e pediatria dove le donne vanno a partorire o a curare i bambini malati. C’è anche una giovane donna masai con due minuscoli gemellini nati di sette mesi, tutti pelle e ossa. Rita è pessimista sulla loro sopravvivenza.
8 agosto. Ieri il villaggio di Chamndindi è venuto in missione per le adozioni, stamattina, invece, si va a Ikengeza. Alla sera, mentre stiamo in missione becco Emanuele e Andrea che parlano di una cosa alla quale penso da alcuni giorni, e che mi spaventa un po’. E cioè del fatto che a lungo andare ci abituiamo alle cose che stiamo vedendo; la miseria più nera, il bisogno, la siccità, la malattia rischiano di diventare ai nostri occhi, cose normali, già viste. E se da una parte questa sorta di spirito di sopravvivenza ci aiuta a superare situazioni difficili, dall’altra ci fa rischiare di considerare come normale questa realtà durissima e in qualche modo di perderne il contatto e il senso della gravità. E del resto, se i primi giorni trovavo terrificante vedere bambini scalzi, adesso, dopo una settimana quasi non ci faccio più caso, eppure sono gli stessi bambini di prima. È, appunto, lo spirito di sopravvivenza o una patina di più vile cinismo?
9 agosto. Nel pomeriggio vengono in missione i villaggi di Ivangwa e Khiorogota. Stamattina ho ricevuto un messaggio al telefonino che diceva che ad Agrigento c’è una nuova emergenza immigrati. Stanno cercando disperatamente dei posti dove ospitare qualche decina di persone che da giorni dormono alla stazione. Pare sia cosa abbastanza seria e mi dispiace non esserci anch’io. La sera, a cena, il sarto Fabian e mama Samueli la dottoressa, vestiti in costume tipico, ci fanno dono di due polli e di farina di mais per ringraziarci del lavoro che stiamo facendo per loro. Sono commosso e sopraffatto dalla loro semplicità e generosità.
10 agosto. In mattinata prepariamo sacchetti in magazzino, di pomeriggio andiamo al villaggio di Iguluba dove, dopo la messa, facciamo la solita storia delle adozioni. Ogni bambino è portatore di una storia tragica, che parla di padre o madre o entrambi i genitori morti, perlopiù a causa dell’AIDS; di nonne o zie o talora vicine di casa che si prendono cura di loro e di altri 4-5 fratellini; di mamme andate via e mai più tornate e delle quali non si sa più nulla, etc… A volte è il bambino stesso a non presentarsi e alla nostra richiesta di dove sia, qualcuno ci risponde “he died”, è morto. Quelli che vengono sono vestiti in maniera terrificante, a volte al limite del ridicolo (se a qualcuno di loro la lotteria dell’abito usato ha concesso in sorte un pigiamino, quelli vanno in giro in pigiama, non si scappa!). In loro però riconosco dei segni, gli stessi che ritrovo nei bambini italiani. Sono allegri, scherzano, ci guardano e ridacchiano tra di loro, ci prendono in giro. Questo mi dà speranza: sono bambini normali. Sono bambini.
18 agosto. Ieri pomeriggio abbiam fatto le adozioni del villaggio di Ngano. Oggi mattinata libera, per modo di dire visto che c’è da dare una mano a Elena e Andrea in magazzino, e di pomeriggio adozioni del villaggio di Uhominyi. Oggi sono un po’ triste perché a casa c’è il battesimo di mia nipote, Sofia. Mio fratello avrebbe voluto che il padrino fossi io. Vorrei trovarmi a casa, almeno per oggi, con la mia famiglia e i miei nipoti e dir loro della fortuna che hanno avuto.
19 agosto. Si prevede un’altra giornata pesante visto che oggi dobbiamo andare in due villaggi: Nyang’olo e Kibaoni. Nel primo ci fanno un’accoglienza splendida. C’è un coro di ragazzine che canta canzoni di benvenuto. Anche le adozioni vanno molto bene. Roberta è bravissima, tutto fila senza intoppi e alla fine ci sono degli altri canti e balli di ringraziamento. Non c’è dubbio: mi unisco al ballo! Il canto si svolge così: il coro intona il ringraziamento, fai conto alla Madonna, poi il capocoro dice qualcosa tipo “i vestiti”, e tutti “grazie per i vestiti”; poi “il sapone”, e tutti “grazie per il sapone; “i quaderni”, “grazie per i quaderni” e così via. Non so se mi spiego, un intero villaggio ci ringrazia per dei pidocchiosissimi vestiti usati. Così va il mondo. Poi ci invitano a pranzo e ci danno la Coca-Cola. Meno male!
