martedì, aprile 28, 2009

IO STO CON MONSIGNORE


Questa notizia è di un paio di mesi fa ma visti i miei riflessi lenti, la pubblico solo adesso. La sostanza non cambia.
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Mi sembrava strano. No, dico, mi sembrava strano che sull’istituzione delle ronde il Vaticano si esprimesse in maniera contraria. L’aveva fatto, invero, Mons. Agostino Marchetto (foto), segretario del Pontificio Consiglio per i Migranti, dicendo che le ronde rappresentavano la morte del diritto, che non erano la soluzione al problema, che qua che là, bla bla bla. Si è spinto fino a dire – udite udite – che se ciò serve ad alimentare un clima di criminalizzazione dei migranti, certamente questo non trova il consenso della Chiesa. Non prenda iniziative, monsignore. Non è che alla Chiesa gliene freghi dei migranti e della loro criminalizzazione, per cui ancora una volta si tira su la tonaca e salta sul carro del potente. Infatti, padre Lombardi (per curiosità, quando si diventa “monsignore”?), il responsabile della sala stampa vaticana, ha smentito stizzito la presa di posizione di Marchetto. Stizzito perché i media avevano equivocato, spingendosi a dire che le parole di monsignore erano la posizione del Vaticano. Ma andiamo, il Vaticano che si schiera coi migranti, coi poveri, con gli zingari e magari contro il governo fascista e razzista del devoto Silvio Berlusconi? Anche il Cardinal Bagnasco – colui che benediceva (o benediva? Boh!) portaerei militari (del resto, le portaerei sono solo militari) – ha preso le distanze dal Marchetto, ci mancherebbe, arrivando a dire che loro non interferiscono sulle scelte del governo e della politica. Ho riso per un quarto d’ora abbondante.
Ma Marchetto, fatti due conti. Quando ci sarà da chiedere l’8 per 1000, a chi lo chiediamo, ai rom? E quando ci sarà da rifinanziare le scuole cattoliche con denaro pubblico o far rimanere gli insegnanti di religione mentre gli altri se ne vanno a casa, a chi ci rivolgiamo, ai nigeriani o ai senegalesi?
Comunque, io sto con monsignore. Poverino, magari si ricorda ancora di quando, giovane seminarista, leggeva la parabola del buon samaritano e, piccolo, pensava che mai avrebbe fatto come il levita, né come il sacerdote (anche se sacerdote sarebbe diventato), che erano passati oltre. No, lui avrebbe fatto come il samaritano, il buon samaritano, avrebbe curato il viandante malmenato, lo avrebbe accompagnato in albergo, avrebbe pagato in anticipo tutte le cure, riservandosi di pagare ancora al suo ritorno. Mi fa tenerezza, monsignore. Magari lui davvero pensa che bisogna dar da mangiare agli affamati e da bere agli assetati; pensa che davvero bisogna ospitare il viandante. Povero, caro monsignore, ma dove vivi? Sei segretario di un ufficio della curia di Roma, mica dell’oratorio di Santa Cunegonda; davvero non ti sei mai accorto di nulla? Vabbé.
Comunque io sto con te, monsignore – sono passato al tu. E sto col Vangelo, quel libro di favole ad uso dei preti dei sacri palazzi. Quel manuale di stile di vita ad uso, invece, dei parrinazzi. Io sto coi preti che lavorano con i rom e gli immigrati, per strada, e che per questo ricevono minacce dai buoni cristiani, fascistizzati da un’informazione marcia. Sto con Alessandro Santoro, con Alex Zanotelli, con Giorgio Poletti e gli altri. Insomma io sto col vecchio Gesù Cristo. La loro è la Chiesa in cui credo.

domenica, aprile 19, 2009

RIVIGNETTINA























Questa, invece, è di Sebino Dispenza, vignettista agrigentino. Thanks.


VIGNETTINA



Questa storia che l'Italia non vuol partecipare alla conferenza di Durban sul razzismo (mentre al largo di Lampedusa a una nave carica di immigrati, molti dei quali in precarie condizioni di salute viene impedito di attraccare in un "luogo sicuro", come dicono le convenzioni internazionali) fa solo sganasciare dalle risate. L'Italia delle ronde e delle impronte digitali ai bambini rom.

