martedì, dicembre 08, 2009

LO SCIOPERO


Questo pezzo l’ho scritto qualche anno fa e forse sembrerà un po’ datato. Come si sa, da allora in Italia per gli immigrati molte cose sono cambiate. In peggio.

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3 ottobre 2003.
Una data come tante, uno di quei giorni in cui ci sforzeremo di ricordare se per caso è il compleanno di un amico, se avevamo preso un impegno importante o se è una ricorrenza particolare. Sarà una di quelle date che ci ronzerà in testa: “Cosa cavolo sarà successo il 3 ottobre del 2003?”, ci chiederemo senza trovare una risposta. Eppure la risposta c’è, e la rintracceremo, d’ora in avanti, in tutti gli almanacchi-del-giorno-dopo televisivi e in tutte le edizioni regalo di storia-degli-anni-2000 e forse anche in qualche libro di storia ad uso delle scuole medie superiori, dipenderà ovviamente dall’autore.
Il 3 ottobre del 2003 l’Italia si fermò.
E si fermò perché tutti gli immigrati, i cosiddetti extracomunitari ma anche i comunitari, all’unisono, senza essere convocati da nessuno, come chiamati da una voce superiore di cui non ne senti il suono ma ne percepisci la portata, non andarono a lavorare, non uscirono per le strade, non si fecero vedere. Come un sol uomo. Così. Semplicemente sparirono. Non so dire se scioperarono, escludo che ne avessero acquisito il diritto; fatto sta che in nessuna città d’Italia quel giorno si vide uno straniero, foss’egli maghrebino o romeno, cinese o peruviano, filippino o indiano, senegalese, polacco o cingalese. Neanche uno. Nemmeno nelle loro case si trovavano, né nei ritrovi dove sono soliti incontrarsi. Quel giorno non si vide un hijab né un turbante né una jallaba manco a pagarli a peso d’oro. Non erano nelle stazioni, né nei giardinetti o nelle moschee, non nei negozi etnici o nelle macellerie hallal. Da nessuna parte.
Detta così sembra una cosa neanche troppo grave, anzi da far gioire coloro che considerano la presenza degli stranieri come un problema o un peso per la nazione. Eppure quel giorno, il 3 ottobre del 2003, tutta l’Italia ebbe una gran batosta. Soprattutto economica. E soprattutto il Nord d’Italia, quello con la più alta densità industriale. I treni e i pullman dei pendolari non portarono al lavoro alcun immigrato, tant’è che le compagnie di trasporti lamentarono perdite notevoli, quel giorno. Le fabbriche erano vuote per metà giacché nessuno di quelli che normalmente facevano i lavori pesanti si era presentato al lavoro. Già, i lavori pesanti, quelli che gli italiani non voglion fare, ad alto rischio di pericolosità o tossicità e scarsa protezione dagli infortuni. I proprietari delle fabbriche, i padroni, erano disperati. Mandarono a cercare i lavoratori stranieri nelle loro case ma nessuno trovò nessuno. Quel giorno ebbero perdite enormi. Lavori non terminati, merce non consegnata, ordinativi non rispettati e soprattutto la paura che la cosa si potesse ripetere il giorno dopo o nei giorni a seguire o per sempre. Stessa cosa avvenne nei cantieri, dove una bella percentuale di lavoratori quel mattino non si presentò. Il buono di quel giorno fu che gli incidenti sul lavoro diminuirono ma i padroni erano terrorizzati dalla prospettiva di dover assumere manodopera italiana, doverla pagare con salari sindacali, versare contributi all’INPS, concedere ferie, malattie e gravidanze varie, provvedere all’alloggio, avere a che fare con sindacati, camere del lavoro, patronati, statuti dei lavoratori, articoli 18, cazzi e mazzi. Molto meglio avere dei “negretti” silenziosi alle proprie dipendenze. Li fai lavorare a un tot al giorno, li tieni buoni buoni e quando non ti servono più gli dai un bel calcio nel culo e alé andare.
