mercoledì, gennaio 27, 2010

L’ENI E IL RISPETTO


Bello l’ultimo spot dell’Eni, vero? Mentre una voce in sottofondo canta mirabilia dell’azienda italiana leader nel ramo petrolio, una strepitosa artista, Ilana Yahav, disegna con la sabbia. Già diversi video su questa bravissima performer girano su Internet ma questa credo sia l’occasione per farla conoscere un po’ da tutti. Ma è la voce sullo sfondo, e ciò che dice, che più colpisce. Parla di internazionalità, di ricerca e di rispetto. Esatto, rispetto. Dice che è una parola molto importante. L’Eni parla di rispetto.
“Ad Akala Olu non cala mai il buio. Le torce di gas che si sprigionano dagli impianti dell’Agip illuminano la zona sempre a giorno” (foto). Questa è una delle didascalie che corredano gli scatti del fotografo olandese Kadir van Lohuizen, raccolte da Amnesty nella mostra “Nigeria: una terra che perde, una terra che brucia”, e che testimoniano efficacemente lo sforzo che l’Eni (l’Agip le appartiene) fa quotidianamente sulla strada del rispetto. Nel Delta del Niger – fino a qualche anno fa uno degli ecosistemi più belli al mondo – hanno fatto (è il caso di dirlo) terra bruciata. Ma anche acqua inquinata e aria avvelenata.
Infatti, l’agricoltura, sulla quale si basa l’economia del luogo è rimasta pesantemente danneggiata. Le fuoriuscite di petrolio hanno avuto un notevole impatto sulle colture ma soprattutto hanno pregiudicato la fertilità futura di quei terreni, al punto che ci vorranno tanti e tanti anni per recuperarne la produttività. Stessa musica per la pesca, altra fonte di reddito e di sostentamento per le popolazioni locali. Anch’essa esce fortemente colpita dall’impatto che l’estrazione dell’oro nero ha in quella zona. L’inquinamento da petrolio uccide i pesci, i crostacei e i molluschi e ne compromette la riproduzione, causando danni immediati e a lungo termine alle riserve. L’atmosfera, infine, è contaminata: “torce” di petrolio vengono lasciate a bruciare liberamente all’aria aperta. Le torce sono esalazioni di gas in eccesso, che vengono lasciate bruciare, senza che nessuno le spenga, causando l’irrespirabilità dell’aria, oltre ad un eccesso di calore. Tutto ciò danneggia seriamente la qualità della vita e compromette la salute degli abitanti del Delta del Niger.
Insomma, in un luogo in cui, secondo le Nazioni Unite, più del 60 per cento della popolazione dipende dall’ambiente naturale per la propria sussistenza, l’inquinamento da petrolio ha causato gravi danni ambientali e compromesso le risorse naturali.
Cosa avranno voluto dire quelli dell’Eni quando parlavano di rispetto?

(Le informazioni sul Delta del Niger sono tratte dal sito di Amnesty International)

