martedì, aprile 16, 2013

SILVIO, LO STATISTA


Tempo fa un amico mi disse che comunque io la pensi, Berlusconi (foto) è stato uno statista. Ovviamente sapeva che la penso diversamente.

Bene, potrei dare per buona questa affermazione che, peraltro, mi pare bislacca ma ho voglia di capire quantomeno cosa si intende per “statista”. Normalmente quando sento il termine, mi viene in mente un personaggio di grande spessore: politico – va da sé –, umano, culturale, morale. Mi pare comunque uno di quei termini un po’ vaghi, nebulosi, di quelli che ognuno – come il mio amico – può intendere come gli pare e in cui ci si può infilare quello che si vuole.

Giolitti è stato, indiscusso, uno statista, come anche Sturzo e De Gasperi; qualcuno vede in Mussolini uno statista, lo riporto sottovoce e con qualche conato; Gramsci credo lo sia stato benché non abbia mai guidato un governo. La mia generazione ha conosciuto forse gli ultimi statisti italiani. Il vecchio Andreotti, vuoi o non vuoi (e io non vorrei), è stato uno statista; Aldo Moro, qualcuno dice anche Craxi, magari quello prima di Hammamet. Insomma, credo di dimenticarne un pacco. Comunque vada, lo statista è colui che lascia un’impronta nella politica e ci si augura che sia un’impronta buona e magari seguibile per le generazioni future.

In definitiva, uno statista sarebbe una persona di cui si parlerà in futuro e di cui ci si ricorderà per ciò che di buono fece in vita. Se ne leggeranno i libri, editi da Laterza e rintracciabili in libreria nell’apposito stand; se ne ricorderanno i discorsi, che diventeranno titoli per i temi della maturità; se ne citeranno le frasi, su Facebook intendo dire.

Bene, mi chiedo perciò quale libro di Berlusconi troverò sullo stand della Laterza, sempre che io voglia fare un regalo, magari al mio amico che lo considera uno statista. Dubito ne abbia mai scritti. Dubito ne abbia mai letti!

E su quale discorso gli esaminandi faranno esegesi, al fine di strappare un bell’8 alla commissione d’esame? Mi viene in mente quello di insediamento dell’Italia al semestre di presidenza UE, il 2 luglio 2003, quello dei “turisti della democrazia”, quello in cui definì kapò il povero Martin Schulz, reo di averlo criticato.

E le frasi? Con quali frasi dello statista Silvio Berlusconi, abbelliremo le nostre bacheche Facebook, così come oggi facciamo con le massime del Mahatma o di Martin Luther King? Be’, qualcuna in mente mi viene ma ne citerò una soltanto che credo sia il compendio della vita, politica – va da sé –, umana, culturale, morale di questo grande statista di cui noi siamo contemporanei e di cui parleremo ai nostri discendenti: “La patonza deve girare”.

 

domenica, novembre 25, 2012

LA SPORTA


Non so bene se questa cosa accade ancora ma quando io ero piccolo esisteva una regola ferrea: se avevi in mano il sacchetto della putia di – mettiamo – don Totò, era assolutamente impensabile entrare nella putia di don Ciccio per comprare qualcosa che magari da don Totò non avevi trovato. Non si discuteva. Piuttosto si tornava a casa e si usciva di nuovo, o ci si faceva tenere la sporta da qualcuno neutrale, e distante, ma era assolutamente moralmente vietato.

Questo perché nell’Agrigento di molti anni fa, quando ancora non esisteva la grande distribuzione, la putia era un luogo familiare. Ricordo quando aprì il primo supermercato, sembrava una cosa spaziale, dagli spazi immensi eppure (c’è ancora) non era che una putia un po’ più grandina. Nulla a che vedere con gli ipermercati di adesso ma già da allora ciò significò un cambiamento nelle consuetudini quotidiane della gente. Il supermercato costrinse tutti a cambiare il modo di fare la spesa. La massaia – o il massaio o chi per loro – entrava al supermercato, prendeva il carrello, si avviava agli scaffali (non molto alti perché tutto fosse a portata di mano), prendeva da sé ciò che le serviva, poi andava alla cassa e pagava la roba che aveva comprato. Il tutto, possibilmente, senza scambiare neanche una parola con chicchessia.

