giovedì, settembre 09, 2010

IL CALEIDOSCOPIO

Quand’ero piccolo non ero un bambino esigente, non ero di quelli che quando si usciva coi genitori stavano lì a frignare tutto il tempo perché gli comprassero un giochino o qualcosa per cui ogni volta tornava a casa con una cosa nuova. No. Non ero affatto un bambino esoso, perciò quelle rare volte che chiedevo qualcosa, i miei mi esaudivano a lampo. Quindi non avevo intere carrettate di giocattoli, ma a quelli che avevo mi ci affezionavo come fossero parenti stretti. Il mio gioco preferito, il gioco della mia vita, quello col quale passavo delle ore intere è stato il caleidoscopio, uno di quei cannocchiali divisi in due stadi che vanno fatti roteare l’uno in opposizione all’altro, con dentro i vetrini colorati e un gioco di specchietti che crea una fantasmagoria di forme, di geometrie e di colori. Sì, perché ora l’ho capito come funziona, ora che sono cresciuto l’ho capito e mi chiedo perché sono cresciuto. Non potevo rimanere piccolo e continuare a guardare dentro il caleidoscopio, chiedendomi il perché e il percome di tanta meraviglia e stupirmi ad ogni nuova forma?
Comunque, ci ho pensato perché tempo fa mi trovavo con amici ad una fiera, di quelle che si fanno d’estate in ogni città, e in una bancarella di egiziani, tra le infradito di cuoio, i profumi dolciastri, i foulard con gli specchietti e gli scarabei turchese, ho avuto la mia solita epifania e ho visto un caleidoscopio. L’ho preso e ho cominciato a guardarci dentro e ci ho visto i triangolini, i prismi, le forme, le geometrie colorate ma ci ho visto anche un bambino di sette-otto anni coi capelli corti che si stupiva per delle cavolate, che guardava alle cose come fossero prodigi, e che, purtroppo, non ha conservato molto di allora.
Tant’è vero che quando gli altri m’hanno chiamato per andar via, invece di mandarli a quel paese e continuare a guardare fino a notte fonda, ho mollato il caleidoscopio, il mio caleidoscopio, e me ne sono andato.
Ridatemi il mio caleidoscopio e con lui la voglia di stupirmi delle cose e di chiederne il perché a mio fratello grande.

lunedì, luglio 12, 2010

LA BELLA BANDIERA


Uno dei cimeli della mia famiglia è una bandiera dell’Italia. Un tricolore commissionato da mio fratello e me a un’anziana zia di mio padre, la mitica zia Pietrina (R.I.P.), e cucito durante i mondiali del Messico del 1970. È fatto con tre larghe bande verticali, sarà in tutto un metro per cinquanta, rossa bianca e verde ovviamente, con degli scampoli di un raso molto morbido e spesso, bello al tocco, che la zia, che era anche sarta o che comunque sapeva cucire come tutte le donne siciliane dell’epoca, ci fece forse più con pazienza che con amore. Mentre noi, palpitavamo per le gesta di Mazzola e Rivera, Albertosi e Bonimba, la zia cuciva la bandiera. A un certo punto ci telefonò per una delucidazione che poteva cambiare e non di poco la cosa: dalla parte del bastone, chiese, ci va il rosso o il verde? Il verde ci va, ci mancherebbe. In effetti a quell’epoca non si vendevano bandiere per strada nelle bancarelle per cui chi voleva fare il carosello con le macchine dopo la partita, chi voleva gioire per le vittorie della Nazionale, doveva provvedere a farsi fare una bandiera. E a volte se ne vedevano di veramente brutte, col rosso dalla parte dell’asta o con verdi di tonalità indecorose o con l’arancione invece del rosso. Tutte bandiere fatte da zie. Ma la nostra s’informò e la bandiera venne cucita bene. O ce n’erano di quelle che assemblavano tessuti male assortiti, il cotone e il raso, il nylon e il fresco di lana, il mistolino e il terital e ogni tanto compariva anche il fustagno. Un vero orrore. Invece nostra zia la fece tutta di raso e per Italia-Germania (4-3) avemmo la nostra bella bandiera setosa e frusciante. Fu inchiodata, inchiodata, dalla parte del verde, ad un manico di scopa ed energicamente sbandierata con passione sportiva. E civile. Orgogliosi eravamo della nostra bella bandiera e, lo dico, orgogliosi eravamo di essere italiani. Cantavamo l’inno di Mameli-Navaro, al balcone, con le sue parole strane, alcune a me ignote, a squarciagola. L’Italia sedesta, con l’elmo discipio che ci cingeva la testa, stringendoci accorte decisamente pronti alla morte. Qualcuna era anche schiava di Roma ma non ne comprendevo il perché. Tutti fratelli d’Italia eravamo, ma noi con la bandiera della zia. La quale fu riposta mestamente, la bandiera dico, avvolta in un paio di fogli del Giornale di Sicilia, dopo la notte boccheggiante di Ciudad de Mexico, dopo che Edson Arantes do Nascimiento detto Pelè, per non parlare di Jairzinho, Tostao, Gerson, Roberto Rivelino e gli altri, fecero strame dei nostri ragazzi. E i sei minuti di Rivera. Adesso dopo quarant’anni non sono più pronto alla morte neanche se l’Italia chiamò; sono ingrassato e ho perso i capelli, ma ho ancora la bandiera di mia zia. La esco ogni quattro anni, in occasione del mondiale. La guardo e mi scasso di ricordi: la tiro fuori dal finestrino della seicento di mio padre, e faccio delle sciarre con mio fratello per chi la deve sbandierare; sento le grida di mia madre perché ho colpito un lampadario e la rabbia di mio padre e i suoi improperi a Ferruccio Valcareggi. Anche lui, mio padre, cittì della Nazionale come tutti gli Italiani. Ogni quattro anni la appendo al balcone di casa dei miei ad Agrigento, i miei fratelli sono andati via, il bianco è ormai avorio e anche il verde e il rosso non se la passano benissimo. La faccio garrire un po’ al vento con la speranza che si vinca qualcosa.

