sabato, giugno 27, 2009

ONNA (13 giugno 2009)


Oggi siamo andati a Onna. E questo il momento più intenso da quando siamo arrivati. Il paese è distrutto, ci sono macerie dappertutto e c’è un silenzio irreale. Ci accompagna padre Valerio della Caritas di Catania; lui è già stato qui sin dai primi giorni dopo l’evento. Ed è lui che ci permette di entrare all’ingresso del paese, dove una pattuglia della Guardia di Finanza blocca i curiosi. Onna è il simbolo del terremoto d’Abruzzo, quella che ha avuto più spazio in tv e sui giornali. La lunga ridicola teoria di politici con l’elmetto ha acceso riflettori potenti su questo paesino di campagna. E, si sa, se vai in tv diventi una star, che tu lo voglia o no. Onna è la star di questo amaro spettacolo iniziato il 6 aprile scorso, alle 3:32 di notte. E come tutte le star, vogliono tutti vederla, toccarla, fotografarla. La gente va lì, naso all’insù a guardare le immagini della distruzione e immortalarle con la fotocamera. Nessuno se la vuole perdere, Onna.
Padre Valerio ci mostra un campo dove c’è una lunga fila di quarantuno mazzi di fiori a ricordo delle quarantuno vittime di questo terremoto. “Il giorno del funerale, hanno portato qui le bare – ci dice – e tutti si sono stretti intorno ai loro morti”. Onna ha pagato il prezzo più alto. Non c’è famiglia qui che non pianga uno o più cari che se ne sono andati via, spazzati dal sisma. I fiori dentro gli involucri di carta argentata sono ormai appassiti. Ma il ricordo di quelle persone è ancora palpabile. C’è un silenzio di dolore, qui a Onna.
Molte case sono proprio distrutte, col piano di sopra adagiato su quello di sotto; alcune coi tetti sfondati; da una casa ormai a pezzi si vede una doccia attaccata all’unico muro rimasto in piedi. Un edificio a due piani, non ancora completato e miracolosamente in piedi, adesso sembra una casa di Gaudì, come quelle che ci sono a Barcellona, con le pareti convesse. C’è il cimitero delle automobili, distrutte dalle macerie; più in là c’è un cumulo di detriti – macerie portate via dalle case e ammassate in un posto – dal quale spuntano qua e là magliette, vestiti, scarpe. Cose che qualcuno ha indossato, che hanno fatto parte del suo quotidiano. C’è una bambola. Una bambina ci giocava. Prima.
Il campo di Onna – la tendopoli, cioè – è simile a tutte le altre: la recinzione alta, la porta carraia, le tende blu e gli uomini in divisa e anfibi della Protezione Civile a guardia dell’accampamento. Donne e uomini entrano ed escono come se lo facessero da casa propria e non dalla sistemazione più precaria possibile. Portano bacinelle e stoviglie, sacchetti della spesa; qualcuno torna dal lavoro nei campi. Fuori dal campo di Onna mi colpisce una piccola tendopoli fatta da cinque-sei tende, tutte diverse tra loro. È il piccolo accampamento messo su da Islamic Relief, un’associazione caritativa musulmana. Mi chiedo perché anche loro non stiano dentro il campo insieme agli altri.
Dentro al campo di Onna, una croce si erge a simboleggiare la chiesa. Lì ci si prepara per la festa del Corpus Domini che sarà domani. L’usanza di questi posti era di fare degli altarini, addobbarli con fiori, lumini e immaginette sacre e aspettare la processione. Ogni rione il suo altarino. “Prima facevamo gli altarini” – ci dice una ragazzina. Ecco, nelle vite terremotate di questa gente, nella storia di questa terra, ci sarà sempre un “prima” e un “dopo”. Ma lo faranno anche adesso, l’altarino – forse non bello come prima –, con il tavolino di plastica prestato dalla Caritas, una tovaglia bianca scampata allo sfacelo, l’immagine del cuore di Gesù fotocopiata nella segreteria della Protezione Civile e i fiori raccolti qua e là. Lo faranno anche quest’anno, l’altarino a Onna. Ma anche a Paganica, a Monticchio, a Tempera.
TerremoTosto è il motto dell’Abruzzo del dopo-sisma. In giro si vedono ragazzi con le magliette con questa scritta. Terremo tosto, terremo duro. E allora tieni duro, popolo dell’Abruzzo.
Tieni duro nel caldo torrido del giorno e nel freddo pungente della notte; con la ghiaia che ti si infila nelle scarpe quando entri in tendopoli; quando sei costretto a uscire fuori dalla tenda in accappatoio per andare a fare la doccia; quando devi andare a pisciare nel container, tieni tosto, popolo dell’Abruzzo. Quando ti controllano il cartellino, in entrata e in uscita, e anche a mensa, resisti e tieni duro; quando non devi sgarrare l’orario dei pasti sennò rimani a digiuno; quando dovrai stendere le mutande nello stendino sul vialetto di brecciolino, allora, tieni tosto, popolo dell’Abruzzo.
Tieni duro nella passerella planetaria del G8, fatta per la glorificazione del Grande Sporcaccione; nel mega carrozzone dei Grandi della Terra, che vengono a disturbare la ricerca di una serenità spazzata via dalla scala Richter il 6 di aprile; nel Circo Barnum internazionale dove ci sono solo pagliacci, tieni tosto, popolo dell’Abruzzo.
Ho visto questa scritta su alcuni pulmini in Abruzzo: L’Aquila tornerà a volare.