Vabbè, buon weekend e grazie a Mauro Biani.

giovedì, aprile 16, 2009

MA IO PER IL TERREMOTO NON DO NEMMENO UN EURO...

di Giacomo Di Girolamo


Scusate, ma io non darò neanche un centesimo di euro a favore di chi raccoglie fondi per le popolazioni terremotate in Abruzzo. So che la mia suona come una bestemmia. E che di solito si sbandiera il contrario, senza il pudore che la carità richiede. Ma io ho deciso. Non telefonerò a nessun numero che mi sottrarrà due euro dal mio conto telefonico, non manderò nessun sms al costo di un euro. Non partiranno bonifici, né versamenti alle poste. Non ho posti letto da offrire, case al mare da destinare a famigliole bisognose, né vecchi vestiti, peraltro ormai passati di moda.
Ho resistito agli appelli dei vip, ai minuti di silenzio dei calciatori, alle testimonianze dei politici, al pianto in diretta del premier. Non mi hanno impressionato i palinsesti travolti, le dirette no-stop, le scritte in sovrimpressione durante gli show della sera. Non do un euro. E credo che questo sia il più grande gesto di civiltà, che in questo momento, da italiano, io possa fare.
Non do un euro perché è la beneficenza che rovina questo Paese, lo stereotipo dell’italiano generoso, del popolo pasticcione che ne combina di cotte e di crude, e poi però sa farsi perdonare tutto con questi slanci nei momenti delle tragedie. Ecco, io sono stanco di questa Italia. Non voglio che si perdoni più nulla. La generosità, purtroppo, la beneficenza, fa da pretesto. Siamo ancora lì, fermi sull’orlo del pozzo di Alfredino, a vedere come va a finire, stringendoci l’uno con l’altro. Soffriamo (e offriamo) una compassione autentica. Ma non ci siamo mossi di un centimetro.Eppure penso che le tragedie, tutte, possono essere prevenute. I pozzi coperti. Le responsabilità accertate. I danni riparati in poco tempo. Non do una lira, perché pago già le tasse. E sono tante. E in queste tasse ci sono già dentro i soldi per la ricostruzione, per gli aiuti, per la protezione civile. Che vengono sempre spesi per fare altro. E quindi ogni volta la Protezione Civile chiede soldi agli italiani. E io dico no. Si rivolgano invece ai tanti eccellenti evasori che attraversano l’economia del nostro Paese.
E nelle mie tasse c’è previsto anche il pagamento di tribunali che dovrebbero accertare chi specula sulla sicurezza degli edifici, e dovrebbero farlo prima che succedano le catastrofi. Con le mie tasse pago anche una classe politica, tutta, ad ogni livello, che non riesce a fare nulla, ma proprio nulla, che non sia passerella.C’è andato pure il presidente della Regione Siciliana, Lombardo, a visitare i posti terremotati. In un viaggio pagato – come tutti gli altri – da noi contribuenti. Ma a fare cosa? Ce n’era proprio bisogno?
Avrei potuto anche uscirlo, un euro, forse due. Poi Berlusconi ha parlato di “new town” e io ho pensato a Milano 2 , al lago dei cigni, e al neologismo: “new town”. Dove l’ha preso? Dove l’ha letto? Da quanto tempo l’aveva in mente? Il tempo del dolore non può essere scandito dal silenzio, ma tutto deve essere masticato, riprodotto, ad uso e consumo degli spettatori. Ecco come nasce “new town”. E’ un brand. Come la gomma del ponte.
Avrei potuto scucirlo qualche centesimo. Poi ho visto addirittura Schifani, nei posti del terremoto. Il Presidente del Senato dice che “in questo momento serve l’unità di tutta la politica”. Evviva. Ma io non sto con voi, perché io non sono come voi, io lavoro, non campo di politica, alle spalle della comunità. E poi mentre voi, voi tutti, avete responsabilità su quello che è successo, perché governate con diverse forme – da generazioni – gli italiani e il suolo che calpestano, io non ho colpa di nulla. Anzi, io sono per la giustizia. Voi siete per una solidarietà che copra le amnesie di una giustizia che non c’è.