sabato, marzo 20, 2010

DELICIOUS AND REFRESHING


È ufficiale: a me piace la pubblicità. Negli anni ‘90 me ne appassionai al punto di iscrivermi in Tecnica Pubblicitaria all’Università di Palermo. Dopo un anno piuttosto impegnativo di frequenza – già lavoravo nella scuola e andare a Palermo almeno due volte alla settimana non era semplice – e alcuni esami passati, per vari motivi purtroppo lasciai gli studi. Mia sorella non me l’ha mai perdonato. E neanch’io.
Ecco perché dopo aver parlato dello spot dell’Eni e del suo gran rispetto per i popoli del mondo, e di quello di Banca Intesa Sanpaolo, che non vede l’ora di prestare soldi agli italiani, purché di buona volontà, adesso è ora di parlare dell’ultimo spot della Coca Cola, bell’esempio di pubblicità intelligente, che coniuga storia e fantasia. Il video si divide in tre quadri: il primo è ambientato nel 1886, anno in cui il Dr. John Pemberton di Atlanta, Georgia, scopre la ricetta della Coca Cola; immagini color seppia, vecchi tram americani e una storia, vera, narrata sullo sfondo. Il secondo quadro è degli anni ’60, o giù di lì, del Novecento. Racconta di una mamma di Roma che porta in tavola la Coca Cola, tra la gioia dei figli e lo stupore dei nonni e scopre così la formula della felicità. Però! Infine, il terzo, più melenso, momento è ambientato ai giorni nostri e sostiene che la ricetta della felicità continua e tutti possono scoprirla in tavola ogni giorno.
Si sa, la Coca Cola Company spende sempre molti soldi in pubblicità, del resto è da sempre impegnata nell’accreditarsi come la bibita più buona e vincere l’eterna rivalità con la Pepsi. Spende tanto, dicevo, forse farebbe bene anche a spendere qualcosina nel miglioramento etico delle sue politiche aziendali. Che fanno veramente schifo. Innanzitutto, la ricetta della Coca Cola – non quella della felicità – non è mai stata resa pubblica, anzi hanno fatto della segretezza un tratto distintivo. Ma per legge, mica per babbìo, ogni prodotto alimentare deve rendere noti gli ingredienti di cui è composto. Nella lattina della Coca Cola, o nella bitorzoluta bottiglia, c’è un generico “aromi naturali” che vuol dire tutto e niente. Il fatto che non si voglia rendere pubblica la ricetta della bevanda, induce molti perdigiorno a credere che ci possano essere delle sostanze che provochino dipendenza, oltre che felicità. A questo proposito ricordiamo che la magica Coca Cola è fatta con le foglie di coca – la stessa pianta che gli indios delle Ande masticano per farsi passare i malesseri da altura ma da cui si ricava anche quella interessante polverina che si sniffa allegramente tra amici – ed estratti di cola, un’altra pianta. Da qui si spiega l’uso e l’abuso di Coca Cola nel mondo. Ma sono solo ipotesi, ovviamente.
Ma non finisce qui. In California, terra di bagnini e di felicità, si è scoperto che le lattine sono contaminate col piombo, usato in particolare nelle vernici della gloriosa colorazione bianco-rossa e che le norme igieniche al momento dell’imbottigliamento sono una chimera. Si racconta di una bottiglia in cui fu rinvenuta una lucertola.
In India, la Coca Cola, oltre ad aver dispensato felicità a strafottere, ha anche sfruttato l’ambiente consumando più di un milione e mezzo di litri d’acqua al giorno, minando, di conseguenza, la stabilità e la qualità della vita di intere comunità. Le quali si sono ritrovate senza più acqua potabile, però ebbre di felicità. La High Court di Kerala ha chiesto alla Coca Cola di limitare il consumo di acqua, ma la compagnia graziosamente si è appellata.
Ma il capolavoro della Coca Cola Company è certamente la politica adottata in Colombia – ma anche in India, Guatemala, Zimbabwe e persino Stati Uniti. L’azienda produttrice di bibite gassate e felicità è considerata responsabile di comportamenti criminali e serie ripetute violazioni dei diritti umani. Il tutto allo scopo di mantenere la loro posizione di monopolio sul mercato. Obiettivi di dette violazioni sono stati dipendenti e soprattutto sindacalisti. In Colombia, attivisti del sindacato SINALTRAINAL hanno subito decine di rapimenti, minacce di morte e torture. Altri sono stati semplicemente uccisi. Esatto, alla vigilia della riapertura di tavoli di trattativa con la Coca Cola Company, alcuni sindacalisti hanno trovato la formula della felicità. Eterna.
Quei cialtroni di Amnesty International sostengono cha la Colombia non sia esattamente l’eden per i sindacalisti e che la Coca Cola conduce le sue campagne repressive contando sull’aiuto di fidati amici, i gradevoli corpi paramilitari ai quali è stato – chissà perché – appioppato il nomignolo di “squadroni della morte”. Forse “truppe della felicità” andava meglio, no? Peraltro, nel 2004 la New York City Fact-finding Delegation on Coca Cola ha provato le accuse a carico dell’azienda di Atlanta. La Coca Cola, dunque, aveva ingaggiato mercenari per rapire e massacrare i sindacalisti colombiani. I quali sono morti prima di conoscere la formula della felicità.

