domenica, marzo 08, 2009

AKRAGAS – NISSA



Ho scritto questo pezzo qualche anno fa, per ricordare di quando, bambino, andavo a vedere la mia squadra del cuore, l'Akragas.

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Due motivi mi stanno spingendo a scrivere questa cosa. Il primo è che l’altro giorno ho finito di leggere “Febbre a 90°” di Nick Hornby, un inglese, libro carino, autobiografico tra l’altro, che parla del rapporto di questo tipo qua, l’autore, con la sua squadra di calcio del cuore, l’Arsenal, e di come la sua stessa vita abbia ruotato attorno a questa storia. Ora, se vivi a Londra, però, e tifi per l’Arsenal puoi permetterti anche il lusso di scriverci un libro ma se vivi a Girgenti e tifi per l’Akragas, le cose si complicano un tantino. Un libro te lo scordi, tutt’al più puoi vedere se viene fuori qualcosina simpatica tipo questa che sto cercando di scrivere io. Bah!
Mio padre cominciò a portarci allo stadio (al campo si diceva allora e si dice tuttora a Girgenti) alla fine degli anni ’60. Mio fratello ed io eravamo sempre molto contenti di andare anche se, in effetti, di calcio ne capivamo pochissimo e quelle due ore le passavamo più a divertirci con altri bambini che a guardare la partita. A dire il vero anche adesso non ne capisco molto mentre mio fratello anche allora se ne intendeva di più. Ma il bello di andare al campo era tutto quello che ci stava attorno.
Le domeniche si dividevano in tre categorie: quelle in cui non c’erano partite, quelle con l’Akragas in casa e quelle con l’Akragas in trasferta. Naturalmente la nostra preferenza andava a quelle della seconda categoria perché la partita in casa rappresentava un momento di estrema gioia. Poteva anche capitare che per qualche motivo non si potesse andare ma erano casi rari. Papà, oggi ci andiamo al campo?Sì!, e la felicità si impadroniva di noi. Frasi come Oi ioca l’Agragassi o Mangiamo un po’ prima, ché dobbiamo andare al campo, erano per noi fonte di letizia grande. Pasta al forno, cotoletta e cannolo. Poi si usciva di casa e c’era il raduno; si suonavano i campanelli di una quattrina di condòmini compagni di partite, o loro suonavano da noi, e si scendeva. Si va in macchina o a piedi? – normalmente si andava a piedi (abitavamo in via Acrone, a sì e no trecento metri dal campo, porca miseria!) ma la domanda veniva fatta lo stesso, come ugualmente venivano date le risposte Amunì a pedi, lagnusi!. I nomi delle squadre avversarie li sentivamo con regolarità annuale ed erano quasi sempre gli stessi: l’Amat e il Cantieri Navali di Palermo, la Termitana di Termini Imerese, la Folgore di Castelvetrano, il Marsala, le calabresi Juve Siderno e Morrone Cosenza, la Massiminiana (del mitico presidente Massimino) di Catania, la Leonzio di Lentini, la Nissa di Caltanissetta e qualche altra. Il tragitto verso lo stadio era emozionante (ahò, stiamo parlando di bambini di otto-dieci anni); andare all’Esseneto per noi spiritualmente equivaleva ad andare all’Olimpico o a San Siro; si parlava di classifiche, di calciatori, delle trasferte e nel frattempo si arrivava giù al campo, dove trovavamo già una certa agitazione. Questo era veramente elettrizzante: gente che andava di qua o tornava di là, chi si chiamava da lontano, chi faceva pronostici (sempre a favore dell’Akragas). Ogni tanto si vedeva qualche compagno di scuola e si chiamava, rigorosamente per cognome. Indi si faceva la colletta per i biglietti: il volontario, tra i grandi naturalmente, raccoglieva i soldi e si intrufolava nella ressa ai botteghini; lo vedevamo sparire tra la folla per riemergere qualche minuto più tardi coi tagliandi in mano. Tribuna laterale. Noi, essendo bambini, non pagavamo, però spesso non entravamo tutt’e due assieme a papà; uno di noi entrava con uno dei compagni di partita per evitare che gli inservienti al cancello addetti a staccare i biglietti facessero discussioni. E lì c’era un nugolo di altri bambini che chiedevano agli entranti di spacciarli per loro figli e non pagare il biglietto. Lo ammetto, questa cosa mi intrigava alquanto e un po’ li invidiavo, quei bambini. Gli stessi alla fine dell’incontro, ad un’eventuale risultato positivo per l’Akragas, avrebbero cantato vittoria vittoria sulle note di “Fratelli d’Italia”. Salivamo le scale e vedevamo di fronte a noi la gradinata e il terreno di gioco coi calciatori che già sgambettavano da qualche minuto e nuvole di polvere che si alzavano (il campo, giova ricordarlo, era in terra battuta). Era uno spettacolo che amavo oltre ogni dire (non provai più la stessa sensazione fin quando, molti anni più tardi, non entrai nello stadio di Wembley e ne rimasi esterrefatto).