Io non lo do, l’euro. Perché mi sono ricordato che mia madre, che ha servito lo Stato 40 anni, prende di pensione in un anno quasi quanto Schifani guadagna in un mese. E allora perché io devo uscire questo euro? Per compensare cosa? A proposito. Quando ci fu il Belice i miei lo sentirono eccome quel terremoto. E diedero un po’ dei loro risparmi alle popolazioni terremotate.
Poi ci fu l’Irpinia. E anche lì i miei fecero il bravo e simbolico versamento su conto corrente postale. Per la ricostruzione. E sappiamo tutti come è andata. Dopo l’Irpinia ci fu l’Umbria, e San Giuliano, e di fronte lo strazio della scuola caduta sui bambini non puoi restare indifferente.
Ma ora basta. A che servono gli aiuti se poi si continua a fare sempre come prima? Hanno scoperto, dei bravi giornalisti (ecco come spendere bene un euro: comprando un giornale scritto da bravi giornalisti) che una delle scuole crollate a L’Aquila in realtà era un albergo, che un tratto di penna di un funzionario compiacente aveva trasformato in edificio scolastico, nonostante non ci fossero assolutamente i minimi requisiti di sicurezza per farlo.
Ecco, nella nostra città, Marsala, c’è una scuola, la più popolosa, l’Istituto Tecnico Commerciale, che da 30 anni sta in un edificio che è un albergo trasformato in scuola. Nessun criterio di sicurezza rispettato, un edificio di cartapesta, 600 alunni. La Provincia ha speso quasi 7 milioni di euro d’affitto fino ad ora, per quella scuola, dove – per dirne una – nella palestra lo scorso Ottobre è caduto con lo scirocco (lo scirocco!! Non il terremoto! Lo scirocco! C’è una scala Mercalli per lo scirocco? O ce la dobbiamo inventare?) il controsoffitto in amianto.
Ecco, in quei milioni di euro c’è, annegato, con gli altri, anche l’euro della mia vergogna per una classe politica che non sa decidere nulla, se non come arricchirsi senza ritegno e fare arricchire per tornaconto.
Stavo per digitarlo, l’sms della coscienza a posto, poi al Tg1 hanno sottolineato gli eccezionali ascolti del giorno prima durante la diretta sul terremoto. E siccome quel servizio pubblico lo pago io, con il canone, ho capito che già era qualcosa se non chiedevo il rimborso del canone per quella bestialità che avevano detto.
Io non do una lira per i paesi terremotati. E non ne voglio se qualcosa succede a me. Voglio solo uno Stato efficiente, dove non comandino i furbi. E siccome so già che così non sarà, penso anche che il terremoto è il gratta e vinci di chi fa politica. Ora tutti hanno l’alibi per non parlare d’altro, ora nessuno potrà criticare il governo o la maggioranza (tutta, anche quella che sta all’opposizione) perché c’è il terremoto. Come l’11 Settembre, il terremoto e l’Abruzzo saranno il paravento per giustificare tutto.Ci sono migliaia di sprechi di risorse in questo paese, ogni giorno. Se solo volesse davvero, lo Stato saprebbe come risparmiare per aiutare gli sfollati: congelando gli stipendi dei politici per un anno, o quelli dei super manager, accorpando le prossime elezioni europee al referendum. Sono le prime cose che mi vengono in mente. E ogni nuova cosa che penso mi monta sempre più rabbia.
Io non do una lira. E do il più grande aiuto possibile. La mia rabbia, il mio sdegno. Perché rivendico in questi giorni difficili il mio diritto di italiano di avere una casa sicura. E mi nasce un rabbia dentro che diventa pianto, quando sento dire “in Giappone non sarebbe successo”, come se i giapponesi hanno scoperto una cosa nuova, come se il know-how del Sol Levante fosse solo un’esclusiva loro. Ogni studente di ingegneria fresco di laurea sa come si fanno le costruzioni. Glielo fanno dimenticare all’atto pratico.
E io piango di rabbia perché a morire sono sempre i poveracci, e nel frastuono della televisione non c’è neanche un poeta grande come Pasolini a dirci come stanno le cose, a raccogliere il dolore degli ultimi. Li hanno uccisi tutti, i poeti, in questo paese, o li hanno fatti morire di noia.
Ma io, qui, oggi, mi sento italiano, povero tra i poveri, e rivendico il diritto di dire quello che penso.
Come la natura quando muove la terra, d’altronde.