mercoledì, marzo 10, 2010

TONINO CARINO DA ASCOLI


Qualcuno, anzi molti certamente ricorderanno 90° minuto, il mitico programma calcistico della RAI dall’indimenticabile sigla. Quando ancora il calcio aveva un pizzico di anima, i compianti Maurizio Barendson e Paolo Valenti intrattenevano l’Italia del dopopartita con la riproposizione dei gol di Giorgione Chinaglia, i rigori di Walter Alfredo Novellino, i dribbling di Bruno Conti e le sviste arbitrali di Barbaresco da Cormons.
E poi i collegamenti: da Firenze Marcello Giannini, dallo spiccatissimo accento toscano; Luigi Necco dal San Paolo, attorniato da decine di guaglioni che gridavano Forza Napoli; da Torino Cesare Castellotti, dalle gote in fiamme; Giorgio Bubba da Genova e Beppe Viola da Milano.
Ma al di sopra di tutti svettava Tonino Carino da Ascoli. Ometto capitato lì per caso, Carino era noto per storpiare i nomi difficili (ma anche quelli facili) dei calciatori dell’Ascoli, la squadra di cui seguiva le sorti ai tempi del presidente Rozzi. “Anno nuovo, Ascoli vecchio”, esordì una volta, dimostrando doti un po’ scarsucce di battutista. Ma tant’è, Carino è stato certamente il più singolare e il più amato di quei mezzibusti, all’epoca della moviola di Carlo Sassi.
Adesso se n’è andato, forse presto, visto che aveva solo 64 anni. Ciao, Tonino Carino da Ascoli.

