giovedì, febbraio 18, 2010

CIAO, BAMBINO PISELLINO


Il suo vero nome è Maicol ma i volontari della missione di Ismani lo conoscono come “bambino pisellino”. È un bimbo del villaggio di Chamndindi, a parecchi chilometri dal centro della missione. L’abbiamo conosciuto nel 2006, quando sua nonna lo portò, a piedi, da noi per farcelo vedere. Le nonne africane – le bibi – sono l’unica speranza per i bambini come Maicol (foto), che hanno perduto entrambi i genitori, stroncati probabilmente dall’AIDS. Non appena entrò nell’ufficio della missione (dove monitoriamo il programma di adozioni a distanza), il locale si riempì di un fetore aspro, deciso. L’anziana donna, toltosi di dosso il piccolo, gli aprì i pantaloncini per mostrarcelo. Chi c’era non l’ha mai dimenticato. Un’unica piaga, sanguinolenta e nauseabonda andava dall’ombelico all’ano, comprendendo anche l’apparato genitale. L’odore – che nessuno di noi ha mai dimenticato – derivava dal fatto che in quel tourbillon di carne, sangue, pus e organi, il bambino faceva i suoi bisogni praticamente “a cielo aperto”. E la nonna “puliva” tutto con la kanga, la coloratissima, multiuso veste delle donne africane. Maicol era nato con questa malformazione, che andava curata e certamente operata.
Sì, ma dove? Questa è l’Africa, dove la gente viene decimata dalla malaria e i bimbi muoiono perfino con la varicella o la diarrea. La bibi, comunque, capiva che se c’era qualcuno che poteva far qualcosa, quelli eravamo noi. Per cui, nel nostro viaggio di rientro in Italia, abbiamo deciso di portarli a Dar es-Salaam, la città più grande e importante della Tanzania, l’ex capitale dello stato, per far vedere Maicol in ospedale.
C’è un aneddoto – che già una volta ho raccontato – legato alla trasferta di Maicol e la sua bibi a Dar es-Salaam. I due vennero alloggiati al piano inferiore della casa dove risiedevamo anche noi. A sera, quando già quasi tutti erano a dormire, notiamo che la luce della camera di nonna e nipote era ancora accesa. Non c’erano persiane sicché, mossi da semplice curiosità, dalla necessità di non farci i cavoli nostri, ci avviciniamo per cercare di capire il motivo per cui non fossero ancora a letto. E invece scopriamo che i due dormivano già, e della grossa. Poi abbiamo fatto mente locale: la bibi non aveva spento la luce perché non conosce la luce, quella elettrica quanto meno, non sa che c’è un interruttore che la accende e la spegne. Lei non sa cosa sia un interruttore. Del resto, nella sua casa di fango e paglia l’interruttore non c’è. Per lei la luce è quella che viene al mattino e che va via la sera, al tramonto, e che nessun interruttore può accendere o spegnere.
Maicol venne operato una prima volta, e poi delle altre. Negli anni a seguire abbiamo sempre incontrato Maicol, bambino pisellino, e la sua bibi. A proposito, perché questo nickname? Quando abbiamo conosciuto Maicol, gli abbiamo fatto una serie di foto, per testimoniare la sua malattia e, chissà, vedere di portarlo qui in Italia per farlo operare, cosa difficilissima da fare. Di ritorno dall’Africa, al momento di scaricare le foto, non ricordando il nome del bambino e pensando che aveva problemi al pisellino, qualcuno nominò il file come “bambino pisellino”. E da allora lo abbiamo sempre affettuosamente ricordato così.
L’estate scorsa si era quasi raggiunto un accordo. Una zia giovane si era resa disponibile ad accompagnarlo in Italia per farlo curare. Bisogna immaginare cosa voglia dire, per una donna che non è mai uscita dal suo villaggio nel cuore dell’Africa nera, affrontare un viaggio nientemeno che in Italia. Intanto il bambino continuava ogni tanto ad essere curato e operato.
Ieri mattina Maicol è morto. Il giorno prima aveva subito un altro intervento operatorio ma evidentemente non ce l’ha fatta.
Allora ciao, bambino pisellino. Ciao, piccolo Maicol, ultima vittima di un’Africa in agonia, di un’Africa che muore lentamente. Come te.

martedì, febbraio 16, 2010

LA LUISONA

Visto che ormai non sto scrivendo nulla da un po' di tempo (e tra l'altro non se n'è accorto nessuno), vorrei postare uno dei pezzi più belli di Stefano Benni - La Luisona - tra i capisaldi della letteratura umoristica italiana.



Al bar Sport non si mangia quasi mai. C’è una bacheca con delle paste, ma è puramente coreografica. Sono paste ornamentali, spesso veri e propri pezzi d’artigianato. Sono lì da anni, tanto che i clienti abituali, ormai, le conoscono una per una. Entrando dicono: «La meringa è un po’ sciupata, oggi. Sarà il caldo». Oppure: «È ora di dar la polvere al krapfen». Solo, qualche volta, il cliente occasionale osa avvicinarsi al sacrario. Una volta, ad esempio, entrò un rappresentante di Milano. Aprì la bacheca e si mise in bocca una pastona bianca e nera, con sopra una spruzzata di quella bellissima granella in duralluminio che sola contraddistingue la pasta veramente cattiva. Subito nel bar si sparse la voce: «Hanno mangiato la Luisona!» La Luisona era la decana delle paste, e si trovava nella bacheca dal 1959. Guardando il colore della sua crema i vecchi riuscivano a trarre le previsioni del tempo. La sua scomparsa fu un colpo durissimo per tutti. Il rappresentante fu invitato a uscire nel generale disprezzo. Nessuno lo toccò, perché il suo gesto malvagio conteneva già in sé la più tremenda delle punizioni. Infatti fu trovato appena un’ora dopo, nella toilette di un autogrill di Modena, in preda ad atroci dolori. La Luisona si era vendicata.
La particolarità di queste paste è infatti la non facile digeribilità. Quando la pasta viene ingerita, per prima cosa la granella buca l’esofago. Poi, quando la pasta arriva al fegato, questo la analizza e rinuncia, spostandosi di un colpo a sinistra e lasciandola passare. La pasta, ancora intera, percorre l’intestino e cade a terra intatta dopo pochi secondi. Se il barista non ha visto niente, potete anche rimetterla nella bacheca e andarvene.
(da Bar Sport, Garzanti, Milano)