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Ho condiviso in pieno questo articolo. Poi però ho dato il mio contributo. (A.T.)

martedì, aprile 14, 2009

INAUGURAZIONI


Stavo per partire per le vacanze pasquali, allorquando vengo fermato da una notizia sulla quale intendo soffermarmi assolutamente. A poche settimane dal crollo di una parte di Via Giovanni XXIII, il Comune di Girgenti inaugura l’apertura dei lavori per il ripristino della stessa. I fatti: un paio di mesi fa, a causa delle numerose, insolite piogge di quest’inverno, una parte di Via Giovanni XXIII – il pezzo terminale, quello giusto sopra Villa Cavetta – cede. La corsia di marcia viene dimezzata, l’area transennata, e, come sempre accade a Girgenti, lasciata a se stessa. Intanto continua a piovere e, dopo un mesetto circa dal primo intervento – ossia il transennamento –, la mattina seguente una nottata di belle piogge, il costone scunocchia e va a finire nella zona sottostante (foto), seppellendo due automobili ma, fortunatamente, nessuna persona. Grazie a dio la villetta era chiusa, non perché era presto ma soltanto perché a Girgenti le villette comunali normalmente sono chiuse, per cui non c’erano nonni con nipotini, studenti in vacanza arbitraria, coppiette, etc... Se si fosse intervenuto prima magari si sarebbe potuto evitare lo sfacelo che poi c’è stato.
A distanza di meno di un mese, quasi fosse una cosa che ha del miracoloso – tipo il sangue di San Gennaro –, viene dato l’annuncio dell’inizio dei lavori di recupero. ‘Sti cazzi, direbbero a Roma, ma siccome qui non siamo a Roma né in qualunque altra città normale d’Italia, l’annuncio viene preso come qualcosa di formidabile, anche perché così viene dato. E va bene anche questo. Ma la cosa che davvero fa morire dal ridere è che si è fatta una vera e propria inaugurazione. Questo fa schiantare. Sindaco, una manciata di assessori, un assessore regionale, qualche alto funzionario di qualche ufficio importante si recano nel posto del disastro a celebrare l’inizio dei lavori. Ora, in una città normale, insisto, questo non glielo avrebbero fatto fare. Quando io racconto queste cose agli amici di fuori, loro mi chiedono se scherzo o se dico la verità. E io provo vergogna nel dire che è la verità.
Questa inaugurazione mi ha fatto venire in mente, oltre alla cerimonia di presentazione del plastico dell’aeroporto – che poi non si fece (l’aeroporto non il plastico) –, a quella suggestiva riapertura del viadotto Rocca Daniele, avvenuta qualche mese fa. A causa di un crollo che interessò una parte (si trattava di pochi metri) dell’omonimo viadotto, per circa un anno il traffico sulla famosa 640 Agrigento-Caltanissetta fu deviato. L’automobilista doveva uscire allo svincolo precedente il viadotto, entrare nell’abitato di Favara e dopo un tragitto di qualche chilometro più lungo del normale, usciva nuovamente sullo stradone. I lavori di ripristino durarono meno di un mese ma il disbrigo delle pratiche quasi un anno. Alla fine, il solito gruppetto di autorità – alcune delle quali con fasce tricolori – si ritrovò sul luogo per inaugurare il tratto di strada riaperto. Questa volta stapparono bottiglie. Cosa cazzo (ops…!) c’era da brindare?
Allora, visto che ogni occasione è buona per fare caciara (oggi ce l’ho col romanesco), io propongo l’istituzione dell’Assessorato alle Inaugurazioni. Fai conto che in questa città oggidomani avviene una cosa straordinaria, di quelle che non avvengono in nessuna parte del mondo – la riparazione di un lampione, un decespugliamento, l’Akragas vince una partita – sai che devi festeggiare, no? Oppure si apre una casa di riposo o un asilo. Allora, invece di far scapicollare l’Assessore al Verde Pubblico o quello allo Sport o quello alle Politiche Sociali o ai Lavori Pubblici – che sicuramente hanno un sacco di cose da fare e poi a loro queste manfrine davanti alle telecamere non piacciono mica –, interviene l’Assessore alle Inaugurazioni, Festeggiamenti e Cerimonie e ti porta avanti la tua bella festicciola. Si fa un discorsetto iniziale, magari si taglia un nastro poi si stappa una bottiglia, si fa una bicchierata, due pasticcini e si va via perché magari dopo un’ora c’è un’altra cosa da inaugurare. Molto semplice, no? L’Assessore deve essere uno di quelli foto/telegenici, che sappia parlare ma non troppo bene (il congiuntivo è un lusso che non possiamo permetterci), che sorrida sempre, che abbia voglia di apparire in pubblico e soprattutto che abbia leccato i culi giusti. Dai, non ci vuole molto a dire una frase tipo: “Ringraziamo l’Assessore Vattelappesca per l’attaccamento che ha dimostrato per la città e per avere fortemente voluto quest’opera. Peccato che non c’è, se c’era la vedeva”. Andiamo, non ci vuole un genio per una cosa del genere. E poi al Comune non costerebbe niente. Qui sta la genialità dell’operazione. Tutto il costo delle inaugurazioni se lo sobbarcano gli sponsor. Anche perché in questo modo, durante la cerimonia mi puoi anche fare la degustazione del prodotto tipico, la presentazione della nuova automobile, la mostra del corredo. Mi puoi fare il rinfreschino, vivaddio. E l’Assessore, naturalmente – e anche questo è uno dei suoi compiti – deve ricordare e ringraziare gli sponsor: “Ringrazio il Presidente Tizio e il Supermercato Al Risparmio, che hanno permesso che oggi eravamo qui”. Oppure: “Vi porto il saluto del Sindaco, a voi, cari concittadini e agli amici della Pasticceria fratelli Caio, che se non c’erano loro questa cosa non si faceva”.
A Girgenti, ormai, l’Assessorato alle Inaugurazioni è una necessità.