Anche l’agricoltura ebbe una bella botta. Nei posti dove si faceva la raccolta nessuno si presentò a raccogliere. I campi, le vigne e i frutteti erano desolati, si vedevano solo le distese di piante, e i padroni dei fondi, con le mani nei capelli, che bestemmiavano tutti i santi per quella tragedia. I caporali al mattino nelle piazze dei paesi avevano aspettato sui pulmini i lavoratori stranieri ma non si era fatto vivo nessuno. Pensavano, chessò, a un’addormentata globale, per cui li andarono a cercare nelle loro case o gli telefonarono. Ma il responso fu unanime per tutti: non si trovava nessuno. Essi stessi, i caporali, privati dei loro introiti truffaldini, con i padroni dei campi e con tutti gli altri delle loro famiglie, con gli amici e i parenti che riuscirono a raggranellare, si misero in ginocchio o con la schiena curva sotto il sole, e dopo almeno quattordici ore di lavoro ininterrotto, riuscirono a raccogliere una quantità irrisoria di frutti. Un’ammazzata generale. E per di più i padroni dovettero pagare, e bene, quelli che avevano lavorato per tutto il giorno. Molti frutti rimasero sulle piante, alcuni andando a male, con grave legnata economica. A ciò si aggiunse l’incertezza dell’indomani: gli extracomunitari, sarebbero tornati il giorno dopo al lavoro? Il rischio di perdere tutto il raccolto e mandare in fumo la fatica di un anno intero era concreto.
Decine di migliaia di famiglie andarono in tilt, il 3 ottobre del 2003. Al mattino aspettarono le badanti, le colf, le babysitter ma, come per gli altri casi, non si fece vedere nessuno. Migliaia di anziani e ammalati rimasero senza la loro ragazza filippina o bielorussa che se ne prendesse cura. Il loro lavoro, fatto con amore e spirito di servizio oltre che per la paga ovviamente, fu sostituito da quello approssimativo e superficiale di figli, nuore o generi rimasti giocoforza in casa ad accudirli. Lo Stato pagò migliaia di giorni lavorativi a persone che non erano andate al lavoro (tanto un certificato medico se lo procura chiunque). Ma gli anziani, si sa, non sono stupidi, e neanche gli ammalati. La sofferenza o la vecchiaia li ha resi forse più cattivi e certamente più esigenti. Cominciarono a richiedere la presenza delle loro badanti, piangevano, urlavano, per la disperazione dei parenti. Lo stesso fecero i bimbi rimasti senza babysitter: parcheggiati davanti alla televisione a guardare Uno Mattina o la videocassetta di Re Leone per la duecentesima volta, dopo un po’ reclamarono di uscire, andare al parco, e nulla vollero sapere dei dinieghi dei papà e delle mamme. Le case rimasero sporche, i cani abbandonati, le siepi non potate, i pranzi non cucinati e i menage familiari, almeno per quel giorno s’intende, andarono in malora. Certo, per quel giorno, ma il giorno dopo?
Molte scuole videro la loro utenza decimata. I duecentomila e rotti studenti stranieri della scuola italiana bigiarono all’unisono. La popolazione scolastica subì un drastico calo in molte zone del Paese. Ad esempio nella città di Prato, che ha l’otto per cento di alunni non italiani, o nelle scuole dei rioni popolari o delle periferie delle grandi città, alcune classi videro solo presenze sparute di studenti e scolari italiani. I dirigenti scolastici allertarono le segreterie che si affrettarono a chiamare le case degli allievi assenti senza altro risultato che telefoni muti. Presidi, insegnanti e bidelli assistevano increduli e terrorizzati a un fatto nuovo e terribile. Increduli, vagavano per gli edifici semivuoti chiedendosi il perché di quella situazione, congetturando possibilità e motivazioni varie per quell’assenza massiccia; terrorizzati, si chiedevano se e quanto sarebbe durata quella congiuntura che avrebbe messo in crisi molti posti di lavoro. Nella tarda mattinata di quello stesso giorno, infatti, il Ministero della Pubblica Istruzione, diramò una nota raccapricciante: continuando così le cose, la brusca contrazione di alunni avrebbe causato una forte riduzione di classi e un conseguente taglio di organico non ancora quantificabile. Certamente qualche decina di migliaia di posti di lavoro tra personale docente e non docente. Una catastrofe.