A quel punto si celebravano due riti.
1) Un’autobotte entrava in campo e lo irrorava per migliorarne le condizioni, e con degli spruzzatori situati nella parte anteriore disegnava una spirale oblunga che dall’esterno si restringeva fino a chiudersi a centrocampo e
2) un inserviente, il claudicante custode per la precisione, entrava in campo con una stranissima carriola che rilasciava dietro di sé una stria di gesso allo scopo di rifinire le linee del campo di gioco. Sia chiaro che entrambe le attività per noi erano degli esercizi di stile supremo.
Queste operazioni avevano come sottofondo sonoro l’altoparlante che diffondeva musica ma anche inserzioni pubblicitarie offerte dalla ditta Pubblilancio. Ricorderò (perché sono le uniche che ricordo) soltanto quelle delle candele Lodge e degli orologi Bulova (Bulova, l’orologio dell’era spaziale!Se pensate a un regalo, pensate a Bulova!Bulova Bulova Bulova!). E finalmente l’annuncio più atteso: Diamo lettura delle formazioni. Ovvio il tripudio di applausi che accompagnava i nomi dei calciatori dell’Akragas, altrettanto ovvia la bordata di fischi all’indirizzo degli ospiti. L’annuncio terminava con: Arbitro Signor …… da ……, e fischi e improperi (preventivi!) per la terna arbitrale.
Dopodiché si cominciava. Amavo più d’ogni altra cosa le manfrine iniziali, l’ingresso dei calciatori, il saluto al pubblico, la monetina, le strette di mano, lo scambio dei gagliardetti, il controllo delle reti da parte dei guardalinee, il fischio d’inizio, le urla dagli spalti. E in quei momenti avrei dato qualunque cosa pur di fare il raccattapalle. Un momento altamente liturgico era quando la squadra posava per le foto di rito, come sempre fatte (anzi tirate) dal Cav. Piro e dal Sig. Arena, compianti fotografi ufficiali del campo. Durante la settimana, poi, queste foto venivano affisse nelle bacheche all’aperto dei due studi fotografici, in via Atenea, e si andavano a vedere cercando di rintracciare i nostri volti tra le centinaia fotografati in tribuna. C’era anche il rito del sale. Un anziano signore lanciava in campo dei pacchi da un chilo di sale che dice che porta bene, poi qualcuno in campo rimuoveva il cellophane del pacco e restavano gli scaramantici montarozzi. Mio padre e gli altri sedevano più o meno al centro della tribuna, mentre noi ragazzini potevamo stare giù, a livello del terreno di gioco o nei fossati tra gli spalti e la rete di recinzione, a fare tutt’altro che guardare la partita.