giovedì, aprile 02, 2009

E VIDI CA VEGNU


Un altro gioco a squadre molto gettonato all’epoca era la tavula longa (peccato non poter rendere graficamente l’esatta pronunzia!). Si organizzavano due squadre con lo stesso criterio già descritto per le partite di calcio e si faceva la conta per stabilire quale squadra dovesse andare sutta. I membri di questa squadra si mettevano in fila, partendo dal muro, chini a 90 gradi; il giocatore di dietro afferrava saldamente le gambe e il sedere del compagno davanti via via fino a formare una sorta di, appunto, lunga tavola sulla quale l’altra squadra, quella di supra, doveva saltare. Il primo della squadra di sotto, però, non poggiava direttamente sul muro, perché normalmente si prendeva un bambino, preferibilmente grasso, e lo si metteva con le spalle al muro a fare da cuscino.
Ma qui devo assolutamente aprire una parentesi. Vita particolarmente dura avevano i bambini grassi o grossi. Per quanto ancora non si fossero fatti strada i canoni estetici tipici della società odierna, i bambini grassi (anche se sconosciuti) venivano duramente presi in giro con epiteti che andavano dal grossu di minghia, al bombola di gas, fino al classico bussicuni. Credo fossero in assoluto i più bersagliati dalla cattiveria feroce degli altri bambini. Si disperavano, urlavano, minacciavano di chiamare familiari preferibilmente di sesso maschile ma più si arrabbiavano più scatenavano l’accanimento dei loro giovani carnefici che contentavano la propria malvagità solo quando vedevano le proprie vittime scoppiare in lacrime. Quanti bambini grassi hanno pianto da piccoli a causa delle derisioni dei compagni! (Non è per defilarmi ma sin da bambino ne ho sempre avuto rispetto.) A quel punto, cioè al momento del pianto (ma solo perché rappresentava l’acme di una situazione che rischiava di degenerare), interveniva qualcuno pronto a farsi difensore del corpulento amichetto, talora arrecando ulteriore pregiudizio alla sua causa: Veni ccà, fattilla cu mia. Chi t’a fa cu chiddu ca è grossu? Lo stesso trattamento non era riservato ai magri, ancorché scheletrici. Sì, qualche sfottò di prammatica lo beccavano anche loro, magari si ventilava la presenza di una qualche malattia venerea (sifiliticu!) ma ai grassi era riservato ben altro trattamento. E poi, da bambini ognuno di noi aveva il proprio segno particolare. C’era l’alto, il basso, il biondo, il bruno, l’occhialuto. Fin qui nulla da eccepire. I problemi sorgevano allorché questi caratteri distintivi venivano utilizzati al solo scopo canzonatorio. Il bambino con gli occhiali era chiamato occhialinu o quattr’occhi e ‘na banana (e subito ci si premurava di puntualizzare che fine facesse la banana!); quello dalla pelle ben pigmentata era nivuru ‘mpiciatu. Il bambino dai capelli biondi era ’u biondinu, quello dalla chioma riccia era ’u ricciolinu, quello dagli occhi a mandorla era ’u cinesinu. Termini, quindi, vezzeggiativi che però non si esitava, alla bisogna, a tramutare in dispregiativi: Biondì / ricciolì / cinesì, mi sta rumpennu a minghia!. E addio vezzeggiativo!
Ma torniamo alla tavula longa. La squadra di sotto aspettava che quella di sopra esaurisse i salti di tutti i suoi membri. Salti che perlopiù venivano, intanto annunziati dal grido E vidi ca vegnu!, e poi eseguiti non tanto con spirito sportivo o di puro divertimento, quanto nella segreta speranza di spezzare in due la schiena dell'avversario o di arrecargli una qualunque menomazione fisica, purché permanente. Esauriti i salti, compito della squadra di sotto era resistere fino a dieci, mentre i soprastanti eseguivano le manovre più turpi, fuori dal regolamento e da qualunque convenzione internazionale, per farla cadere. Infatti l’obiettivo della squadra di supra era fare scunucchiari la squadra di sutta. Ovviamente le due squadre alla fine si accusavano a vicenda di scorrettezze e anche tavula longa finiva a schifìo. Era, va da sé, un gioco ad alto coefficiente di pericolosità. Alla fine non si contavano le ginocchia sbucciate, le dita piegate, le schiene doloranti ma soprattutto i pantaloni squarciati nel mezzo, che ci costavano asperrimi rimproveri.