20 agosto. Stamattina andiamo a Makadupa. Il villaggio è veramente messo male; si trova in mezzo ai baobab e ha una minuscola chiesetta di fango. Prima di cominciare vengo assediato da un gruppo di bambini che mi stanno addosso per vedere il telefonino, col quale sto armeggiando; mi sembra di essere un marziano. Quando lo faccio vedere ai miei alunni, praticamente mi mortifico: tirano fuori cellulari supertecnologici con macchina fotografica, suonerie polifoniche e tutto il resto. A Makadupa c’è una ragazzina di dodici-tredici anni alla quale il destino ha giocato uno scherzettino niente male. Praticamente cammina poggiando non sulla pianta del piede ma sul collo. Non è facile da capire, anch’io ci ho messo un po’, poi mi sono accorto che aveva i piedi completamente capovolti. Tuttavia camminava abbastanza bene, per quanto si aiutasse con un bastone. In Italia l’avrebbero operata da piccola e le avrebbero dato un’infanzia normale. Ma qui non siamo in Italia, qui siamo in Africa.
21 agosto. Di mattina viene il villaggio di Mangawe, di pomeriggio Ndolela. E di quest’ultimo villaggio era un bambino di circa tre anni. Mentre andava via, Roberta ci ha detto che aveva perso la mamma sette giorni prima. L’ho guardato mentre si allontanava con un ragazzo, probabilmente un vicino di casa, che era venuto con lui perché nessuno aveva potuto accompagnarlo. Credo non lo dimenticherò mai più.
23 agosto. Dopo pranzo andiamo a Mkungugu. Lì c’era, tra gli altri, una bambina di un paio di anni che vive con la bisnonna. Quelli delle generazioni di mezzo erano tutti morti. Che cura può avere una bisnonna ultraottantenne di una bimba di due anni?
24 agosto. Oggi alla missione viene il villaggio di Lugolola per le adozioni. Mi sconvolge sempre vedere questi gruppi di persone, perlopiù donne e bambini, seduti a terra per delle ore, aspettando un sussidio che viene loro solo dalla buona volontà dei singoli e non certo da quella dei governi degli stati ricchi. Alla fine delle adozioni, seduto su uno sgabello cercando di rilassarmi comunico una riflessione a Karolo, uno dei seminaristi della missione. “Pensa un po’ – gli dico – pensa se il costo di una sola delle bombe che giornalmente vengono sganciate sulle città dell’Iraq venisse usato per sfamare la gente. Credo si riuscirebbe a sfamare il villaggio di Lugolola per almeno un anno, no?” Mi guarda in maniera compiaciuta, quasi avesse davvero trovato il modo per sfamare Lugolola. Lui a questo non ci aveva mai pensato eppure come riflessione, lo ammetto, non mi sembrava un granché.
25 agosto. Oggi facciamo i villaggi di Mkulula e Nyakavangala e finiamo il giro attraverso le vite devastate dei tanti bambini della missione di Ismani: vite vissute al ritmo della miseria, della precarietà, della malattia e della morte. L’ho già detto ma mi colpisce questa cosa che raramente un bambino ha entrambi i genitori vivi, quando capita ce lo comunichiamo come fosse cosa rara. E difatti lo è. L’AIDS sta ammazzando un popolo e sta lasciando soli milioni di bambini, il tutto sotto lo sguardo finto commosso dell’Occidente, al quale appartengo, che guarda dalla finestra questa scena di morte e devastazione e non si decide a porre fine al massacro.
26 agosto. Oggi è l’ultimo giorno alla missione, domani si parte, per cui la giornata dovrebbe trascorrere tra lavoretti di routine e preparazione di valige. C’è anche il tempo per un filo di bucato (tanto, per quanto lavi, le cose rimangono sempre gialline). In tarda mattinata andiamo alla Secondary School di Ismani. Di insegnanti neanche l’ombra, per cui ci intratteniamo con dei ragazzi di una classe ai quali non è sembrato vero di fare una pausa. Uno di loro a un certo punto, mi chiede a bruciapelo “come mai voi che siete di un paese ricco venite in un paese povero come questo; cosa potete fare per noi?” La domanda mi mette profondamente in crisi, anzi mi fa sentire una vera merda. Difatti, cosa possiamo fare per loro? Questa è una delle cose che sto capendo da questo viaggio in Africa: per quanto tu faccia qualcosa per loro, hai come l’impressione di non aver fatto nulla. C’è talmente tanto da fare che tutto quello che fai è molto simile a zero. Nulla cambia e tutto rimane come prima. La sensazione di impotenza mi lacera. Alla sera, a cena riceviamo il saluto di tutti e il loro ringraziamento. Credo dovrei essere io a ringraziare loro
31 agosto. Dopo qualche giorno a Dar es Salaam, oggi ripartiamo per l’Italia. Dall’aereo rivedo il deserto. Credo di aver capito, adesso, cosa spinge i migranti a partire da casa propria e tentare questo viaggio terrificante nel deserto; credo di aver capito cosa li spinge a saltare su un barcone e affrontare il Mediterraneo. Certo, è il bisogno di fuggire da condizioni di vita inumane. Ma quello che non capisco è perché al loro arrivo in Italia tutto quello che troveranno sarà un comodo CPT o un veloce aereo che li riporterà in Libia. Ma questa è un’altra storia.