Nelle città interi quartieri si ritrovarono semideserti. L’Esquilino a Roma e tutti quei posti che vengono con alterigia identificati come le Chinatown delle nostre città, si ritrovarono improvvisamente desolati. Saracinesche abbassate e nessun cenno di spiegazione. Neanche un cartellino, foss’anche in cinese. Le famiglie che erano uscite per andare a far compere nei negozi degli orientali, tornarono indietro con le sporte vuote e le pive nel sacco. E pensare che molti padri avevano preso un giorno di permesso dal lavoro proprio per far shopping per tutta la famiglia ai magazzini dei cinesi. Eh sì, perché oggigiorno con l’Euro, il costo della vita e tutto il resto, è meglio comprare da loro: le cose sono un po’ più scarsette però hanno delle buone imitazioni, uno spende meno e fa figura lo stesso. Sì, vabbé, ma i cinesi erano chiusi, per cui quel giorno si tornò a casa o si andò nei negozi “normali”, costretti a comprare meno roba e pagarla il triplo. Anche dei ristoranti nessuno seppe nulla. Comitive intere dovettero procrastinare pranzi e cene ai Giardini d’Oriente e alle Rose di Shangai e anche i ristoratori libanesi, indiani, giapponesi per quel giorno non spignattarono e di loro non se ne seppe né vecchia ne nuova.
Anche degli sportivi extracomunitari non si ebbe traccia. Gli strapagati brasiliani, argentini e africani delle nostre squadre di calcio disertarono i ritiri e gli allenamenti con grande dispiacere e preoccupazione dei presidenti delle squadre e dei loro cassieri. La Champions League, la Coppa Uefa e il campionato stesso rischiavano di trasformarsi in incubi per molti dei club sportivi più ricchi e blasonati del nostro paese.
Altri affari andarono molto male, quel giorno. La storia non ufficiale racconta che gli sfruttatori della prostituzione e i protettori, rigorosamente italiani, ebbero la sgradita sorpresa di non trovare più le loro ragazze. Ma anche i rispettabilissimi e integerrimi padri di famiglia che tutte le sere a bordo delle loro Fiat Punto e Ford Fiesta percorrono i viali del nostro Paese alla ricerca dell’amore mercenario, si ritrovarono privati delle loro fate nigeriane, moldave e albanesi. Dovettero fare dietro-front e ritornare a casa dalle mogli in bigodini, vestaglia e ciabatte sbertucciate. Furono richiamate in servizio le vecchie battone d’un tempo, ormai chiatte e sformate, le quali prestarono la loro opera con il senso del dovere delle professioniste vecchio stampo. Quella notte le anziane pantere del materasso guadagnarono un bel po’ di lirette e forse furono le uniche a godere, in tutti i sensi, di quella situazione che sperarono si protraesse a lungo.
Analoga sorte subirono i trafficanti di sostanze stupefacenti nel ritrovarsi, stupefacendosene a loro volta, senza i loro pusher nordafricani. Nelle stazioni centinaia di tossicodipendenti vagavano frignando alla ricerca del fornitore, chi per una bustina, chi per una pista, chi semplicemente per un pezzo di fumo. Castità e rinuncia furono le parole d’ordine il 3 ottobre del 2003.
Ai semafori solo automobili. Tutta l’umanità varia che vi si affolla in giornate normali era scomparsa. Non c’erano i lavavetri polacchi, non c’erano i venditori di fazzolettini di carta, né gli strilloni a vendere il giornale del mattino, non i senegalesi con i cd taroccati e gli accendini né i cingalesi coi fiori finti. Nelle piazze delle città non si videro i venditori ambulanti di paccottiglia, con i plaid per terra e la mercanzia in vista. Non c’erano più le donne e i bambini rom a chiedere l’elemosina. Ma, ovviamente, tutti questi non li cercò nessuno.