Con la putia, invece, era diverso. Si entrava nel locale, si salutavano i putiari, generalmente marito e moglie, coi quali spesso ci si dava del tu e si chiedevano le cose che si volevano comprare. Dopodiché iniziava la spesa vera e propria. Quando qualcosa era a portata di mano nelle scansie, si provvedeva da soli, sennò, se la cosa richiesta era su un ripiano in alto (c’erano scaffalature altissime, fino al soffitto) si chiamava la putiara o il picciotto, i quali arrivavano e ti prendevano la roba col bastone pigliatutto, un attrezzo meraviglioso dotato di maniglia nella parte inferiore e di pinza per afferrare le cose nella superiore. Quindi il putiaro ti affettava la mortadella (barando un po’ sul peso), ti prendeva le olive dall’enorme burnìa o le sarde salate dal grande lanna grondante salamoia. Nel frattempo si chiacchierava del più e del meno con gli altri avventori (normalmente di malattie, per le quali i giurgintani hanno una vera passione) o con la putiara che nel frattempo munnava piselli o scricchiava fave. E così, oltre a fare la spesa, si intrattenevano rapporti sociali.

Fare la spesa pertanto rientrava nella sfera delle operazioni familiari quotidiane, come passare a salutare un parente, quindi era d’obbligo il rispetto di quelle regole minime che si adottano tra parenti. Detto ciò, era impensabile che si potesse “tradire” la propria putia, andando in un’altra. Certo, poteva capitare di non trovare ciò che servisse. Allora si andava sì da un’altra parte ma facendo molta attenzione che la tua putiara non se ne accorgesse.

Mi rendo conto che stiamo parlando di atteggiamenti ormai consegnati alla storia, a un modo di vivere e di intendere i rapporti ormai archiviato tuttavia, ancora oggi, dovessi avere in mano un sacchetto di Auchan, avrei serie difficoltà ad entrare da Carrefour.
 

mercoledì, novembre 14, 2012

PBR: 2. L'ENCICLOPEDIA


Seconda puntata della Piccola Bottega del Rigattiere.
***

I ragazzini che vanno in visita a casa dei propri nonni, non possono fare a meno di notare, sulle librerie dei soggiorni, dei gran libroni numerati, tutti uguali e dallo stesso titolo. Sono le enciclopedie, gli strumenti con cui i loro papà e le loro mamme esploravano il mondo molto prima che arrivasse Google e un semplice tasto di invio ci portasse a spasso per il mondo conosciuto.

Avevano dei nomi che già da soli invogliavano a viaggiare per l’ecumene: Universo, I mondi dell’uomo, Conoscere. A casa mia avevamo – e c’è ancora – una bestia in tredici volumi, l’enciclopedia Universo (foto), e un dizionario enciclopedico, Tutto, e ci passavamo dei pomeriggi a sfogliarli. Li stendevo sul tavolo di cucina, mi mettevo coi gomiti puntati e la faccia tra le mani e leggevo di paesi stranieri, uomini del passato, fatti della Storia, scoperte e invenzioni. Il mondo allora stava dentro le grandi pagine lisce dell’enciclopedia.

Non che fossi un fior di studente – e prima ancora di scolaro – ma una cosa che mi piaceva fare a scuola erano le ricerche. Proprio perché mi davano la possibilità di stare davanti all’enciclopedia. Sicché, quando il maestro, e poi i professori, ci dicevano che avremmo fatto la ricerca, be’ devo dire che ne ero molto felice. La cosa non era poi difficilissima perché in fondo si trattava semplicemente di trovare la voce e ricopiare ciò che l’enciclopedia riportava. A volte, se la voce era troppo vasta, facevo dei riassunti; altre volte, ma solo se preso dal sacro fuoco della cultura, facevo delle ricerche comparative, ossia prendendo pezzi dalle due enciclopedie e facendone un solo lavoro.