giovedì, marzo 12, 2009

Que pasò hoy?


BAGHDAD: Tre anni di carcere a Muntazar al-Zaidi, lanciatore di scarpe di Baghdad e mio idolo personale. Il giovane giornalista è stato riconosciuto colpevole da un tribunale del suo paese ma non dalla sua gente. E, per quello che può valere, neanche da me. L’uomo – ma non c’è chi non lo ricordi –, durante una conferenza stampa del terrorista internazionale George Bush (foto), si tolse le scarpe e al grido di “cane”, le scagliò addosso al più imponente pezzo di merda che la storia degli ultimi decenni ricordi. La scarpa è un oggetto impuro per gli islamici – basti pensare che nei luoghi di preghiera, le tolgono – così come il cane tra gli animali. Il buon Muntazar lo accusava di essere il capo delle truppe di occupazione e di aver fatto inutili sfracelli in quel paese. Del resto, lo stesso Bush qualche giorno prima aveva dichiarato l’iniquità della guerra in Iraq. Poi, con la faccia di culo che il mondo intero (tranne uno) gli riconosce, andò in Iraq a far sfoggio di sentimenti di amicizia. E lì le scarpe di al-Zaidi.
Bene, tre anni a Muntazar: quanti anni a George Bush?

NEW YORK: È noto che io non nutro particolare simpatia per gli Stati uniti d’America. Eppure devo riconoscere che su certe cose sono molto seri. Il signor Bernard Madoff è un grosso finanziere americano – ex vicepresidente del Nasdaq –, reo di aver truffato molte migliaia di risparmiatori. Egli è uno di quei magnati, rappresentante di quel capitalismo finanziario che negli anni ci ha preso per il culo, facendoci credere che il denaro è in grado di riprodurre se stesso; che basta pigiare dei bottoni nelle stanze giuste perché i soldi si moltiplichino. Ebbene, le cronache di questi giorni ci stanno confermando dolorosamente che non era vero nulla, col risultato che per colpa di questi disgraziati, la gente è con le cosiddette pezze al culo. Ebbene, stamattina Mr Madoff si è dichiarato colpevole e il giudice, per tutta risposta, ne ha disposto l’arresto immediato. Da scontare in carcere e non nel lussuoso attico di Park Avenue, dove il poveretto era recluso.
Per la cronaca, Madoff rischia qualcosa come 150 anni di carcere. E non diventerà mai presidente degli USA. Ogni differenza con l’Italia viene lasciata al buon senso e al buon gusto di ognuno.