In gran voga era anche Uno manda all’uno (si dovrebbe scrivere così), la variante nostrana dell’universale gioco della cavallina. Era un gioco solo apparentemente innocuo e amichevole perché nonostante il preventivo abbozzo di regolamento e i giuramenti di correttezza, spesso, come vedremo, il ricorso alla violenza si rendeva quasi necessario. Si faceva la conta ad eliminazione, per cui l’ultimo che rimaneva doveva stare chino (sutta) e consentire a tutti gli altri di saltare. Erano consentiti quattordici salti, drammatizzati e ritmati da una filastrocca, stranamente in italiano, per quanto inframmezzata da parole siciliane (l’italiano era, in genere, mal tollerato) che riporto:
- uno – manda all’uno;
- due – manda a due (i primi due salti erano franchi);
- tre – figlio di re (si eseguiva il salto e quando si atterrava si simulava un gesto di napoleonica autoincoronazione);
- quattro – calci in culo e passa arrè (in questo caso si dava un calcio al volo nel sedere della cavallina; calcio che spesso era volutamente forte);
- cinque – raccogli il grano (atterrando si doveva fare un ampio gesto, da gaia spigolatrice, chinandosi con le braccia che si chiudevano a raccogliere un immaginario fascio di spighe);
- sei – piedi in croce (si atterrava incrociando i piedi);
- sette – due pugni (invece di poggiare le mani si poggiavano i pugni chiusi. Si poggiavano per modo di dire; alcuni avevano come fine ultimo la lesione delle vertebre della cavallina);
- otto – scivolò (invece di sorvolare la schiena, ci si scivolava sopra. Ed era anche doloroso, per chi stava sotto);
- nove – ti lascio questa sella (e si lasciava un fazzoletto sulla schiena della cavallina. I fazzoletti di allora non erano gli igienici Scottex di adesso ma i classici fazzoletti di stoffa, per cui erano già pieni di patacche di mòccaru, fresco o già solidificato e croccante);
- dieci – me la riprendo (si riprendeva il fazzoletto);
- undici vado a messa (questo era un vero colpo di teatro: ci si rimboccava la maglia sulla testa a simulare le vecchine che andavano a Messa col velo in testa);
- dodici – scappiddazzu (in questo caso si saltava unendo le mani e dando un colpo sulla schiena a mani unite. Come nel caso del numero sette, il fine ultimo era il male fisico dell’altro);
- tredici – mi preparo per scappare;
- quattordici – sputo e scappo (si scaracchiava sul muro e si scappava).
Alla fine l’uomo-cavallina doveva cercare di acchiappare qualcuno e, se vi riusciva, decadeva dal compito per affidarlo all’altro. Anche questo gioco non era esente da proteste e risentimenti, soprattutto fisici. Ho già ricordato che alcuni numeri prevedevano l’uso della violenza, per cui chi era sotto a volte, colpito duro, abbandonava prima del tempo, veniva tacciato di essere fattu di ricotta e, come sempre, finiva a sciarra.
Ammucciaré era invece il classico “Nascondino”. Non ho niente da dire in proposito se non che mi sono sempre chiesto cosa volesse dire tingolo, la parola che si diceva quando un giocatore nascosto si faceva scoprire. ‘Ncagliaré era semplicemente il rincorrersi per acchiapparsi. C’era un bar vicino all’INA Casa dove andavamo a abbucari. L’intera attività del giocare a flipper era resa con questa splendida sineddoche: la sola azione dell’inserire la monetina significava tutto il resto. Per cui Amunì a abbucari o semplicemente Abbucàmu significavano “Andiamo a giocare a flipper” o “Giochiamo a flipper”. E sempre a proposito di soldi, ogni tanto si facevano anche dei giochi con le monete, da 50 e da 100 lire, i più in voga dei quali erano ‘a fussité, che consisteva nello spingere le monete a colpi di pollice verso una fossetta, e ‘u parmu, in cui le monete venivano spinte a colpi di pollice e poi le distanze misurate: quando si mandava la propria moneta a un palmo dall’altra, si vinceva l’altra moneta.