lunedì, gennaio 11, 2010

VACCI PIANO CON LE PAROLE


Le immagini arrivate da Rosarno in questi giorni ci hanno rassegnato una realtà drammatica rispetto al problema dell’immigrazione. Innanzitutto partendo proprio da questo termine: problema. Quello che problema non dovrebbe essere, in alcuni casi e in alcuni posti lo diventa. La libera circolazione di esseri umani sulla Terra, gli spostamenti migratori da un posto all’altro, la possibilità di cercare e di godere altrove riparo e asilo dalle persecuzioni – benché siano fatti dolorosi per chi li vive – non dovrebbero essere un problema. La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani li riconosce come diritti inalienabili. Tuttavia spesso diventano un problema, e i fatti di questi giorni lo testimoniano. Inevitabilmente ci si chiede di chi siano le colpe e le responsabilità. E naturalmente si fa a gara per chiamarsene fuori.
Mi chiedo se a volte non sia anche colpa nostra, che diamo per scontate alcune cose quando invece dovremmo farci un po’ più di attenzione. Al nostro lessico, per esempio, tanto per cominciare. Non ci facciamo caso, lo so, ma spesso usiamo un vocabolario che andrebbe in qualche modo “aggiustato”. Vediamo.
La parola “clandestino” non la uso ormai da anni – credo di non averla mai usata –, posto che di una persona che scappa dal suo paese non mi interessa sapere se è in regola o no. È un termine che denota negativamente qualcuno, così, senza neanche conoscerlo e ne mette in risalto il carattere illecito del suo stesso essere. Del resto non sento mai chiamare qualcuno “evasore”, anche se di quello si sa che se ne impippa del Fisco; nessuno chiamerebbe “pregiudicato” qualcuno che ha avuto grane con la Legge. Né, mai e poi mai, sento chiamare “condannati” o “inquisiti” o semplicemente “imputati” gran parte dei personaggi che affollano il nostro Parlamento e il nostro Consiglio dei Ministri. Anzi, quelli li chiamiamo “onorevoli”. Mi rendo conto che spesso non lo si fa per male, quanto piuttosto perché si pensa che il termine “clandestino” sia un mero sinonimo di “immigrato”, meglio se dalla pelle scura. È un errore in cui incappano tante persone, nella maggior parte dei casi in assoluta buona fede. Quante volte si chiamano clandestini persone con regolare permesso di soggiorno? Tempo fa, dovendo commemorare un immigrato morto in un cantiere, sulla lapide venne scritto: “lavoratore clandestino”. Vogliamo farci un po’ di attenzione?
Abolirei anche “extracomunitario”, giacché ne metterebbe in luce soprattutto la sua non appartenenza a quel club esclusivo e fighetto che è la Comunità Europea. Peraltro non credo che i migranti brucino dalla voglia di diventare “intracomunitari”, credo cerchino solo un po’ di dignità negata. Anche in questo caso sarebbe necessario un pizzico in più di attenzione. Del resto, chi chiamerebbe “extracomunitario” un banchiere svizzero, custode di lucrosi proventi da commercio di armi? O il grande calciatore brasiliano, stella miliardaria della nostra squadra del cuore? E se in Italia venisse George W. Bush, l'eroe di Baghdad, chi di noi lo chiamerebbe “extracomunitario”? Eppure tutti e tre questi personaggi sono tecnicamente degli “extracomunitari”.
Farei attenzione (e molta) a non chiamare “centri di accoglienza”, quei mostruosi CIE (già CPT), i Centri di Identificazione ed Espulsione. Ci basta che lo facciano le televisioni, no? Guardate un po’ in giro per il web e cercate di capire il tipo di accoglienza che si pratica in quei luoghi. Da Capo Rizzuto a Lecce, da Gradisca a Torino, da Caltanissetta a Lamezia Terme a Lampedusa, è tutto un fiorire di centri di detenzione per migranti, che creano situazioni di grande disagio per chi ci si trova chiuso dentro e introiti redditizi per chi li gestisce. Il CPT di Agrigento è stato chiuso anni fa in seguito a una visita della Commissione per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa. Mica i boy scout (con tutto il rispetto)! Forse lì dentro si praticava un’accoglienza un po’ “focosa”. Del resto, si sa, l’accoglienza del Sud…
Menzione a parte, infine, per il termine “disperati”. Chi di noi non ha definito in questo modo le persone che arrivano nel nostro paese? “È arrivato un barcone di disperati”, “file di disperati davanti la Questura”, “arrivano a migliaia, i disperati”. Leggo sul dizionario Devoto-Oli che “disperato” vuol dire “abbandonato da ogni speranza”. Quindi, quando termina la speranza, c’è la disperazione, no? Assenza di speranza, direi. Io credo che una persona che non ha più speranza è una persona che si abbandona a sé stessa, non reagisce, non chiede più nulla alla vita. Il migrante è una persona che contro ogni speranza, spinta dal bisogno più estremo, dalla povertà, dalla necessità di darsi un futuro e darne uno ai suoi figli e alla sua famiglia, si avventura a fare un lungo viaggio intercontinentale. Dapprima nel deserto, a bordo di un camion stipato all’inverosimile – tutta la sua famiglia aveva raccolto, faticosamente e a via di sacrifici, del denaro per consentirgli di intraprendere il viaggio. Arrivato in Libia, vive per uno o due anni in un campo di raccolta, maltrattato dalla polizia – ogni tanto anche stuprata, se donna –, cercando di sopravvivere a forza di stenti. Alla fine riesce a saltare su un barcone, destinazione Italia, per fare una traversata di qualche giorno, che finalmente lo porterà verso una terra e una vita migliori di quelli che ha lasciato a casa. No, dico, secondo voi questa è una persona disperata? O piuttosto ha speranza da vendere, per riuscire a fare tutto questo? Questa persona può fasciarmi di speranza, cellophanarmi con tre giri, tipo domopak, altrochè. Quindi penso che anche il termine “disperato” vada mandato in soffitta.
Certo, quando poi i migranti arrivano qui da noi si imbattono in situazioni che neanche la più grande accortezza lessicale riesce a evitare, è vero. Però, se almeno cominciassimo a dare un senso alle parole, forse riusciremmo anche a vederli sotto un’altra ottica. Quella del rispetto.