KHARTOUM: Tre operatori di Medici senza Frontiere – due medici e un’infermiera – sono stati rapiti in Sudan. Il vicentino Mauro D’Ascanio, col collega francese Raphael Meonier e l'infermiera canadese Laura Archer sono attualmente in mano a un gruppo di banditi. Pare che il terrorismo non c’entri nulla e il rapimento sia solo a scopo di estorsione. Ecco, ci sono ancora oggi dei miei connazionali che mi fanno sentire fiero di essere italiano. Oltre a quelli che la sera indossano pettorine verdi per andare a caccia di immigrati, ci sono anche degli uomini e delle donne “di buona volontà”, che mettono il loro sapere e la loro professione al servizio della collettività. E sì, perché andare in Darfur a curare persone che non hanno accesso neanche all’acqua potabile, senza chiedere nulla in cambio, significa prendersi cura del mondo, di cui si sentono responsabili. Da piccolo dicevo che avrei fatto il medico; poi fui sedotto dal mondo della scuola. Se fossi stato un medico probabilmente anch’io sarei andato in giro per morti di fame. Ma probabilmente no.

domenica, marzo 08, 2009

AKRAGAS – NISSA



Ho scritto questo pezzo qualche anno fa, per ricordare di quando, bambino, andavo a vedere la mia squadra del cuore, l'Akragas.