giovedì, giugno 25, 2009

VIGNETTINA

















Guardate questa vignettina del Sun. No, ditemi la verità, non è meravigliosa? Come cantavano Cochi e Renato: E lo sputtanamento, cos'è?


domenica, giugno 07, 2009

CIAO, AMICI

Vi saluto, amici frequentatori del blog, vado in Abruzzo con mia moglie e altri due volontari. Staremo nella tendopoli di Paganica e spero soltanto di essere utile a qualcosa (e a qualcuno, ovviamente). Torno il 22 giugno.
Non vi allontanate.

mercoledì, giugno 03, 2009

AS-SALAM ALAIKUM


‘Alif Ba Ta Tha…
Sto imparando l’arabo. La lingua di Allah. Lo sto studiando, voglio imparare a parlarlo bene. Non so dire di preciso quand’è iniziata questa storia dell’arabo. Ah, sì, all’inizio del mio periodo universitario, in Lingue, quando c’erano quelli che ti consigliavano le materie complementari più facili. Storia e Istituzioni Musulmane, si chiamava. Lì per lì mi venne da sorridere, figurati. Abituati com’eravamo al Liceo: Italiano, Matematica, Filosofia, materie dal nome secco, deciso; figurati se andavo a prendere in considerazione una materia con quel nome lì. Fatto sta che la inserii nel piano di studi. E la studiai. E mi piacque. Fu il primo esame che feci ed ebbi trenta e lode, l’unico della mia carriera universitaria. Cominciò così il mio rapporto quasi trentennale col mondo arabo e con l’arabo. La lingua del Profeta.
L’anno successivo biennai la materia, che nel frattempo aveva cambiato nome: Islamistica. Mi piaceva troppo per non rifarla. 28, vabbé. Però non era ancora la lingua. Imparai solo alcune parole, delle formule rituali, il saluto, la shahada, ma fu allora che mi venne forte il desiderio di imparare l’arabo. La lingua del muezzin.
Un altro incontro con l’arabo l’ebbi nell’85, con un gruppo d’iracheni. Anzi, proprio col gruppo iracheno, quello che partecipò alla Sagra del Mandorlo in Fiore a Girgenti. Io ero il loro accompagnatore. Si era nel bel mezzo della guerra con l’Iran di Khomeini. Diventammo molto amici e si divertivano a farmi parlare in arabo. E io mi divertivo a farlo. Uno di loro, per spasso, mi fece bestemmiare, con disappunto dei compagni. Erano il gruppo nazionale di ballo folklorico di Baghdad ed erano proprio bravi, provavano assiduamente nello scantinato dell’Hotel della Valle. Rappresentavano il loro paese, questo era il loro mestiere, ci tenevano a che l’Iraq facesse bella figura e fosse rispettato. Erano di gran lunga i migliori. Ma quell’anno il festival fu vinto dal gruppo degli Stati Uniti, un manipolo di ragazzoni (dello Utah, credo) con cappelloni da cowboy e camicie a scacchi che ballavano, male, delle danze da saloon, melense anziché no. Quando tornammo in hotel, dopo la premiazione, molti di loro piangevano per la delusione e l’ingiustizia subita. Dicevano dùlar dùlar sfregando i pollici con gli indici, mentre io non riuscivo a guardarli in faccia. Parlavano forte, urlavano il loro dispiacere. In arabo, ovviamente. La lingua degli sconfitti.
