giovedì, marzo 10, 2011

ILLINOIS: UN PASSO AVANTI!


Il vecchio Pat alfine si è deciso: ha firmato. L’Illinois è il 16° Stato USA ad aver abolito la pena di morte. Era ora! L’11 gennaio scorso, il Senato aveva votato a maggioranza un disegno di legge per porre fine a questa lurdia. E come vuole la prassi, l’aveva inviata al governatore dello Stato, il buon Pat Quinn. Il quale aveva tre opzioni:
a) firmare di sì, cioè approvare l’operato del Senato;
b) firmare di no, ovvero porre il veto e mantenere lo status quo;
c) fottersene. In questo caso sarebbe passata la proposta del Senato e la pena di morte sarebbe stata abolita ugualmente.
C’è stata una mobilitazione internazionale ordita da Amnesty International e da altri fior di perdigiorno affinché il governatore si decidesse positivamente e apponesse la sua firmettina ciandalosa. Alla fine ha deciso.
Thank you very much indeed, old Pat.

venerdì, marzo 04, 2011

L’ALLUVIONE DI PORTO EMPEDOCLE


Per tanti anni mio padre lavorò a Porto Empedocle. Credo per tutti gli anni ’70 del Novecento. Era il direttore della locale sezione dell’INAM, antesignana di tutte le USL, ASL, ASP e compagnia bella. Quindi ogni mattina andava regolarmente a lavorare nella cittadina sul mare, a due passi da Agrigento. Ma nonostante fosse così vicina, per me era come se facesse quotidianamente un viaggio lunghissimo. Ogni mattina, con la sua Fiat 124 Special color avorio antico, se ne andava bel bello a Porto Empedocle, ‘a Marina. Poi alle due tornava. Abitavamo di fronte alla stazione e quando partiva il diretto per Palermo, al fischio secco della littorina, mia madre esclamava “Partì Palermu!”. E buttava la pasta. Dopo qualche minuto si sentiva la macchina di mio padre che arrivava, dava l’ultima sgasata al motore (abitudine che non ho mai capito) e saliva a casa. Portava quasi sempre la posta. E il giovedì Topolino.
La stessa cosa avvenne il 27 settembre del 1971. Uscì di casa al solito orario ma contrariamente agli altri giorni, quella volta lì portò con sé anche Fabio, mio fratello piccolo. Cinquenne. Quasi seienne. Non eravamo andati a scuola quel giorno. E non poteva essere altrimenti, ché allora la scuola cominciava il 1° ottobre. Mio fratello, così mi racconta, aveva il desiderio di andare a vedere gli animali a casa di un collega di mio padre. Cani e gatti soprattutto, di cui mio fratello era, ed è, appassionato ma che purtroppo a casa nostra non ebbero mai cittadinanza. Quel giorno papà aveva deciso di esaudire la sua voglia, pertanto, lavatolo e vestitolo, se lo portò in ufficio con sé. Per l’invidia nostra, mia e di mio fratello grande, giacché andare all’ufficio di mio padre, benché esperienza rara, era per noi motivo di grande divertimento: avrei potuto passare delle ore a scrivere niente a macchina.
È passato davvero tanto tempo, per cui anche i ricordi si sono molto appannati ma so per certo che a un dato momento cominciò a piovere. A fine estate gli acquazzoni non sono rari e anche quello stava per essere derubricato come tale. Invece si aprì il cielo. Catate d’acqua a non finire, anche se nella media del periodo, avrebbe detto il colonnello Bernacca. Man mano che la mattinata scorreva, però, avemmo come la sensazione che qualcosa non stesse andando per il giusto verso, per cui il pensiero cominciò ad andare a nostro padre, che stava a Porto Empedocle, probabilmente in mezzo al diluvio. Con mio fratello piccolo. È davvero difficile ricordare le cose a distanza di tutto questo tempo ma se c’è una cosa che non ho scordato è la preoccupazione di mia madre. Si aggirava per casa rimuginando cose e certamente sperando che tutto si risolvesse al meglio. Forse anche rammaricandosi per il fatto che anche mio fratello era andato quel giorno, proprio quel giorno, a Porto Empedocle con mio padre.
Più il tempo passava e più le cose peggioravano. Non ad Agrigento, però, dove c’era soltanto una bella piovuta. Forse ogni tanto si riusciva a ricevere o a fare qualche telefonata, per cui arrivava qualche notizia, non buona, tuttavia. Anche le parole assumevano valori via via più seri: acquazzone → temporale → alluvione. Infine ci si attestò su questo termine – alluvione – quello che meglio fotografava l’enormità di un agente atmosferico al quale non siamo abituati, che ci spaventa quando lo sentiamo in tv e che porta alla mente piani terra allagati, case devastate, masserizie ammucchiate, famiglie espulse dalle loro case.
Mangiammo senza mio padre e mio fratello a tavola, in un’atmosfera quasi irreale. La tensione, soprattutto la preoccupazione, si tagliava a fette. Ci doveva essere sempre un motivo particolare perché mio padre non fosse a tavola con noi. Quella volta mancava anche Fabio, per cui teste basse e forte senso di incertezza. Mia madre, se sapeva qualcosa non la diceva per non farci preoccupare o forse semplicemente anche lei non sapeva nulla.
Finché non si seppe, credo a pomeriggio inoltrato, che i nostri erano al sicuro, sani e salvi a casa del signor Fiorentino, un impiegato dell’ufficio di mio padre, una brava persona che dopo qualche anno sarebbe emigrato negli States. Passarono la notte lì e benché sapessimo che erano al riparo, fu per noi un’esperienza ben strana.
Il giorno dopo, non so come, visto che c’era tutto quanto bloccato dal fango, mio padre e mio fratello riuscirono a tornare a casa. Furono accolti da trionfatori, stavamo affacciati al balcone in attesa che arrivassero.
A Porto Empedocle vi furono molti, ingenti danni. Due persone persero la vita ma molte rimasero senza casa. Nei giorni seguenti si sentì ancora molto parlare di quella calamità; ricordo alcune immagini, automobili incastrate tra i balconi delle case, fango dappertutto, gli alluvionati ospitati in una scuola. Ma per me quello è il ricordo di mio padre e mio fratello che non tornarono a casa, se non il giorno dopo, intrappolati dall’alluvione di Porto Empedocle. A casa del signor Fiorentino.