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Due motivi mi stanno spingendo a scrivere questa cosa. Il primo è che l’altro giorno ho finito di leggere “Febbre a 90°” di Nick Hornby, un inglese, libro carino, autobiografico tra l’altro, che parla del rapporto di questo tipo qua, l’autore, con la sua squadra di calcio del cuore, l’Arsenal, e di come la sua stessa vita abbia ruotato attorno a questa storia. Ora, se vivi a Londra, però, e tifi per l’Arsenal puoi permetterti anche il lusso di scriverci un libro ma se vivi a Girgenti e tifi per l’Akragas, le cose si complicano un tantino. Un libro te lo scordi, tutt’al più puoi vedere se viene fuori qualcosina simpatica tipo questa che sto cercando di scrivere io. Bah!
Mio padre cominciò a portarci allo stadio (al campo si diceva allora e si dice tuttora a Girgenti) alla fine degli anni ’60. Mio fratello ed io eravamo sempre molto contenti di andare anche se, in effetti, di calcio ne capivamo pochissimo e quelle due ore le passavamo più a divertirci con altri bambini che a guardare la partita. A dire il vero anche adesso non ne capisco molto mentre mio fratello anche allora se ne intendeva di più. Ma il bello di andare al campo era tutto quello che ci stava attorno.
Le domeniche si dividevano in tre categorie: quelle in cui non c’erano partite, quelle con l’Akragas in casa e quelle con l’Akragas in trasferta. Naturalmente la nostra preferenza andava a quelle della seconda categoria perché la partita in casa rappresentava un momento di estrema gioia. Poteva anche capitare che per qualche motivo non si potesse andare ma erano casi rari. Papà, oggi ci andiamo al campo?Sì!, e la felicità si impadroniva di noi. Frasi come Oi ioca l’Agragassi o Mangiamo un po’ prima, ché dobbiamo andare al campo, erano per noi fonte di letizia grande. Pasta al forno, cotoletta e cannolo. Poi si usciva di casa e c’era il raduno; si suonavano i campanelli di una quattrina di condòmini compagni di partite, o loro suonavano da noi, e si scendeva. Si va in macchina o a piedi? – normalmente si andava a piedi (abitavamo in via Acrone, a sì e no trecento metri dal campo, porca miseria!) ma la domanda veniva fatta lo stesso, come ugualmente venivano date le risposte Amunì a pedi, lagnusi!. I nomi delle squadre avversarie li sentivamo con regolarità annuale ed erano quasi sempre gli stessi: l’Amat e il Cantieri Navali di Palermo, la Termitana di Termini Imerese, la Folgore di Castelvetrano, il Marsala, le calabresi Juve Siderno e Morrone Cosenza, la Massiminiana (del mitico presidente Massimino) di Catania, la Leonzio di Lentini, la Nissa di Caltanissetta e qualche altra. Il tragitto verso lo stadio era emozionante (ahò, stiamo parlando di bambini di otto-dieci anni); andare all’Esseneto per noi spiritualmente equivaleva ad andare all’Olimpico o a San Siro; si parlava di classifiche, di calciatori, delle trasferte e nel frattempo si arrivava giù al campo, dove trovavamo già una certa agitazione. Questo era veramente elettrizzante: gente che andava di qua o tornava di là, chi si chiamava da lontano, chi faceva pronostici (sempre a favore dell’Akragas). Ogni tanto si vedeva qualche compagno di scuola e si chiamava, rigorosamente per cognome. Indi si faceva la colletta per i biglietti: il volontario, tra i grandi naturalmente, raccoglieva i soldi e si intrufolava nella ressa ai botteghini; lo vedevamo sparire tra la folla per riemergere qualche minuto più tardi coi tagliandi in mano. Tribuna laterale. Noi, essendo bambini, non pagavamo, però spesso non entravamo tutt’e due assieme a papà; uno di noi entrava con uno dei compagni di partita per evitare che gli inservienti al cancello addetti a staccare i biglietti facessero discussioni. E lì c’era un nugolo di altri bambini che chiedevano agli entranti di spacciarli per loro figli e non pagare il biglietto. Lo ammetto, questa cosa mi intrigava alquanto e un po’ li invidiavo, quei bambini. Gli stessi alla fine dell’incontro, ad un’eventuale risultato positivo per l’Akragas, avrebbero cantato vittoria vittoria sulle note di “Fratelli d’Italia”. Salivamo le scale e vedevamo di fronte a noi la gradinata e il terreno di gioco coi calciatori che già sgambettavano da qualche minuto e nuvole di polvere che si alzavano (il campo, giova ricordarlo, era in terra battuta). Era uno spettacolo che amavo oltre ogni dire (non provai più la stessa sensazione fin quando, molti anni più tardi, non entrai nello stadio di Wembley e ne rimasi esterrefatto).
A quel punto si celebravano due riti.
1) Un’autobotte entrava in campo e lo irrorava per migliorarne le condizioni, e con degli spruzzatori situati nella parte anteriore disegnava una spirale oblunga che dall’esterno si restringeva fino a chiudersi a centrocampo e
2) un inserviente, il claudicante custode per la precisione, entrava in campo con una stranissima carriola che rilasciava dietro di sé una stria di gesso allo scopo di rifinire le linee del campo di gioco. Sia chiaro che entrambe le attività per noi erano degli esercizi di stile supremo.