domenica, marzo 07, 2010

LA BELLA ITALIA DI INTESA SANPAOLO


Quando guardo le pubblicità delle banche mi chiedo sempre come facciano a campare. Per le offerte che ti fanno, per i tassi praticamente da miseria, per i mutui vantaggiosi (per te, naturalmente!). E poi c’è l’uomo che fa i cerchi sulla sabbia, quello con la zucca arancione, che banca!, la mia banca è differente, accendi un mutuo e lo estingui quando vuoi, c’è l’home banking, insomma, se hai un problema non c’è banca che non lo possa risolvere. Meno male, va’.
Ho guardato con attenzione e interesse i nuovi spot pubblicitari di Intesa Sanpaolo, uno dei gruppi bancari leader in Italia. Stavolta fanno sul serio. Hanno scomodato volti noti e importanti registi del cinema per confezionare tre piccoli film, dove solo in controluce appare che il committente è proprio una banca. Tre filmetti che fanno leva su buoni sentimenti, sul senso del lavoro, del sacrificio, dell’amicizia e – in tempi di patriottismo di quarta – anche sull’amore per il proprio Paese.
Il primo di questi videuzzi si intitola “Impresario” e narra del padrone di un’azienda in crisi che convoca i suoi quadri dirigenti (dubito che caghi fin a tal segno anche gli operai) per annunziare loro: bambole non c’è una lira. Si sbaracca, in sostanza, a meno che non ci mettiamo tutti il cuore, non ci crediamo fino in fondo e melassa di questo tenore. Effettivamente, alla fine, si scopre l’inghippo. Il figlioletto del capo ha un’amichetta, il cui babbo lavora proprio lì e che sarà costretta ad andar via in caso di licenziamento del genitore. Vien voglia di far scrivere tante belle letterine a Marchionne, non si sa mai. È diretto da Paolo Virzì – di cui ho amato Ferie d’agosto – e ha la voce di Silvio Orlando in sottofondo.
Il secondo filmetto, “Asilo”, narra di Giulia e Sara, due giovani donne che decidono di riportare in vita la vecchia scuola materna dove sbocciò la loro diciamolopure trentennale amicizia. Una delle due, in verità, è alquanto riluttante, ha già un lavoro e di ‘sti tempi… Ma alla fine, il sogno si avvera. La recalcitrante, su illuminato consiglio dell’amica, molla il lavoro e la cosa si fa. Il, anzi la, regista è Francesca Archibugi mentre la voce narrante è di Antonio Albanese.
E passiamo al terzo. “Ricercatore” è la storia di un “cervello fuggitivo” italiano, che lavora in un istituto di ricerca negli USA, fa delle belle scoperte scientifiche, ha un ottimo contratto, parla molto bene l’inglese e ha anche una fidanzata locale. Ma il nostro uomo è malinconico, boiadungiudacane, pensa in continuazione al suo Paese e vuole ritornare. Perciò – con disdoro della fidanzata yankee – lascia gli States e torna in Italia dove, con un sorriso a 32 denti, andrà con un contratto di € 900 al mese. Il suo cervello deve essere fuggito veramente. Una figata colossale firmata da Silvio Soldini e bravamente commentata da Margherita Buy. Tutta la campagna pubblicitaria è dell’agenzia Saffirio-Tortelli-Vigoriti.
Ma insomma, Todaro, cos’è quest’ironia di fondo che pervade questo pezzo? Sono belli o no, gli spot di Intesa? Ma scherziamo? Certo che sono belli, eccome. L’elemento comune di tutti e tre i filmetti è che dietro di te, qualunque cosa tu decida di fare, a mo’ di ombra protettiva ci sta sempre la banca Intesa Sanpaolo. E come dubitarne? Essa, anzi ella, come una mamma ti accompagna, segue i tuoi sogni, coccola le tue aspirazioni, fortifica la tua voglia di lavorare e premia i tuoi sacrifici. La banca, capito?, il vecchio San Paolo di Torino. Nei nuovi filmetti, dicevo in apertura, si fa leva su buoni sentimenti italiani, quali l’amicizia, l’amore per il proprio paese, la voglia di non mollare, di credere nei sogni e nel nuovo miracolo italiano. Mancava solo un video sulla mamma e le sue lasagne ed eravamo a posto.
Dice, perché ce l’hai con Intesa Sanpaolo? Perché era la mia banca, e mi ci sono trovato abbastanza bene, ma poi ho scoperto una cosa di loro e li ho lasciati. Oddio, una volta un impiegato ha cercato di farmi avere un prestito che non avevo chiesto ma tolto questo, poi mi sembravano abbastanza seri – per quanto seria possa essere una banca. Ho scoperto una cosa, dicevo, anche abbastanza nota, per chi queste cose le vuol notare. Intesa Sanpaolo è una delle cosiddette “banche armate”. Sono ai primi posti nel finanziamento all’export di armi. Mitra, fucili, mine antiuomo e schifezze di questo genere. Per cui, mentre il ricercatore mammone fa il viaggio di ritorno a Napule, casse di kalashnikov fanno quello di andata in Costa d’Avorio; mentre danno una mano all’imprenditore di Pisa, la mano la mozzano a un pigmeo del Congo; riaprono asili a Ferrara dove i bambini soldato della Sierra Leone non giocheranno mai.