A viale Jenner, a Milano, quel giorno, ed era un venerdì, c’era una calma irreale, come in tutti gli altri magazzini adibiti a moschee,disseminati nel nostro Paese. Gli Uffici Immigrazione delle Questure divennero posti silenziosi e quasi spettrali e gli agenti addetti a quel servizio temettero di dover tornare di pattuglia per le strade. Anche nei Municipi, alle Poste e nelle Agenzie delle Entrate vi erano interi corridoi vuoti, senza nessuno che chiedesse certificati o carte d’identità, vaglia internazionali o codici fiscali.
E immaginatevi cosa accadde nei CPT, gli splendidi Centri di Permanenza Temporanea, quelli che tutti chiamano centri di accoglienza, quando i poliziotti di guardia svegliandosi si accorsero che tutti gli ospiti si erano disospitalizzati. Erano certi che i fuggiaschi avrebbero avuto i minuti contati, non può passare inosservato un gruppo di fuggitivi numeroso. Ma ovviamente non ci fu traccia di evaso. I responsabili degli enti gestori dei CPT, alcuni dei quali piissimi e misericordiosi personaggi, furono presi da sacro svenimento vedendo i loro centri svuotati e i loro affari in fumo. Il Ministero dell’Interno, infatti, fece sapere che tutte le convenzioni venivano sospese seduta stante fino alla risoluzione del problema e, si sperava, al ritrovamento degli ospiti.
Il 3 ottobre 2003 non ci furono sbarchi di clandestini. Né a Lampedusa, né a Pantelleria o a Capo Passero. Ma neanche a Lecce o a Otranto. Nessuno varcò la frontiera tra la Slovenia e Trieste. Ma soprattutto nessuno morì in mare né nei camion né nei container per trovare riparo in Italia. Le guardie costiere non registrarono alcuna imbarcazione sospetta nei loro radar e nessun guardacoste uscì dai porti se non per normale pattugliamento. Per gli incrociatori della Marina Militare, quella che noi mettiamo a guardia del nostro mare contro eventuali invasioni di pirateria extracomunitaria, fu un giorno di calma piatta. Eppure il mare era buono e avrebbe agevolato la navigazione delle carrette del mare.
Questo è quello che successe in Italia il 3 ottobre del 2003.
***
Sì, perché il 4 ottobre, il giorno successivo, tutto tornò come prima. Come richiamati dalla stessa voce che li aveva fatti scomparire, al mattino gli operai riaffollarono i mezzi di trasporto e furono accolti dai loro compagni di viaggio italiani con un sospiro di sollievo. Le fabbriche e i cantieri ripullularono di operai stranieri malpagati e le campagne di raccoglitori sfruttati. Finalmente le famiglie rigodettero di una tranquillità che credevano perduta: gli anziani, i bambini e gli ammalati rividero le loro Dolores, le Fatme e le Svetlane e le risalutarono come svegliandosi da un brutto sogno. I professori e i maestri quel giorno furono indulgenti come non mai: riaccolsero in classe i giovani alunni stranieri senza nemmeno chiedere la giustificazione. I negozi dei cinesi, come anche i ristoranti, rigurgitarono di clienti: l’abbigliamento a buon mercato si vendette che era una bellezza e gli involtini primavera andarono via come il pane. Le strade si ripopolarono di tutta la colorita umanità di cui il giorno prima si era sentita forte la mancanza. Sui viali ritornarono le ragazze, scosciatissime e smutandatissime per la gioia dei giovanotti italici e trovare una dose di eroina non fu più così difficile. Nei CPT ritornò, normale, la vita di sempre per la gioia di vescovi, preti e misericordie varie. E in tutto ciò nessuno ebbe più il coraggio di ritornare sull’argomento. Solo qualcuno pensò che forse riparlare di diritto di cittadinanza per gli stranieri non sarebbe stata una minchiata.
Comunque, nessuno volle sapere cos’era successo il 3 ottobre del 2003. Perché il giorno dopo tutto tornò come prima e si pensò che il peggio era passato.
Infatti, durante la notte del 4 ottobre, alle 0,01, un barcone carico di immigrati partito dalla Tunisia e con a bordo un centinaio circa di uomini, donne e bambini di diversa nazionalità si rovesciò a poche miglia dall’isola di Lampedusa. Nessun superstite.