Queste operazioni avevano come sottofondo sonoro l’altoparlante che diffondeva musica ma anche inserzioni pubblicitarie offerte dalla ditta Pubblilancio. Ricorderò (perché sono le uniche che ricordo) soltanto quelle delle candele Lodge e degli orologi Bulova (Bulova, l’orologio dell’era spaziale!Se pensate a un regalo, pensate a Bulova!Bulova Bulova Bulova!). E finalmente l’annuncio più atteso: Diamo lettura delle formazioni. Ovvio il tripudio di applausi che accompagnava i nomi dei calciatori dell’Akragas, altrettanto ovvia la bordata di fischi all’indirizzo degli ospiti. L’annuncio terminava con: Arbitro Signor …… da ……, e fischi e improperi (preventivi!) per la terna arbitrale.
Dopodiché si cominciava. Amavo più d’ogni altra cosa le manfrine iniziali, l’ingresso dei calciatori, il saluto al pubblico, la monetina, le strette di mano, lo scambio dei gagliardetti, il controllo delle reti da parte dei guardalinee, il fischio d’inizio, le urla dagli spalti. E in quei momenti avrei dato qualunque cosa pur di fare il raccattapalle. Un momento altamente liturgico era quando la squadra posava per le foto di rito, come sempre fatte (anzi tirate) dal Cav. Piro e dal Sig. Arena, compianti fotografi ufficiali del campo. Durante la settimana, poi, queste foto venivano affisse nelle bacheche all’aperto dei due studi fotografici, in via Atenea, e si andavano a vedere cercando di rintracciare i nostri volti tra le centinaia fotografati in tribuna. C’era anche il rito del sale. Un anziano signore lanciava in campo dei pacchi da un chilo di sale che dice che porta bene, poi qualcuno in campo rimuoveva il cellophane del pacco e restavano gli scaramantici montarozzi. Mio padre e gli altri sedevano più o meno al centro della tribuna, mentre noi ragazzini potevamo stare giù, a livello del terreno di gioco o nei fossati tra gli spalti e la rete di recinzione, a fare tutt’altro che guardare la partita.
Ma ricordo che ci divertivamo sempre soprattutto a guardare le persone, a sentire quello che dicevano, tant’è vero che ancora oggi ricordiamo alcune frasi sentite allora, tipo Colpa tua, Turcato! o Con quei capelli impiccicosi e lurdi! o ancora Pappalettera, s’accucummara! Ogni tanto infatti qualcuno sosteneva che si fosse iniziato a giocare con un pallone accucummaratu e si sentivano anche litanie di bestemmie molto fantasiose (cantante, brutto, americano…) oltre agli evergreen della blasfemia. Altri ancora portavano con sé lo strumento più popolare del pomeriggio sportivo: la radiolina. Alcune erano abbastanza nuove e funzionali, spesso regali delle prime comunioni dei figli. Altre erano apparecchietti assemblati grossolanamente dagli stessi proprietari che univano i fili della radio ad una pila di quelle grosse e li tenevano assieme con dello scotch da elettricista o con un elastico, preferibilmente di quelli a banda larga (in taluni casi si trattava di camere d’aria tagliate in sezione). Poco funzionali, difficili da sintonizzare, con le antennine praticamente inservibili, erano tuttavia utilissime perché le voci basse e gracchianti di Bruno Ameri, Sandro Ciotti, Alfredo Provenzali e gli altri, opportunamente amplificate dai proprietari delle radioline (Golli d’o NapoliCu signà?Cané), aggiornavano i presenti sui risultati dei campi importanti, quelli della serie A. A volte si formavano addirittura dei capannelli attorno alla radiolina. Una delle minacce più ricorrenti era quella di tirare la radiolina all’arbitro. Un altro aggeggio piuttosto popolare era il cuscino da stadio che molti tifosi portavano con sé per attutire la durezza del contatto tra il sedile di cemento e le proprie terga. Erano cuscini rettangolari, che si aprivano a libro, recanti le insegne delle maggiori squadre italiane, l’Inter, il Milan e la Juventus. Non mancavano, per la verità, anche cuscini ordinari da sedia di cucina. Nei momenti da massima tensione se ne vide volare più d’uno.
Noi ragazzini spesso stavamo attaccati alla rete di protezione per vedere da vicino i giocatori che battevano il fallo laterale. Mi dispiaceva e sin d’allora mi disgustava quando qualcuno si scapicollava giù dalla tribuna e sputava ai guardalinee (e poi ‘sti signori correvano per il resto della partita con degli scaracchi verdastri attaccati alla giacchetta nera), magari apostrofandoli con un bel “segnalino, cornuto”. Non c’era il tifo organizzato, come adesso, per cui il massimo della coralità era il classico Akragas seguito da un triplice, veloce battito di mani, oppure il grido spontaneo A-gri-gge-ndo, eseguito da tutti ad un ritmo sempre crescente e accompagnato dal battito delle mani a sfumare. A fine partita, si vedevano dei falò in gradinata, perché qualcuno, chissà perché, andando via appiccava il fuoco a dei giornali, lasciandoli in fiamme sugli spalti.