martedì, marzo 01, 2011

PERSONE


La parola mi arriva forte in faccia, come un pugno improvviso e – come tutti i pugni in faccia – inatteso.

Mattina presto, anzi Uno mattina, Rai1. Pochi giorni fa, un giorno qualunque nella settimana di un italiano qualunque: io. Mi sveglio presto, di solito, e presto faccio colazione. Cucuzza – Michele intendo – è già lì con la sua partner bionda a tenere compagnia ai mattinieri italiani che si apprestano a far colazione per andare al lavoro, lavoro statale, in una giornata di ordinaria fannulloneria. È una trasmissione, quella, che varia da argomenti gravi e seri – il delitto di Avetrana – ad altri più frivoli – la sagra dello gnocco fritto – ad altri decisamente stupidi – la situazione politica italiana. E così, tra un argomento e un altro, che faccio fatica a ricordare, il buon Michele passa la parola al militare addetto a riferire sul meteo, già previsioni del tempo. Non sono molto attento a quel che dicono, sono più intento a smanettare con caffettiere, tovagliette e tazzine; sento più il tramestio delle suppellettili della mia prima colazione. Il colonnello prende la parola, sono sempre molto distinti, e, nel mio generico disinteresse, sciorina il suo sapere su venti, alta pressione, temperature, mari. E proprio parlando dei mari, in quel giorno molto agitati, il militare vien fuori con un’espressione che sovrasta l’acciottolio (cito Guccini) e mi turba parecchio. Dice di augurarsi che in quel momento, nel Canale di Sicilia piuttosto ondoso, non ci siano di quei barconi che portano persone verso le nostre coste. Non ci posso credere, ha detto persone. Ha abbandonato tutta la terminologia che normalmente si usa in questi casi e li ha chiamati persone. Non extracomunitari, né immigrati o migranti, né disperati. Soprattutto non li ha chiamati clandestini, il vocabolo che va per la maggiore. Li ha chiamati persone.