giovedì, febbraio 18, 2010

CIAO, BAMBINO PISELLINO


Il suo vero nome è Maicol ma i volontari della missione di Ismani lo conoscono come “bambino pisellino”. È un bimbo del villaggio di Chamndindi, a parecchi chilometri dal centro della missione. L’abbiamo conosciuto nel 2006, quando sua nonna lo portò, a piedi, da noi per farcelo vedere. Le nonne africane – le bibi – sono l’unica speranza per i bambini come Maicol (foto), che hanno perduto entrambi i genitori, stroncati probabilmente dall’AIDS. Non appena entrò nell’ufficio della missione (dove monitoriamo il programma di adozioni a distanza), il locale si riempì di un fetore aspro, deciso. L’anziana donna, toltosi di dosso il piccolo, gli aprì i pantaloncini per mostrarcelo. Chi c’era non l’ha mai dimenticato. Un’unica piaga, sanguinolenta e nauseabonda andava dall’ombelico all’ano, comprendendo anche l’apparato genitale. L’odore – che nessuno di noi ha mai dimenticato – derivava dal fatto che in quel tourbillon di carne, sangue, pus e organi, il bambino faceva i suoi bisogni praticamente “a cielo aperto”. E la nonna “puliva” tutto con la kanga, la coloratissima, multiuso veste delle donne africane. Maicol era nato con questa malformazione, che andava curata e certamente operata.
Sì, ma dove? Questa è l’Africa, dove la gente viene decimata dalla malaria e i bimbi muoiono perfino con la varicella o la diarrea. La bibi, comunque, capiva che se c’era qualcuno che poteva far qualcosa, quelli eravamo noi. Per cui, nel nostro viaggio di rientro in Italia, abbiamo deciso di portarli a Dar es-Salaam, la città più grande e importante della Tanzania, l’ex capitale dello stato, per far vedere Maicol in ospedale.
C’è un aneddoto – che già una volta ho raccontato – legato alla trasferta di Maicol e la sua bibi a Dar es-Salaam. I due vennero alloggiati al piano inferiore della casa dove risiedevamo anche noi. A sera, quando già quasi tutti erano a dormire, notiamo che la luce della camera di nonna e nipote era ancora accesa. Non c’erano persiane sicché, mossi da semplice curiosità, dalla necessità di non farci i cavoli nostri, ci avviciniamo per cercare di capire il motivo per cui non fossero ancora a letto. E invece scopriamo che i due dormivano già, e della grossa. Poi abbiamo fatto mente locale: la bibi non aveva spento la luce perché non conosce la luce, quella elettrica quanto meno, non sa che c’è un interruttore che la accende e la spegne. Lei non sa cosa sia un interruttore. Del resto, nella sua casa di fango e paglia l’interruttore non c’è. Per lei la luce è quella che viene al mattino e che va via la sera, al tramonto, e che nessun interruttore può accendere o spegnere.
Maicol venne operato una prima volta, e poi delle altre. Negli anni a seguire abbiamo sempre incontrato Maicol, bambino pisellino, e la sua bibi. A proposito, perché questo nickname? Quando abbiamo conosciuto Maicol, gli abbiamo fatto una serie di foto, per testimoniare la sua malattia e, chissà, vedere di portarlo qui in Italia per farlo operare, cosa difficilissima da fare. Di ritorno dall’Africa, al momento di scaricare le foto, non ricordando il nome del bambino e pensando che aveva problemi al pisellino, qualcuno nominò il file come “bambino pisellino”. E da allora lo abbiamo sempre affettuosamente ricordato così.
L’estate scorsa si era quasi raggiunto un accordo. Una zia giovane si era resa disponibile ad accompagnarlo in Italia per farlo curare. Bisogna immaginare cosa voglia dire, per una donna che non è mai uscita dal suo villaggio nel cuore dell’Africa nera, affrontare un viaggio nientemeno che in Italia. Intanto il bambino continuava ogni tanto ad essere curato e operato.
Ieri mattina Maicol è morto. Il giorno prima aveva subito un altro intervento operatorio ma evidentemente non ce l’ha fatta.
Allora ciao, bambino pisellino. Ciao, piccolo Maicol, ultima vittima di un’Africa in agonia, di un’Africa che muore lentamente. Come te.

martedì, febbraio 16, 2010

LA LUISONA

Visto che ormai non sto scrivendo nulla da un po' di tempo (e tra l'altro non se n'è accorto nessuno), vorrei postare uno dei pezzi più belli di Stefano Benni - La Luisona - tra i capisaldi della letteratura umoristica italiana.