Quindi erano tutti giochi che si facevano senza l’ausilio di mezzi, a parte il calcio, naturalmente, dove occorreva il pallone. Ma vi erano anche giochi per i quali servivano degli strumenti. Uno di questi era ’a tortula (foto), la trottola. Correva voce che un vecchio a piazza Municipio le fabbricasse ancora ma noi le compravamo lesti e boni da qualche parte vicino all’INA Casa. Erano fatte di legno, secondo me molto belle (qualcuno le decorava pure), e occorreva anche una certa bravura nel farle girare bene. Un lungo chiodo le attraversava in tutta la lunghezza: la punta del chiodo era poi la punta della stessa trottola, quella che la faceva girare. Intanto necessitava una corda, ad un’estremità della quale veniva assicurato un tappo di bottiglia appiattito e bucato. La corda, ‘a lazzata, veniva fatta girare saldamente attorno alla trottola, il tappo tenuto tra l’indice e il medio e con un secco movimento del braccio la corda veniva strattonata e la trottola prendeva a girare. Si facevano delle gare che iniziavano col lancio della sfida (Ti muchi?), e potevano terminare con la distruzione, a colpi di punta (pizzati), della tortula dell’avversario da parte del vincitore e con una bella, solita sciarra, che tanto l’occasione era sempre buona. Vi erano di quelli che riuscivano a far girare la tortula sulla mano o addirittura sulla punta della scarpa ma io, ovviamente, non ci sono mai riuscito. Mio fratello Alessandro ama ricordare che il fine esclusivo della mucata era la distruzione della tortula dell’avversario. È per questo motivo che spesso si incontravano picciuttazzi che appuntivano il chiodo della propria tortula sfregandone vigorosamente la punta sul cemento, preparando le armi alla battaglia. Una volta fu sull’orlo di uno choc infantile allorché il suo piede si imbatté in una emi-tortula, vittima di una recente mucata, di cui scorse, poco distante, l’altra metà. Rimase di gesso!
Poi c’era il periodo del carretto, per costruire il quale erano necessarie conoscenza, arte e bravura. Il carretto era altamente tecnologico per cui si doveva anche essere in possesso di competenze di fisica, meccanica e falegnameria. Infatti bisognava avere già una certa età per farne uno, fai conto una decina d’anni e bisognava anche in qualche modo dimostrare d’essere stati in gradi di costruirlo da soli, pena lo sfottò (Inghia, t’u fici to pà). Servivano:
- una tavola ampia,
- un’asse,
- due cubi di legno, ‘i cugna,
- altri pezzi di legno,
- dei chiodi; più
- un lungo bullone con dado e soprattutto
- tre cuscinetti a sfera, di cui due di uguale diametro e uno più piccolo.
Ragion per cui si doveva fare il giro di falegnami e meccanici della zona a chiedere di fornirci i suddetti pezzi, che spesso ci facevano anche pagare, in taluni casi fregandoci. Rovistavano in mezzo a secchi pieni di materiale vecchio – e bisunto nel caso dei meccanici – alla ricerca dei pezzi migliori, tra cui i più ricercati erano certamente i cuscinetti a sfera. Ci vorrebbe un disegno per meglio spiegare la costruzione del carretto ma proverò a farne a meno. Sopra tutto vi era la tavola che serviva da pianale su cui stava il conducente, con modalità diverse che poi spiegherò; nella parte posteriore della tavola, al di sotto di essa, veniva inchiodato un lungo pezzo di legno alle estremità del quale venivano inseriti i cuscinetti a sfera. La parte più elaborata era lo sterzo che era costruito con un’asse sotto la quale venivano fissati due cubi di legno, 'i cugna, che facevano da rudimentale forcella; dopodichè un mozzo veniva fatto scorrere dentro un terzo cuscinetto, il più piccolo dei tre, e inchiodato ai cugna. Lo sterzo, infine, era fissato alla tavola mediante un bullone e un dado. Detta così può sembrare una cosa semplice ma in realtà a tutto ciò doveva sottostare, come ho già detto, la conoscenza. Per esempio, dei materiali: il legno doveva essere di un certo tipo piuttosto che di un altro; bisognava eliminare il rischio di scheggiarsi le mani con le cciarde, per cui a volte necessitava un lavoro di limatura. E poi i cuscinetti migliori erano quelli più piccoli che comunque dovevano essere ben oliati. Qualcuno si concedeva anche qualche accessorio civettuolo, tipo una fodera o un’imbottitura sul pianale o dei catarifrangenti sul didietro. Una vera sciccheria.