In realtà a casa avevamo anche delle altre enciclopedie, tematiche, una sul mondo della Natura, un’altra sulle scoperte della Scienza, un’altra ancora, splendida questa, sui principali musei del mondo. Per cui, se la ricerca verteva su qualcosa che potevo trovare su queste enciclopedie alternative, il giorno dopo il figurone era assicurato, diversamente avrei fatto la mia onesta ricerchina.

Naturalmente, prima dell’avvento della più grande scoperta del Novecento – e non mi riferisco al computer ma al copia-e-incolla – le ricerche venivano portate sulla pagina scritta in un solo modo: a mano. Praticamente il copia-e-basta. Ripenso ancora ai piacevoli pomeriggi passati a fare le ricerche. Un po’ meno piacevole era il momento della trascrizione ma solo perché a un certo punto la mano non ce la faceva più a maneggiare la penna e reclamava il meritato riposo, che non arrivava se non a ricopiatura avvenuta. Spesso, nella frenesia di fare un buon lavoro, sbagliavo e allora, per non portare un lavoro fatto male, ricominciavo daccapo, per cui finivo tardi di ricopiare, che era già ora di andare a letto.

Ogni tanto do un’occhiata alla vecchia Universo, ancora pigramente adagiata su una libreria a casa dei miei. È commovente. Mancano un sacco di voci. Manca Leonardo Sciascia, papa Wojtyla, l’11 settembre, il Viagra e molte altre cose; uomini e donne della nostra epoca, fatti storici che noi abbiamo vissuto, invenzioni, scoperte e ritrovati vari.

P.S. Un amico fedele dei miei pomeriggi era anche l’Atlante geografico. Lì compii i miei primi viaggi intercontinentali e imparai decine di capitali del mondo, che tuttora ricordo.
 

lunedì, ottobre 22, 2012

NON FARE COMPLIMENTI!


Esorto sempre i miei giovani alunni, qualora si trovassero in un paese straniero, o semplicemente al Norditalia, ad accettare ciò che viene loro offerto, se ne hanno voglia, o a rifiutare in caso contrario, evitando tutta la liturgia che i giurgintani celebriamo ogniqualvolta ci viene offerta qualcosa. Memore di ciò che accadde a me molti anni fa, la prima volta che misi piede in Inghilterra.

Allora, nel luglio del 1984 mi trovo a Birmingham, uggiosa città del West Midlands, e arrivo a casa di Mrs Janet Dale, un albionico donnone, di cui tuttora ricordo il sorriso, la gentilezza ma soprattutto la splendida figlia. Entro e mi accomodo nella confortevole living room: carta da parati d’ordinanza, moquette giallognola, soprammobili orrendi e caccia alla volpe sui muri. Dopo i primi convenevoli, la mia ospite prende un vassoio di scones (foto), gli ottimi pasticcini inglesi dal vago sapore di biada, e me ne offre. “Oh, no, thanks”, dico io, seguendo il rigido cerimoniale giurgintano. E Mrs Dale se ne va.

Ci son rimasto malissimo. Pensavo mi dicesse almeno “Come on, have some”, corrispettivo inglese di “Amunì, piglia” o casomai prendesse due-tre scones e me li mettesse in mano. Alla giurgintana. Invece niente. Se n’è andata. Ovviamente dopo un po’ macchinai per ottenere gli agognati pasticcini e li ebbi ma capii, per sempre, che per una questione squisitamente culturale, non avrei più dovuto rifiutare la roba che mi veniva offerta.

Nella nostra città e nella nostra cultura, invece, offrire qualcosa segue delle regole differenti, che danno vita a un infinito walzer dell’offerta e del rifiuto.