Al bar Sport non si mangia quasi mai. C’è una bacheca con delle paste, ma è puramente coreografica. Sono paste ornamentali, spesso veri e propri pezzi d’artigianato. Sono lì da anni, tanto che i clienti abituali, ormai, le conoscono una per una. Entrando dicono: «La meringa è un po’ sciupata, oggi. Sarà il caldo». Oppure: «È ora di dar la polvere al krapfen». Solo, qualche volta, il cliente occasionale osa avvicinarsi al sacrario. Una volta, ad esempio, entrò un rappresentante di Milano. Aprì la bacheca e si mise in bocca una pastona bianca e nera, con sopra una spruzzata di quella bellissima granella in duralluminio che sola contraddistingue la pasta veramente cattiva. Subito nel bar si sparse la voce: «Hanno mangiato la Luisona!» La Luisona era la decana delle paste, e si trovava nella bacheca dal 1959. Guardando il colore della sua crema i vecchi riuscivano a trarre le previsioni del tempo. La sua scomparsa fu un colpo durissimo per tutti. Il rappresentante fu invitato a uscire nel generale disprezzo. Nessuno lo toccò, perché il suo gesto malvagio conteneva già in sé la più tremenda delle punizioni. Infatti fu trovato appena un’ora dopo, nella toilette di un autogrill di Modena, in preda ad atroci dolori. La Luisona si era vendicata.
La particolarità di queste paste è infatti la non facile digeribilità. Quando la pasta viene ingerita, per prima cosa la granella buca l’esofago. Poi, quando la pasta arriva al fegato, questo la analizza e rinuncia, spostandosi di un colpo a sinistra e lasciandola passare. La pasta, ancora intera, percorre l’intestino e cade a terra intatta dopo pochi secondi. Se il barista non ha visto niente, potete anche rimetterla nella bacheca e andarvene.
(da Bar Sport, Garzanti, Milano)

mercoledì, gennaio 27, 2010

L’ENI E IL RISPETTO


Bello l’ultimo spot dell’Eni, vero? Mentre una voce in sottofondo canta mirabilia dell’azienda italiana leader nel ramo petrolio, una strepitosa artista, Ilana Yahav, disegna con la sabbia. Già diversi video su questa bravissima performer girano su Internet ma questa credo sia l’occasione per farla conoscere un po’ da tutti. Ma è la voce sullo sfondo, e ciò che dice, che più colpisce. Parla di internazionalità, di ricerca e di rispetto. Esatto, rispetto. Dice che è una parola molto importante. L’Eni parla di rispetto.
“Ad Akala Olu non cala mai il buio. Le torce di gas che si sprigionano dagli impianti dell’Agip illuminano la zona sempre a giorno” (foto). Questa è una delle didascalie che corredano gli scatti del fotografo olandese Kadir van Lohuizen, raccolte da Amnesty nella mostra “Nigeria: una terra che perde, una terra che brucia”, e che testimoniano efficacemente lo sforzo che l’Eni (l’Agip le appartiene) fa quotidianamente sulla strada del rispetto. Nel Delta del Niger – fino a qualche anno fa uno degli ecosistemi più belli al mondo – hanno fatto (è il caso di dirlo) terra bruciata. Ma anche acqua inquinata e aria avvelenata.
Infatti, l’agricoltura, sulla quale si basa l’economia del luogo è rimasta pesantemente danneggiata. Le fuoriuscite di petrolio hanno avuto un notevole impatto sulle colture ma soprattutto hanno pregiudicato la fertilità futura di quei terreni, al punto che ci vorranno tanti e tanti anni per recuperarne la produttività. Stessa musica per la pesca, altra fonte di reddito e di sostentamento per le popolazioni locali. Anch’essa esce fortemente colpita dall’impatto che l’estrazione dell’oro nero ha in quella zona. L’inquinamento da petrolio uccide i pesci, i crostacei e i molluschi e ne compromette la riproduzione, causando danni immediati e a lungo termine alle riserve. L’atmosfera, infine, è contaminata: “torce” di petrolio vengono lasciate a bruciare liberamente all’aria aperta. Le torce sono esalazioni di gas in eccesso, che vengono lasciate bruciare, senza che nessuno le spenga, causando l’irrespirabilità dell’aria, oltre ad un eccesso di calore. Tutto ciò danneggia seriamente la qualità della vita e compromette la salute degli abitanti del Delta del Niger.
Insomma, in un luogo in cui, secondo le Nazioni Unite, più del 60 per cento della popolazione dipende dall’ambiente naturale per la propria sussistenza, l’inquinamento da petrolio ha causato gravi danni ambientali e compromesso le risorse naturali.
Cosa avranno voluto dire quelli dell’Eni quando parlavano di rispetto?