E poi, a lavoro ultimato, si doveva dimostrare di essere in grado di guidare un carretto. Vi erano diversi tipi di guida a seconda della disciplina: per le gare sulla distanza si prediligeva la posizione col ginocchio destro sulla tavola e il sinistro a dare la spinta; per le discese la posizione era quella del bob o dello slittino, cioè seduti con le spalle un po’ all’indietro, le gambe in avanti e le braccia sullo sterzo. Per affrontare meglio quest’ultima posizione, certuni attaccavano alle estremità dello sterzo una fune e con essa lo manovravano. Noi facevamo delle discese ad altissimo coefficiente di pericolosità nella Discesa Metello, meglio nota come 'a Scinnuta d’o Garden. In questa discesa, dicevo, bisognava davvero dimostrare perizia giacché ci si misurava con strettoie, alta velocità acquisita dal mezzo (soprattutto verso la fine), pedoni che normalmente salivano o scendevano o uscivano a sorpresa dai magazzini che davano sulla via e soprattutto le macchine che salivano, ignare del fatto che degli incoscientissimi ragazzini si scapicollavano sui loro carretti. Era una prova di grande suggestione e notevole impatto visivo, davvero ricordava le gare di bob. Come molto bella era anche quella che facevamo sulla passerella del nostro palazzo di Via Acrone: ci davamo una bella spinta e, alla fine della passerella, che era un po’ in discesa, sterzavamo bruscamente per accapputtari. Non era pericolosa come la discesa, nella quale rischiavamo la vita, ma a volte succedeva che cappottando il carretto ci finisse addosso facendoci anche male.
Dico la verità: mi piaceva da morire il gioco del lignu santu o lignusà. Era un gioco moderno, avvincente, e perciò stesso poco praticato. Era un gioco a bassissimo budget. Occorrevano, infatti, un pezzo di legno piuttosto lungo, fai conto una settantina di centimetri, e un pezzo piccolo. Erano materiali che in genere si trovavano con una certa facilità anche se spesso vi era un notevole lavoro di ripulitura da fare, soprattutto dai lunghi chiodi arrugginiti di cui erano pieni (a volte penso che siamo vivi per miracolo!). Allora, si metteva il pezzo piccolo per terra e col pezzo lungo, usato a mo’ di mazza da baseball, gli si dava un colpo cercando di farlo sollevare da terra e lo si colpiva al volo. Non sempre il pezzetto riusciva a sollevarsi bene per cui il colpo riusciva a arrunghia maccu, ossia facendo strisciare a terra la mazza, colpo peraltro non consentito. Spesso, invece, il bastoncino riusciva a percorrere delle belle distanze (talora anche dei “fuori campo”) che venivano misurate usando la stessa mazza come strumento di calcolo. Anche il lignu santu, vuoi per la scarsa perizia di alcuni (immediatamente sanzionata dalle canzonature dei compagni), vuoi per il problema relativo allo stabilire quando era arrunghia maccu e quando no, vuoi ancora per fatti legati alla misurazione, era spesso motivo di sciarri nivuri.
Ogni tanto capitava di trovare dei pezzi di cartone piuttosto grandi (Talé chi acchiavu!), fai conto imballaggi di frigorifero, di televisore o di lavatrice, visto che gli elettrodomestici facevano ormai parte della vita quotidiana delle moderne famiglie italiane, per cui si decideva di costruire una capanna. Contrariamente a quanto avveniva per altri giochi nei quali era favorita la partecipazione di quanti più bambini possibile, nella robinsoniana attività della capanna il reclutamento avveniva per esclusione: Tu n’a capanna un ci sì! Chi pronunziava questa frase era naturalmente colui o coloro che avevano trovato il cartone (U cartuni è mé!) e che ne erano pertanto legittimi proprietari oltre che impresari del progetto. Da qui le prime sciarre; gli esclusi facevano dichiarazioni di disinteresse totale alla cosa (Iu t’a ficcu ‘n culu a tia e a capanna vidè!) o addirittura promesse di danneggiamento dei materiali da costruzione (Ti l’abbrusciu stu minghia di cartuni!). Si faceva un abbozzo di progetto su come dovesse venire la capanna e normalmente si andavano a cercare degli altri materiali (legni, lacci, mattoni etc…) che sarebbero serviti per la costruzione. Questa ricerca era effettuata anche dagli esclusi ma per un motivo diverso: trovare dei pezzi di legno o del materiale generico significava danneggiare o rallentare il progetto-capanna ma poteva anche significare l’esserne automaticamente riammessi. Trovato qualcos’altro di utile, si cominciava la vera e propria costruzione. Naturalmente l’organizzazione era motivo di disaccordo giacché c’era chi proponeva una cosa, chi faceva il contrario e le sciarre erano assicurate. Ma dopo tanto lavoro, accuse reciproche e camurrìe varie, la capanna era bell’e finita e a volte venivano fuori anche delle piccole opere d’arte. Vi si entrava dentro, si stava un po’ e a quel punto si capiva di aver totalmente perduto interesse alla capanna.