3 ottobre 2003.
Una data come tante, uno di quei giorni in cui ci sforzeremo di ricordare se per caso è il compleanno di un amico, se avevamo preso un
impegno importante o se è una ricorrenza particolare. Sarà una di quelle date che ci ronzerà in testa: “Cosa cavolo sarà successo il 3 ottobre del 2003?”, ci chiederemo senza trovare una risposta. Eppure la risposta c’è, e la rintracceremo, d’ora in avanti, in tutti gli almanacchi-del-giorno-dopo televisivi e in tutte le edizioni regalo di storia-degli-anni-2000 e forse anche in qualche libro di storia ad uso delle scuole medie superiori, dipenderà ovviamente dall’autore.
Il 3 ottobre del 2003 l’Italia si fermò.
E si fermò perché tutti gli immigrati, i cosiddetti extracomunitari ma anche i comunitari, all’unisono, senza essere convocati da nessuno, come chiamati da una voce superiore di cui non ne senti il suono ma ne percepisci la portata, non andarono a lavorare, non uscirono per le strade, non si fecero vedere. Come un sol uomo. Così. Semplicemente sparirono. Non so dire se scioperarono, escludo che ne avessero acquisito il diritto; fatto sta che in nessuna città d’Italia quel giorno si vide uno straniero, foss’egli maghrebino o romeno, cinese o peruviano, filippino o indiano, senegalese, polacco o cingalese. Neanche uno. Nemmeno nelle loro case si trovavano, né nei ritrovi dove sono soliti incontrarsi. Quel giorno non si vide un hijab né un turbante né una jallaba manco a pagarli a peso d’oro. Non erano nelle stazioni, né nei giardinetti o nelle moschee, non nei negozi etnici o nelle macellerie hallal. Da nessuna parte.
Detta così sembra una cosa neanche troppo grave, anzi da far gioire coloro che considerano la presenza degli stranieri come un problema o un peso per la nazione. Eppure quel giorno, il 3 ottobre del 2003, tutta l’Italia ebbe una gran batosta. Soprattutto economica. E soprattutto il Nord d’Italia, quello con la più alta densità industriale. I treni e i pullman dei pendolari non portarono al lavoro alcun immigrato, tant’è che le compagnie di trasporti lamentarono perdite notevoli, quel giorno. Le fabbriche erano vuote per metà giacché nessuno di quelli che normalmente facevano i lavori pesanti si era presentato al lavoro. Già, i lavori pesanti, quelli che gli italiani non voglion fare, ad alto rischio di pericolosità o tossicità e scarsa protezione dagli infortuni. I proprietari delle fabbriche, i padroni, erano disperati. Mandarono a cercare i lavoratori stranieri nelle loro case ma nessuno trovò nessuno. Quel giorno ebbero perdite enormi. Lavori non terminati, merce non consegnata, ordinativi non rispettati e soprattutto la paura che la cosa si potesse ripetere il giorno dopo o nei giorni a seguire o per sempre. Stessa cosa avvenne nei cantieri, dove una bella percentuale di lavoratori quel mattino non si presentò. Il buono di quel giorno fu che gli incidenti sul lavoro diminuirono ma i padroni erano terrorizzati dalla prospettiva di dover assumere manodopera italiana, doverla pagare con salari sindacali, versare contributi all’INPS, concedere ferie, malattie e gravidanze varie, provvedere all’alloggio, avere a che fare con sindacati, camere del lavoro, patronati, statuti dei lavoratori, articoli 18, cazzi e mazzi. Molto meglio avere dei “negretti” silenziosi alle proprie dipendenze. Li fai lavorare a un tot al giorno, li tieni buoni buoni e quando non ti servono più gli dai un bel calcio nel culo e alé andare.