(Le informazioni sul Delta del Niger sono tratte dal sito di Amnesty International)

lunedì, gennaio 11, 2010

VACCI PIANO CON LE PAROLE


Le immagini arrivate da Rosarno in questi giorni ci hanno rassegnato una realtà drammatica rispetto al problema dell’immigrazione. Innanzitutto partendo proprio da questo termine: problema. Quello che problema non dovrebbe essere, in alcuni casi e in alcuni posti lo diventa. La libera circolazione di esseri umani sulla Terra, gli spostamenti migratori da un posto all’altro, la possibilità di cercare e di godere altrove riparo e asilo dalle persecuzioni – benché siano fatti dolorosi per chi li vive – non dovrebbero essere un problema. La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani li riconosce come diritti inalienabili. Tuttavia spesso diventano un problema, e i fatti di questi giorni lo testimoniano. Inevitabilmente ci si chiede di chi siano le colpe e le responsabilità. E naturalmente si fa a gara per chiamarsene fuori.
Mi chiedo se a volte non sia anche colpa nostra, che diamo per scontate alcune cose quando invece dovremmo farci un po’ più di attenzione. Al nostro lessico, per esempio, tanto per cominciare. Non ci facciamo caso, lo so, ma spesso usiamo un vocabolario che andrebbe in qualche modo “aggiustato”. Vediamo.
La parola “clandestino” non la uso ormai da anni – credo di non averla mai usata –, posto che di una persona che scappa dal suo paese non mi interessa sapere se è in regola o no. È un termine che denota negativamente qualcuno, così, senza neanche conoscerlo e ne mette in risalto il carattere illecito del suo stesso essere. Del resto non sento mai chiamare qualcuno “evasore”, anche se di quello si sa che se ne impippa del Fisco; nessuno chiamerebbe “pregiudicato” qualcuno che ha avuto grane con la Legge. Né, mai e poi mai, sento chiamare “condannati” o “inquisiti” o semplicemente “imputati” gran parte dei personaggi che affollano il nostro Parlamento e il nostro Consiglio dei Ministri. Anzi, quelli li chiamiamo “onorevoli”. Mi rendo conto che spesso non lo si fa per male, quanto piuttosto perché si pensa che il termine “clandestino” sia un mero sinonimo di “immigrato”, meglio se dalla pelle scura. È un errore in cui incappano tante persone, nella maggior parte dei casi in assoluta buona fede. Quante volte si chiamano clandestini persone con regolare permesso di soggiorno? Tempo fa, dovendo commemorare un immigrato morto in un cantiere, sulla lapide venne scritto: “lavoratore clandestino”. Vogliamo farci un po’ di attenzione?
Abolirei anche “extracomunitario”, giacché ne metterebbe in luce soprattutto la sua non appartenenza a quel club esclusivo e fighetto che è la Comunità Europea. Peraltro non credo che i migranti brucino dalla voglia di diventare “intracomunitari”, credo cerchino solo un po’ di dignità negata. Anche in questo caso sarebbe necessario un pizzico in più di attenzione. Del resto, chi chiamerebbe “extracomunitario” un banchiere svizzero, custode di lucrosi proventi da commercio di armi? O il grande calciatore brasiliano, stella miliardaria della nostra squadra del cuore? E se in Italia venisse George W. Bush, l'eroe di Baghdad, chi di noi lo chiamerebbe “extracomunitario”? Eppure tutti e tre questi personaggi sono tecnicamente degli “extracomunitari”.
Farei attenzione (e molta) a non chiamare “centri di accoglienza”, quei mostruosi CIE (già CPT), i Centri di Identificazione ed Espulsione. Ci basta che lo facciano le televisioni, no? Guardate un po’ in giro per il web e cercate di capire il tipo di accoglienza che si pratica in quei luoghi. Da Capo Rizzuto a Lecce, da Gradisca a Torino, da Caltanissetta a Lamezia Terme a Lampedusa, è tutto un fiorire di centri di detenzione per migranti, che creano situazioni di grande disagio per chi ci si trova chiuso dentro e introiti redditizi per chi li gestisce. Il CPT di Agrigento è stato chiuso anni fa in seguito a una visita della Commissione per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa. Mica i boy scout (con tutto il rispetto)! Forse lì dentro si praticava un’accoglienza un po’ “focosa”. Del resto, si sa, l’accoglienza del Sud…
Menzione a parte, infine, per il termine “disperati”. Chi di noi non ha definito in questo modo le persone che arrivano nel nostro paese? “È arrivato un barcone di disperati”, “file di disperati davanti la Questura”, “arrivano a migliaia, i disperati”. Leggo sul dizionario Devoto-Oli che “disperato” vuol dire “abbandonato da ogni speranza”. Quindi, quando termina la speranza, c’è la disperazione, no? Assenza di speranza, direi. Io credo che una persona che non ha più speranza è una persona che si abbandona a sé stessa, non reagisce, non chiede più nulla alla vita. Il migrante è una persona che contro ogni speranza, spinta dal bisogno più estremo, dalla povertà, dalla necessità di darsi un futuro e darne uno ai suoi figli e alla sua famiglia, si avventura a fare un lungo viaggio intercontinentale. Dapprima nel deserto, a bordo di un camion stipato all’inverosimile – tutta la sua famiglia aveva raccolto, faticosamente e a via di sacrifici, del denaro per consentirgli di intraprendere il viaggio. Arrivato in Libia, vive per uno o due anni in un campo di raccolta, maltrattato dalla polizia – ogni tanto anche stuprata, se donna –, cercando di sopravvivere a forza di stenti. Alla fine riesce a saltare su un barcone, destinazione Italia, per fare una traversata di qualche giorno, che finalmente lo porterà verso una terra e una vita migliori di quelli che ha lasciato a casa. No, dico, secondo voi questa è una persona disperata? O piuttosto ha speranza da vendere, per riuscire a fare tutto questo? Questa persona può fasciarmi di speranza, cellophanarmi con tre giri, tipo domopak, altrochè. Quindi penso che anche il termine “disperato” vada mandato in soffitta.
Certo, quando poi i migranti arrivano qui da noi si imbattono in situazioni che neanche la più grande accortezza lessicale riesce a evitare, è vero. Però, se almeno cominciassimo a dare un senso alle parole, forse riusciremmo anche a vederli sotto un’altra ottica. Quella del rispetto.