Qualche anno fa, poi, conobbi due fratelli tunisini, Monzef e Khairy. Erano bravi e pazienti con me, mi chiamavano “brofesore”, ustàdh, volevano a tutti i costi che imparassi la loro lingua e mi davano delle lezioni, di lessico soprattutto, seduti sullo scalino di una bottega di generi alimentari. Il bottegaio mi guardava come se fossi pazzo di catena a imbarcarmi in una cosa infattibile come studiare l’arabo. Una volta mi invitarono a casa loro. Mangiammo kuskus con peperoncini interi, fritti. E studiavamo arabo. La lingua di Monzef e Khairy.
Poi i due fratelli se ne sono andati. Adesso fanno gli operai specializzati in una fabbrica del nord-est e uno di loro, ho saputo, si è sposato. Se ne sono andati lasciandomi con qualche vocabolo in più ma con la voglia di imparare meglio questa lingua stupenda. Stupenda proprio perché stupisce. Stupisce te stesso che ti senti quasi proprietario di una competenza che pensavi impossibile avere. Stupisce l’italiano, con la sua supponenza (“Vabbé l’inglese, ma l’arabo!”), con la sua superiorità d’accatto (“Sì, ora imparo l’arabo. Imparino loro l’italiano!”), con la sua iattanza (“Si vede che non hai niente da fare!”) o con la sua aperta ostilità verso l’invasore islamico. E stupisce soprattutto loro, gli Arabi. Basta il saluto nella loro lingua per stabilire un contatto che non è solo linguistico. Subito ti guardano increduli, poi ridono, ti mostrano agli altri, ti chiedono come fai a conoscerlo, se sei muslim. Provate a dire As-salam alaikum a uno di quei ragazzi maghribyy che vendono parasole per auto a San Leone; a una donna che, intabarrata, trascina sporte e figlioletti ricciuti per le vie della madina shaykha, il centro storico di Girgenti; al vecchio imam o ai giovani senegalesi della scalinata della stazione. Provate un po’. Testate la loro reazione. Difficilmente vi capiterà di vedere gente più felice. E solo perché sono stati salutati in arabo. La lingua del Corano.
Insha-llah, se Dio vuole, prima o poi lo imparo bene. Sto facendo il corso, quello che organizzano ogni anno. Ana adrusu al-lugha al-arabyy. L’arabo è, per antonomasia, una lingua difficile, nulla a che vedere con le quisquilie canore di Franco Battiato. Strani suoni uvulari, laringali, aspirati, interdentali, a noi sconosciuti. La qaf e il ghain, la kha e la tha, la dhal e il ‘ain, simile a un belato. E poi la lingua scritta. Da destra a sinistra; segni che cambiano a seconda della posizione nella parola; con puntini, senza puntini, con la pancia, senza pancia. Quelle che legano a sinistra e quelle che no. E niente vocali, olé, solo fatha, kasra e damma. Poi la shadda e il sukun; la ta tawila e la ta marbuta. Mi sto impegnando, sto cercando dentro di me anche delle motivazioni spirituali che ne giustifichino lo sforzo. Vivo in una città araba, partecipo della natura e del sangue arabo che è dentro di noi. Voglio parlare l’arabo. La lingua dell’Islam.
Sto imparando l’arabo. La lingua di popoli fieri, di genti nobili. Ed è come se mi appropriassi di un po’ del carattere di tutti gli arabi della terra: dello sceicco e del beduino, del bambino dell’Intifada e del cammelliere del Sahara, dell’ayatollah e della donna afghana sepolta dal burqa.
Sto imparando l’arabo. La lingua del Sud.
… Ha Waw Ya.

lunedì, giugno 01, 2009

OPERA DEL GOVERNO NEL MESE DI MAGGIO



Odio farlo ma devo dire che è opera di Coq Baroque, noto blogger. Avrei voluto farla io. Per cui, grazie a lui.