L’Akragas, dacché la ricordo io, si è sempre distinta per la sua pochezza tranne in un periodo, negli anni ’80 (non posso essere molto preciso con le date) in cui raggiunse la serie C1. Questo fu il massimo del suo splendore ma io non ne parlerò. È retrocessa diverse volte, è fallita diverse volte e diverse volte è rinata in seguito ad alchimie societarie che mi è sempre stato difficile comprendere, figuriamoci spiegare. Era poca cosa, dicevo, giocava in serie D, ma per noi era la nostra squadra, rappresentava la nostra città e ci aggregava intorno a dei colori, quelli biancazzurri, di cui tutti andavamo fieri. Eravamo orgogliosi della nostra città, allora! Lo stadio era pieno di gente e i calciatori erano degli eroi. Non sto scherzando: il roccioso Nardi, il basso Penna, il bruno Guerra, Muffato all’ala destra e Lovise ‘n porta, Zamengo e Di Fatta, Ferrari e Ferranti, Mascheroni e Brogiotti, tutta gente che non ha lasciato alcuna traccia nel calcio italiano. Tutta gente, però, che ha radunato una città intorno a qualcosa di concreto: il pallone. Le partite avevano tutte una storia che francamente non ricordo bene; non so dire che una partita in particolare mi sia rimasta impressa ma posso parlare, se volete, dell’uomo che vendeva chewing-gum, ghiaccioli e mentine Tic-tac. La sua vanniata era: Cionghi cionghi ghiaccioli cionghi.
Come in tutti i campionati di calcio le partite più importanti erano quelle con la capolista o gli scontri con le avversarie dirette. Ma la partita che conservava sempre un fascino tutto suo, quella che importava a tutti a prescindere dalla posizione in classifica, il derby dei derby, in una parola la madre di tutte le partite, era una sola: Akragas-Nissa. Era sempre la partita dell’anno, talmente importante che era l’unica che godeva dell’onore della trasferta. Grazie a dei parenti di certi amici (uno di quei compagni di partite) che ci invitavano a pranzo, a volte si andava a Caltanissetta e si passavano delle belle giornate anche se noi bambini non potevamo andare allo stadio perché ritenuto pericoloso; immagino non fosse certo più pericoloso di quando la Nissa veniva ad Agrigento, ma tant’è! Quando si giocava ad Agrigento non ci era permesso di stare giù a giocare, nostro padre ci voleva seduti accanto a sé, non sbagliando, visto che per quella partita lo stadio si riempiva fino all’inverosimile e molte persone venivano anche da Caltanissetta. Si conoscevano anche alcuni dei giocatori della Nissa, tanto era importante l’evento: il portiere Cerami, tipo bassino e sbilenco ma bravissimo e il bomber Cipollone, la bandiera della squadra (credo lo ricordassimo più che altro per il cognome). Ogni azione veniva sottolineata da fischi o applausi, i contrasti tra calciatori erano importanti come la guerra del Vietnam e un rigore faceva perdere il lume della ragione a più d’uno. L’arbitro era particolarmente beccato, qualunque cosa facesse, qualunque decisione prendesse (arbitru a favuri!) e cioè: se un nostro giocatore azzoppava un avversario volontariamente e con cattiveria e l’arbitro fischiava la giusta punizione o il giusto rigore, apriti cielo! Ma se un nostro uomo sveniva per cause naturali nella loro area senza che nessuno lo sfiorasse e l’arbitro non fischiava il rigore… Veniva insultato senza pietà e minacciato di morte; si organizzavano commandos, con reclutamenti su base volontaria, per aspettarlo fuori dagli spogliatoi e dirgliene o fargliene di tutti i colori.
E poi c’era il gol! Un gol dell’Akragas, evocato sin dal fischio d’inizio (e ’cca c’è 'u golli!), era l’anticamera dell’infarto. La gente, con gli occhi fuori dalle orbite, si abbracciava (io stesso ho abbracciato dei perfetti sconosciuti) e subito si gridava du-e du-e du-e esortando i nostri uomini al secondo gol. Il gol ci dava la possibilità di parlare dell’Akragas, la nostra squadra, come se fosse il Milan e dei nostri uomini come se fossero Pierino Prati e Gianni Rivera. Ma il gol della Nissa era peggio; uomini furibondi promettevano di non mettere più piede allo stadio e auguravano a calciatori, allenatore e dirigenti le peggiori disgrazie per loro e per le famiglie, salvo a dimenticare tutto ad un nostro gol. La gente era veramente appassionata, entusiasta e a volte qualche cazzotto volava davvero. Ricordo, in particolare un accenno di sciarra tra uno dei compagnucci di mio padre e un nisseno che aveva dato del cornuto a un nostro giocatore, reo di aver retropassato il pallone al nostro portiere.
I torinesi parleranno di Juve-Toro e i milanesi di Inter-Milan, noi agrigentini parliamo di Akragas-Nissa, la nostra partita, il nostro derby. Settimane prima se ne cominciava a parlare e il giorno fatidico ci ripagava dell’attesa.

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Qualche giorno fa c’è stata Akragas-Nissa. Mio fratello ed io ci siamo andati. Le due squadre vivacchiano in un girone chiamato Eccellenza, ma non si è visto eccellere nessuno. Lo squallore si tagliava a fette. Non faceva molto freddo, sebbene fossimo a Natale, ma non c’erano più di duecento persone, e una cinquantina di ragazzi venuti in pullman da Caltanissetta che ci prendevano in giro. In particolare cantavano un refrain dal ritmo accattivante: giur-ginta-nope-zzodi-mme-rda. Non riuscivamo neanche a incazzarci. Abbiamo rivisto alcuni di quei ragazzini che allora giocavano con noi in tribuna laterale e abbiamo ricordato “i vecchi tempi”.
E questo è il secondo motivo per cui ho scritto questa cosa.

Febbraio 2001


sabato, marzo 07, 2009

VIGNETTINA

Sono tornato, non molto in forma, in verità, ma sono qui. Buon weekend con una vignettina del solito Mauro Biani.