venerdì, gennaio 01, 2010

IL CAPRETTO NERO


I bambini africani riscuotono sempre un grande successo. Sono belli, non c’è che dire, ecco perché tutti quanti se ne innamorano. Quegli occhi grandi ed espressivi, quei sorrisi accattivanti, quelle testoline ricciute: è impossibile non amarli. Quante volte ci chiedono cosa si prova a essere attorniati da un nugolo di bambini neri, vocianti e ridenti, che ti chiamano, ti tirano, ti prendono la mano. E quante volte ci chiedono, addirittura, come si fa ad averne uno. In tanti si dichiarano disposti ad adottarne uno. Alcuni pensano che basti andare lì, in Africa, per tornare con un bel bambino nero sotto braccio, tipo al discount.
E tutte le volte che sento questi discorsi, tutte le volte che vedo questi slanci di amore incondizionato verso i bambini neri, io penso a Miss Ethel Holloway.
Certo, è probabile che non si conosca la signorina in questione. Del resto non la conoscevo neanche io prima di leggere Il capretto nero, una divertente novella di Luigi Pirandello, mio illustre concittadino – il più famoso dopo il ministro Alfano. Miss Ethel, quindi, è la “giovanissima e vivacissima figlia di Sir W. H. Holloway, ricchissimo e autorevolissimo Pari d’Inghilterra”, venuta in vacanza a Girgenti, dove poté ammirare le bellezze della nostra città – che tuttavia Pirandello descrive come molto misera, già un secolo prima della classifica del Sole 24 ore. L’inglesina, quindi, si innamorò perdutamente di un capretto nero, una vivace bestiola che allegramente trotterellava, anzi springava “come se per aria attorno gli danzassero tanti moscerini di luce”, in mezzo al gregge che il caprajo, “bestiale e sonnolento come un arabo”, portava a rugumare tra le rovine di un tempio dorico, cosa che Mr Charles Trockley, vice-console d’Inghilterra a Girgenti, giudicava come profanazione. Ebbene, tanto fu l’amore subitaneo che la ragazza provò per la bestiola, che decise di comprarla e farsela inviare in Inghilterra. La spedizione dell’animale, per varie vicende – che Pirandello narra –, richiese quasi un anno, per cui, a quel punto, il graziosissimo capretto nero era diventato un caprone, un becco, “un orribile bestione cornuto, fetido, dal vello stinto rossigno”, che causò lo sconcerto della giovinetta e le rimostranze decise del di lei padre. Eppure era lo stesso animale.
E allora, dice, che c’entrava la storia dei bambini neri con quella del capretto? È simile. Tutti a squagliarsi davanti ai bambini neri: “ma quanto sono carini, che dolcezza, che tenerezza, che simpatia. Guarda che bella quella bambinetta nera. M’a mangiassi a muzzicuna. Come si fa ad averne una? Ne vorrei uno a casa mia. Me lo prenderei uno, che ti credi? Ho questo desiderio.”
Fatto sta che il desiderio di molti di avere tanti bei bambini neri alla fine viene esaudito. I bambini neri vengono davvero qui da noi, dopo una quindicina, una ventina di anni. Ma nessuno li riconosce più. Non riconoscono più il sorrisino furbo del bambino del Senegal nel ragazzone che chiede di comprare un accendino; né lo sguardo vispo di un bimbo nigeriano nelle lacrime del migrante che supplica il finanziere in guanti di lattice. Nessuno vede nella prostituta nigeriana la bella bambina sorridente che aveva visto in foto tanti anni prima e che voleva portarsi a casa.
Eppure sono le stesse persone.