venerdì, gennaio 01, 2010

IL CAPRETTO NERO


I bambini africani riscuotono sempre un grande successo. Sono belli, non c’è che dire, ecco perché tutti quanti se ne innamorano. Quegli occhi grandi ed espressivi, quei sorrisi accattivanti, quelle testoline ricciute: è impossibile non amarli. Quante volte ci chiedono cosa si prova a essere attorniati da un nugolo di bambini neri, vocianti e ridenti, che ti chiamano, ti tirano, ti prendono la mano. E quante volte ci chiedono, addirittura, come si fa ad averne uno. In tanti si dichiarano disposti ad adottarne uno. Alcuni pensano che basti andare lì, in Africa, per tornare con un bel bambino nero sotto braccio, tipo al discount.
E tutte le volte che sento questi discorsi, tutte le volte che vedo questi slanci di amore incondizionato verso i bambini neri, io penso a Miss Ethel Holloway.
Certo, è probabile che non si conosca la signorina in questione. Del resto non la conoscevo neanche io prima di leggere Il capretto nero, una divertente novella di Luigi Pirandello, mio illustre concittadino – il più famoso dopo il ministro Alfano. Miss Ethel, quindi, è la “giovanissima e vivacissima figlia di Sir W. H. Holloway, ricchissimo e autorevolissimo Pari d’Inghilterra”, venuta in vacanza a Girgenti, dove poté ammirare le bellezze della nostra città – che tuttavia Pirandello descrive come molto misera, già un secolo prima della classifica del Sole 24 ore. L’inglesina, quindi, si innamorò perdutamente di un capretto nero, una vivace bestiola che allegramente trotterellava, anzi springava “come se per aria attorno gli danzassero tanti moscerini di luce”, in mezzo al gregge che il caprajo, “bestiale e sonnolento come un arabo”, portava a rugumare tra le rovine di un tempio dorico, cosa che Mr Charles Trockley, vice-console d’Inghilterra a Girgenti, giudicava come profanazione. Ebbene, tanto fu l’amore subitaneo che la ragazza provò per la bestiola, che decise di comprarla e farsela inviare in Inghilterra. La spedizione dell’animale, per varie vicende – che Pirandello narra –, richiese quasi un anno, per cui, a quel punto, il graziosissimo capretto nero era diventato un caprone, un becco, “un orribile bestione cornuto, fetido, dal vello stinto rossigno”, che causò lo sconcerto della giovinetta e le rimostranze decise del di lei padre. Eppure era lo stesso animale.
E allora, dice, che c’entrava la storia dei bambini neri con quella del capretto? È simile. Tutti a squagliarsi davanti ai bambini neri: “ma quanto sono carini, che dolcezza, che tenerezza, che simpatia. Guarda che bella quella bambinetta nera. M’a mangiassi a muzzicuna. Come si fa ad averne una? Ne vorrei uno a casa mia. Me lo prenderei uno, che ti credi? Ho questo desiderio.”
Fatto sta che il desiderio di molti di avere tanti bei bambini neri alla fine viene esaudito. I bambini neri vengono davvero qui da noi, dopo una quindicina, una ventina di anni. Ma nessuno li riconosce più. Non riconoscono più il sorrisino furbo del bambino del Senegal nel ragazzone che chiede di comprare un accendino; né lo sguardo vispo di un bimbo nigeriano nelle lacrime del migrante che supplica il finanziere in guanti di lattice. Nessuno vede nella prostituta nigeriana la bella bambina sorridente che aveva visto in foto tanti anni prima e che voleva portarsi a casa.
Eppure sono le stesse persone.