Ma ricordo che ci divertivamo sempre soprattutto a guardare le persone, a sentire quello che dicevano, tant’è vero che ancora oggi ricordiamo alcune frasi sentite allora, tipo Colpa tua, Turcato! o Con quei capelli impiccicosi e lurdi! o ancora Pappalettera, s’accucummara! Ogni tanto infatti qualcuno sosteneva che si fosse iniziato a giocare con un pallone accucummaratu e si sentivano anche litanie di bestemmie molto fantasiose (cantante, brutto, americano…) oltre agli evergreen della blasfemia. Altri ancora portavano con sé lo strumento più popolare del pomeriggio sportivo: la radiolina. Alcune erano abbastanza nuove e funzionali, spesso regali delle prime comunioni dei figli. Altre erano apparecchietti assemblati grossolanamente dagli stessi proprietari che univano i fili della radio ad una pila di quelle grosse e li tenevano assieme con dello scotch da elettricista o con un elastico, preferibilmente di quelli a banda larga (in taluni casi si trattava di camere d’aria tagliate in sezione). Poco funzionali, difficili da sintonizzare, con le antennine praticamente inservibili, erano tuttavia utilissime perché le voci basse e gracchianti di Bruno Ameri, Sandro Ciotti, Alfredo Provenzali e gli altri, opportunamente amplificate dai proprietari delle radioline (Golli d’o NapoliCu signà?Cané), aggiornavano i presenti sui risultati dei campi importanti, quelli della serie A. A volte si formavano addirittura dei capannelli attorno alla radiolina. Una delle minacce più ricorrenti era quella di tirare la radiolina all’arbitro. Un altro aggeggio piuttosto popolare era il cuscino da stadio che molti tifosi portavano con sé per attutire la durezza del contatto tra il sedile di cemento e le proprie terga. Erano cuscini rettangolari, che si aprivano a libro, recanti le insegne delle maggiori squadre italiane, l’Inter, il Milan e la Juventus. Non mancavano, per la verità, anche cuscini ordinari da sedia di cucina. Nei momenti da massima tensione se ne vide volare più d’uno.
Noi ragazzini spesso stavamo attaccati alla rete di protezione per vedere da vicino i giocatori che battevano il fallo laterale. Mi dispiaceva e sin d’allora mi disgustava quando qualcuno si scapicollava giù dalla tribuna e sputava ai guardalinee (e poi ‘sti signori correvano per il resto della partita con degli scaracchi verdastri attaccati alla giacchetta nera), magari apostrofandoli con un bel “segnalino, cornuto”. Non c’era il tifo organizzato, come adesso, per cui il massimo della coralità era il classico Akragas seguito da un triplice, veloce battito di mani, oppure il grido spontaneo A-gri-gge-ndo, eseguito da tutti ad un ritmo sempre crescente e accompagnato dal battito delle mani a sfumare. A fine partita, si vedevano dei falò in gradinata, perché qualcuno, chissà perché, andando via appiccava il fuoco a dei giornali, lasciandoli in fiamme sugli spalti.
L’Akragas, dacché la ricordo io, si è sempre distinta per la sua pochezza tranne in un periodo, negli anni ’80 (non posso essere molto preciso con le date) in cui raggiunse la serie C1. Questo fu il massimo del suo splendore ma io non ne parlerò. È retrocessa diverse volte, è fallita diverse volte e diverse volte è rinata in seguito ad alchimie societarie che mi è sempre stato difficile comprendere, figuriamoci spiegare. Era poca cosa, dicevo, giocava in serie D, ma per noi era la nostra squadra, rappresentava la nostra città e ci aggregava intorno a dei colori, quelli biancazzurri, di cui tutti andavamo fieri. Eravamo orgogliosi della nostra città, allora! Lo stadio era pieno di gente e i calciatori erano degli eroi. Non sto scherzando: il roccioso Nardi, il basso Penna, il bruno Guerra, Muffato all’ala destra e Lovise ‘n porta, Zamengo e Di Fatta, Ferrari e Ferranti, Mascheroni e Brogiotti, tutta gente che non ha lasciato alcuna traccia nel calcio italiano. Tutta gente, però, che ha radunato una città intorno a qualcosa di concreto: il pallone. Le partite avevano tutte una storia che francamente non ricordo bene; non so dire che una partita in particolare mi sia rimasta impressa ma posso parlare, se volete, dell’uomo che vendeva chewing-gum, ghiaccioli e mentine Tic-tac. La sua vanniata era: Cionghi cionghi ghiaccioli cionghi.