Ti si offre qualcosa ma tu non puoi accettare subito perché verresti preso per unu ca unn’ha vistu ma’;
pertanto rifiuti;
allora si insiste perché tu accetti;
ma tu rifiuti di nuovo;
allora ti si chiede se per caso tu non stia facendo cerimonie;
tu rispondi di no, assolutamente no;
quindi l’altro ti ririchiede se vuoi accettare;
tu magari riridici di no;
per cui l’altro ti offre qualcos’altro…;
alla fine l’offerente dichiara: vidi ca m’offennu;
per cui accetti qualcosina.

Del resto, dalle nostre parti l’ospitalità si misura dalla quantità di cibo che ti si riesce a far ingurgitare. Essere invitati a pranzo può trasformarsi in un tour de force gastronomico i cui effetti potrebbero durare dei giorni.

Già l’antipasto basterebbe a sfamare una persona fino a sera. E nonostante ci sia chi ti riempie il piatto di salumi, olive, pomodori secchi, etc…, la stessa persona è quella che ti dice di non mangiare troppo perché ci sono tante altre cose.

Il primo piatto viene riempito a cupola, se no si viene tacciati di inappetenza o, peggio, di fare complimenti, cosa disdicevole da queste parti. Alla fine, quando pensi che i cavatelli ti stiano per uscire dalle orecchie, quando meno te l’aspetti, una mano soccorrevole ti rabbocca il piatto di altra pasta: il bis è d’ufficio. Finito anche il secondo piatto, poiché dai già segni di cedimento, la padrona di casa chiede: “Cos’è, non ti è piaciuta? Ti faccio un po’ di riso?”. Alla tua risposta negativa, incalza: “Allora prendi un altro po’ di pasta”.

E si passa al secondo. Dalla salsiccia non si prescinde. Nel senso che è sempre uno dei componenti il tris (almeno tris) di secondi che vengono presentati ai commensali. Gli altri due potrebbero essere l’involtino, lo spiedino, la cotoletta, la costoletta, le polpette o altro. Oppure il fantastico brusciuluni (foto). Il tutto accompagnato dalle patate, che non mancano mai, o da altro contorno. O anche dalla mitica caponata, regina della cucina siciliana. La caponata, come la parmigiana di melanzane, ha il suo pro e il suo contro: è straordinariamente buona ma esige la sua bella quantità di pane. Pertanto fai dei profondi respiri, ti concentri sul tuo piatto e cerchi a fatica di finire ciò che hai davanti, provando ad evitare coloro che cercano di rifilarti dell’altra roba.

“Non mangiate assai che c’è il dolce”, dice qualcuno a un certo momento. Difatti c’è il dolce. La frutta, nonostante venga messa a tavola non viene nemmeno sfiorata, proprio per non appesantirsi in attesa del dolce. A proposito, occorre ricordare che la frutta, a dispetto dell’etichetta che la vorrebbe a fine pasto, qui da noi è consumata (quando è consumata) prima del dolce.

Il dolce, appunto. Diciamo che la pasticceria siciliana non è esattamente una passeggiata. Non ci sono scones, mettiamola così. La ricotta la fa da padrona e francamente dopo questo pranzo non è esattamente ciò che ci vorrebbe. Epperò, come fai a non prendere un cannolo? O una fetta di cassata? O una sfingia? O tutt’e tre?

Segue un triste caffè. Triste perché a quel punto i commensali sono sfiniti, tutt’uno con le sedie dalle quali pensano di non aver più la forza di alzarsi. Qualcuno di nascosto si è allentato due buchi di cintura e si è sbottonato i pantaloni ma… nonostante la quantità di cibo trangugiata, quantunque ve ne stiate tornando a casa barcollando, la vostra ospite alla fine vi dirà: un mangiastivu nenti!