Anche l’agricoltura ebbe una bella botta. Nei posti dove si faceva la raccolta nessuno si presentò a raccogliere. I campi, le vigne e i frutteti erano desolati, s
i vedevano solo le distese di piante, e i padroni dei fondi, con le mani nei capelli, che bestemmiavano tutti i santi per quella tragedia. I caporali al mattino nelle piazze dei paesi avevano aspettato sui pulmini i lavoratori stranieri ma non si era fatto vivo nessuno. Pensavano, chessò, a un’addormentata globale, per cui li andarono a cercare nelle loro case o gli telefonarono. Ma il responso fu unanime per tutti: non si trovava nessuno. Essi stessi, i caporali, privati dei loro introiti truffaldini, con i padroni dei campi e con tutti gli altri delle loro famiglie, con gli amici e i parenti che riuscirono a raggranellare, si misero in ginocchio o con la schiena curva sotto il sole, e dopo almeno quattordici ore di lavoro ininterrotto, riuscirono a raccogliere una quantità irrisoria di frutti. Un’ammazzata generale. E per di più i padroni dovettero pagare, e bene, quelli che avevano lavorato per tutto il giorno. Molti frutti rimasero sulle piante, alcuni andando a male, con grave legnata economica. A ciò si aggiunse l’incertezza dell’indomani: gli extracomunitari, sarebbero tornati il giorno dopo al lavoro? Il rischio di perdere tutto il raccolto e mandare in fumo la fatica di un anno intero era concreto.
Decine di migliaia di famiglie andarono in tilt, il 3 ottobre del 2003. Al mattino aspettarono le badanti, le colf, le babysitter ma, come per gli altri casi, non si fece vedere nessuno. Migliaia di anziani e ammalati rimasero senza la loro ragazza filippina o bielorussa che se ne prendesse cura. Il loro lavoro, fatto con amore e spirito di servizio oltre che per la paga ovviamente, fu sostituito da quello approssimativo e superficiale di figli, nuore o generi rimasti giocoforza in casa ad accudirli. Lo Stato pagò migliaia di giorni lavorativi a persone che non erano andate al lavoro (tanto un certificato medico se lo procura chiunque). Ma gli anziani, si sa, non sono stupidi, e neanche gli ammalati. La sofferenza o la vecchiaia li ha resi forse più cattivi e certamente più esigenti. Cominciarono a richiedere la presenza delle loro badanti, piangevano, urlavano, per la disperazione dei parenti. Lo stesso fecero i bimbi rimasti senza babysitter: parcheggiati davanti alla televisione a guardare Uno Mattina o la videocassetta di Re Leone per la duecentesima volta, dopo un po’ reclamarono di uscire, andare al parco, e nulla vollero sapere dei dinieghi dei papà e delle mamme. Le case rimasero sporche, i cani abbandonati, le siepi non potate, i pranzi non cucinati e i menage familiari, almeno per quel giorno s’intende, andarono in malora. Certo, per quel giorno, ma il giorno dopo?
Molte scuole videro la loro utenza decimata. I duecentomila e rotti studenti stranieri della scuola italiana bigiarono all’unisono. La popolazione scolastica subì un drastico calo in molte zone del Paese. Ad esempio nella città di Prato, che ha l’otto per cento di alunni non italiani, o nelle scuole dei rioni popolari o delle periferie delle grandi città, alcune classi videro solo presenze sparute di studenti e scolari italiani. I dirigenti scolastici allertarono le segreterie che si affrettarono a chiamare le case degli allievi assenti senza altro risultato che telefoni muti. Presidi, insegnanti e bidelli assistevano increduli e terrorizzati a un fatto nuovo e terribile. Increduli, vagavano per gli edifici semivuoti chiedendosi il perché di quella situazione, congetturando possibilità e motivazioni varie per quell’assenza massiccia; terrorizzati, si chiedevano se e quanto sarebbe durata quella congiuntura che avrebbe messo in crisi molti posti di lavoro. Nella tarda mattinata di quello stesso giorno, infatti, il Ministero della Pubblica Istruzione, diramò una nota raccapricciante: continuando così le cose, la brusca contrazione di alunni avrebbe causato una forte riduzione di classi e un conseguente taglio di organico non ancora quantificabile. Certamente qualche decina di migliaia di posti di lavoro tra personale docente e non docente. Una catastrofe.