Come in tutti i campionati di calcio le partite più importanti erano quelle con la capolista o gli scontri con le avversarie dirette. Ma la partita che conservava sempre un fascino tutto suo, quella che importava a tutti a prescindere dalla posizione in classifica, il derby dei derby, in una parola la madre di tutte le partite, era una sola: Akragas-Nissa. Era sempre la partita dell’anno, talmente importante che era l’unica che godeva dell’onore della trasferta. Grazie a dei parenti di certi amici (uno di quei compagni di partite) che ci invitavano a pranzo, a volte si andava a Caltanissetta e si passavano delle belle giornate anche se noi bambini non potevamo andare allo stadio perché ritenuto pericoloso; immagino non fosse certo più pericoloso di quando la Nissa veniva ad Agrigento, ma tant’è! Quando si giocava ad Agrigento non ci era permesso di stare giù a giocare, nostro padre ci voleva seduti accanto a sé, non sbagliando, visto che per quella partita lo stadio si riempiva fino all’inverosimile e molte persone venivano anche da Caltanissetta. Si conoscevano anche alcuni dei giocatori della Nissa, tanto era importante l’evento: il portiere Cerami, tipo bassino e sbilenco ma bravissimo e il bomber Cipollone, la bandiera della squadra (credo lo ricordassimo più che altro per il cognome). Ogni azione veniva sottolineata da fischi o applausi, i contrasti tra calciatori erano importanti come la guerra del Vietnam e un rigore faceva perdere il lume della ragione a più d’uno. L’arbitro era particolarmente beccato, qualunque cosa facesse, qualunque decisione prendesse (arbitru a favuri!) e cioè: se un nostro giocatore azzoppava un avversario volontariamente e con cattiveria e l’arbitro fischiava la giusta punizione o il giusto rigore, apriti cielo! Ma se un nostro uomo sveniva per cause naturali nella loro area senza che nessuno lo sfiorasse e l’arbitro non fischiava il rigore… Veniva insultato senza pietà e minacciato di morte; si organizzavano commandos, con reclutamenti su base volontaria, per aspettarlo fuori dagli spogliatoi e dirgliene o fargliene di tutti i colori.
E poi c’era il gol! Un gol dell’Akragas, evocato sin dal fischio d’inizio (e ’cca c’è 'u golli!), era l’anticamera dell’infarto. La gente, con gli occhi fuori dalle orbite, si abbracciava (io stesso ho abbracciato dei perfetti sconosciuti) e subito si gridava du-e du-e du-e esortando i nostri uomini al secondo gol. Il gol ci dava la possibilità di parlare dell’Akragas, la nostra squadra, come se fosse il Milan e dei nostri uomini come se fossero Pierino Prati e Gianni Rivera. Ma il gol della Nissa era peggio; uomini furibondi promettevano di non mettere più piede allo stadio e auguravano a calciatori, allenatore e dirigenti le peggiori disgrazie per loro e per le famiglie, salvo a dimenticare tutto ad un nostro gol. La gente era veramente appassionata, entusiasta e a volte qualche cazzotto volava davvero. Ricordo, in particolare un accenno di sciarra tra uno dei compagnucci di mio padre e un nisseno che aveva dato del cornuto a un nostro giocatore, reo di aver retropassato il pallone al nostro portiere.
I torinesi parleranno di Juve-Toro e i milanesi di Inter-Milan, noi agrigentini parliamo di Akragas-Nissa, la nostra partita, il nostro derby. Settimane prima se ne cominciava a parlare e il giorno fatidico ci ripagava dell’attesa.

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Qualche giorno fa c’è stata Akragas-Nissa. Mio fratello ed io ci siamo andati. Le due squadre vivacchiano in un girone chiamato Eccellenza, ma non si è visto eccellere nessuno. Lo squallore si tagliava a fette. Non faceva molto freddo, sebbene fossimo a Natale, ma non c’erano più di duecento persone, e una cinquantina di ragazzi venuti in pullman da Caltanissetta che ci prendevano in giro. In particolare cantavano un refrain dal ritmo accattivante: giur-ginta-nope-zzodi-mme-rda. Non riuscivamo neanche a incazzarci. Abbiamo rivisto alcuni di quei ragazzini che allora giocavano con noi in tribuna laterale e abbiamo ricordato “i vecchi tempi”.
E questo è il secondo motivo per cui ho scritto questa cosa.

Febbraio 2001


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