lunedì, gennaio 11, 2010

VACCI PIANO CON LE PAROLE


Le immagini arrivate da Rosarno in questi giorni ci hanno rassegnato una realtà drammatica rispetto al problema dell’immigrazione. Innanzitutto partendo proprio da questo termine: problema. Quello che problema non dovrebbe essere, in alcuni casi e in alcuni posti lo diventa. La libera circolazione di esseri umani sulla Terra, gli spostamenti migratori da un posto all’altro, la possibilità di cercare e di godere altrove riparo e asilo dalle persecuzioni – benché siano fatti dolorosi per chi li vive – non dovrebbero essere un problema. La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani li riconosce come diritti inalienabili. Tuttavia spesso diventano un problema, e i fatti di questi giorni lo testimoniano. Inevitabilmente ci si chiede di chi siano le colpe e le responsabilità. E naturalmente si fa a gara per chiamarsene fuori.
Mi chiedo se a volte non sia anche colpa nostra, che diamo per scontate alcune cose quando invece dovremmo farci un po’ più di attenzione. Al nostro lessico, per esempio, tanto per cominciare. Non ci facciamo caso, lo so, ma spesso usiamo un vocabolario che andrebbe in qualche modo “aggiustato”. Vediamo.
La parola “clandestino” non la uso ormai da anni – credo di non averla mai usata –, posto che di una persona che scappa dal suo paese non mi interessa sapere se è in regola o no. È un termine che denota negativamente qualcuno, così, senza neanche conoscerlo e ne mette in risalto il carattere illecito del suo stesso essere. Del resto non sento mai chiamare qualcuno “evasore”, anche se di quello si sa che se ne impippa del Fisco; nessuno chiamerebbe “pregiudicato” qualcuno che ha avuto grane con la Legge. Né, mai e poi mai, sento chiamare “condannati” o “inquisiti” o semplicemente “imputati” gran parte dei personaggi che affollano il nostro Parlamento e il nostro Consiglio dei Ministri. Anzi, quelli li chiamiamo “onorevoli”. Mi rendo conto che spesso non lo si fa per male, quanto piuttosto perché si pensa che il termine “clandestino” sia un mero sinonimo di “immigrato”, meglio se dalla pelle scura. È un errore in cui incappano tante persone, nella maggior parte dei casi in assoluta buona fede. Quante volte si chiamano clandestini persone con regolare permesso di soggiorno? Tempo fa, dovendo commemorare un immigrato morto in un cantiere, sulla lapide venne scritto: “lavoratore clandestino”. Vogliamo farci un po’ di attenzione?
Abolirei anche “extracomunitario”, giacché ne metterebbe in luce soprattutto la sua non appartenenza a quel club esclusivo e fighetto che è la Comunità Europea. Peraltro non credo che i migranti brucino dalla voglia di diventare “intracomunitari”, credo cerchino solo un po’ di dignità negata. Anche in questo caso sarebbe necessario un pizzico in più di attenzione. Del resto, chi chiamerebbe “extracomunitario” un banchiere svizzero, custode di lucrosi proventi da commercio di armi? O il grande calciatore brasiliano, stella miliardaria della nostra squadra del cuore? E se in Italia venisse George W. Bush, l'eroe di Baghdad, chi di noi lo chiamerebbe “extracomunitario”? Eppure tutti e tre questi personaggi sono tecnicamente degli “extracomunitari”.
Farei attenzione (e molta) a non chiamare “centri di accoglienza”, quei mostruosi CIE (già CPT), i Centri di Identificazione ed Espulsione. Ci basta che lo facciano le televisioni, no? Guardate un po’ in giro per il web e cercate di capire il tipo di accoglienza che si pratica in quei luoghi. Da Capo Rizzuto a Lecce, da Gradisca a Torino, da Caltanissetta a Lamezia Terme a Lampedusa, è tutto un fiorire di centri di detenzione per migranti, che creano situazioni di grande disagio per chi ci si trova chiuso dentro e introiti redditizi per chi li gestisce. Il CPT di Agrigento è stato chiuso anni fa in seguito a una visita della Commissione per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa. Mica i boy scout (con tutto il rispetto)! Forse lì dentro si praticava un’accoglienza un po’ “focosa”. Del resto, si sa, l’accoglienza del Sud…
Menzione a parte, infine, per il termine “disperati”. Chi di noi non ha definito in questo modo le persone che arrivano nel nostro paese? “È arrivato un barcone di disperati”, “file di disperati davanti la Questura”, “arrivano a migliaia, i disperati”. Leggo sul dizionario Devoto-Oli che “disperato” vuol dire “abbandonato da ogni speranza”. Quindi, quando termina la speranza, c’è la disperazione, no? Assenza di speranza, direi. Io credo che una persona che non ha più speranza è una persona che si abbandona a sé stessa, non reagisce, non chiede più nulla alla vita. Il migrante è una persona che contro ogni speranza, spinta dal bisogno più estremo, dalla povertà, dalla necessità di darsi un futuro e darne uno ai suoi figli e alla sua famiglia, si avventura a fare un lungo viaggio intercontinentale. Dapprima nel deserto, a bordo di un camion stipato all’inverosimile – tutta la sua famiglia aveva raccolto, faticosamente e a via di sacrifici, del denaro per consentirgli di intraprendere il viaggio. Arrivato in Libia, vive per uno o due anni in un campo di raccolta, maltrattato dalla polizia – ogni tanto anche stuprata, se donna –, cercando di sopravvivere a forza di stenti. Alla fine riesce a saltare su un barcone, destinazione Italia, per fare una traversata di qualche giorno, che finalmente lo porterà verso una terra e una vita migliori di quelli che ha lasciato a casa. No, dico, secondo voi questa è una persona disperata? O piuttosto ha speranza da vendere, per riuscire a fare tutto questo? Questa persona può fasciarmi di speranza, cellophanarmi con tre giri, tipo domopak, altrochè. Quindi penso che anche il termine “disperato” vada mandato in soffitta.
Certo, quando poi i migranti arrivano qui da noi si imbattono in situazioni che neanche la più grande accortezza lessicale riesce a evitare, è vero. Però, se almeno cominciassimo a dare un senso alle parole, forse riusciremmo anche a vederli sotto un’altra ottica. Quella del rispetto.

1 commento:

carletta ha detto...

Potremmo definire "pigre" tutte quelle persone che sintetizzano la condizione umana altrui con termini inappropriati, quali quelli da te individuati. La loro pigrizia è ovviamente mentale e sta nel non volersi minimamente sforzare di guardare al di là di quello che superficialmente emerge dalle immagini tv o dai titoli dei giornali.
E, ahimè, di pigri oggigiorno ce ne sono davvero tanti.