 

lunedì, ottobre 08, 2012

PICCOLA BOTTEGA DEL RIGATTIERE 1. L’Acqua Idriz


Questa è una piccola, davvero piccola, selezione di aggeggi di un’epoca passata, magari ancora vivi e funzionanti, ma certamente non più usati come una volta perché scalzati da altri di maggiore efficacia. È la vita, del resto.

Ma poiché hanno fatto parte del nostro quotidiano, io oggi li voglio ricordare perché ad essi sono legati momenti belli di una stagione passata della nostra vita.

***

Uno dei riti dell’estate, nella nostra Italia decocacolizzata degli anni ’70, era la produzione dell’acqua gassata. Avveniva ogni giorno, di ritorno dal mare, prima di pranzo. Non che non esistessero cocacole e robe varie, ma non avevano la diffusione esagerata che hanno adesso, erano più cose da festicciola in terrazza.

Allora, dicevo, tornati a casa dal mare, espletate le operazioni postspiaggia – togliersi il costume, sciacquarsi i piedi, farsi una rapida doccia (se possibile) – ci si sedeva tutti a tavola per la quotidiana razione di pasta al sugo di pomodoro e melanzane fritte, un must della cucina estiva siciliana. Bene, mentre l’acqua sobbolliva dentro la pentola, aveva luogo il sacro rito dell’acqua Idriz, o irriz come la chiamava mio padre. Si prendeva una bella bottiglia di acqua fredda dal frigorifero Kelvinator e ci si preparava alla cerimonia. La bottiglia era rigorosamente di vetro, verde o bianca, e non c’era famiglia agrigentina che non avesse bottiglie a profusione nello sportello sotto l’acquaio, visto che l’acqua in questa città d’estate veniva erogata a intervalli sahariani di sette, dieci o anche venti giorni, per cui ogni volta che arrivava, si riempivano le bottiglie da conservare per far fronte alla siccità dei giorni venturi.

Mio padre, come gran sacerdote dell’acqua Idriz preparava la liturgia assicurandosi un tappo a chiusura ermetica e la bustina con la polverina magica. Con un colpo secco di polso versava la prima acqua nel lavandino per liberare il collo della bottiglia, poi sventolava diligentemente la bustina per far sì che la polvere non fosse pietrificata. Mentre l’aria si caricava di trepidazione, staccava un lembo laterale della bustina e preparava la gettata.

Ed ecco il momento.
- Papà versa la polvere nella bottiglia e velocissimamente la tappa.
- Dentro la bottiglia avviene il cambiamento di stato.
- Milioni di bollicine sprigionano gas a iosa.
- Il gas cerca di farsi strada verso l’uscita.
- Ma la mano salda di mio padre ne blocca la fuga.
- Sono attimi.
- Papà capovolge la bottiglia affinché la polvere depositata in basso affiori.
- Altro gas si sprigiona e si espande.
- Vuole uscire ma no, non ce la fa.
- Dopo un minuto, non di più, l’acqua nella bottiglia si calma.

Adesso non è più la liscia, molle acqua che stava nel frigo perché è stata trasformata in un litro di gaia, vivida acqua Idriz. L’acqua dell’estate.

Che naturalmente, vista la quantità esigua e la dimensione della famiglia, si riduceva a un bicchiere a persona. Ma la bontà dell’acqua Idriz stava soprattutto nel rito della preparazione.

L’acqua Idriz, detta anche acqua frizzina, altro non era che l’Idrolitina o la Cristallina, credo tuttora in commercio e corrisponde alle miriadi di bevande gassate d’oggidì. E per finire:

Diceva l’oste al vino: Tu mi diventi vecchio,
ti voglio maritare all’acqua del mio secchio.
Rispose il vino all’oste: Fa’ le pubblicazioni,
sposo l’Idrolitina del Cavalier Gazzoni.


P.S. Esistevano anche le bustine di bibite tipo l’aranciata e la limonata ma erano veramente orrende. Anche allora.

P.S. 2 Un altro must dell’estate era l’Anice Unico dei F.lli Tutone.