venerdì, marzo 20, 2009

PUPA’

Poi c’erano naturalmente le figurine (Panini, e basta!), i cosiddetti pupazzi o pupà. Andavamo a comprare le bustine col calciatore in mezza rovesciata acrobatica (la stessa immagine dell’album) dal giornalaio di via Manzoni ed era una gioia scartarle, buttare gli involucri per terra, ovviamente, sentire l’odore dell’adesivo che ricordava quello della camomilla, vedere quali giocatori avevamo trovato, gioire se non li avevamo ancora, restare delusi se li avevamo già. Poi prendevamo l’album per impiccicare i nuovi o mercanteggiavamo sui mancanti. Passavamo le giornate a giocarci, a scambiarceli o ad appiccicarli sugli album. Si giocava col soffio (‘u sciusciù), con l’esplosione labiale (‘u ppà), c’a malizia e senza malizia, ovvero con l’uso o meno di stratagemmi che lo rendessero più difficile, come per esempio, piegare la figurina e metterla a pancia in giù. Ci si buttava a terra senza il benché minimo rispetto per i vestiti e per la propria persona. Il primo soffiatore veniva scelto col sistema dell’io-io-iiio (detto anche tuni-tuni-tuuuni), una conta simile alla morra cinese, per cui alla fine si sommavano le dita e si contava in senso orario a partire da io o da tuni (cioè tu). Si contava sempre, tranne se usciva il numero tre; in quel caso, infatti, si diceva tri chiova – immagino l’allusione fosse ai chiodi della croce di Cristo – e si rifaceva la conta. Anche se veniva fuori il quattro si ricontava, dicendo quattru pedi ‘i sceccu. A chi toccava, soffiava per primo. Il fine ultimo del gioco era vincere tutti i pupà, ovvero spulìri (o scapulìri) l’avversario e per questo a volte si giocava d’azzardo mettendo a terra anche molte figurine. Soffiare sui pupà non era neanche semplice perché occorreva farlo bensì molto forte ma cercando al contempo di far passare l’aria attraverso la lingua a U. E, come al solito, alcuni erano dei veri e propri assi ma non mancavano i bari.
I pupà venivano scambiati, dicevo. C’era tutta una liturgia: il proponente gli scambi sciorinava il mazzo di pupà, uno ad uno a velocità supersonica e l’interlocutore, riconoscendo le effigi dei calciatori, controllava mentalmente se possedeva quelle figurine (che si dividevano in tre categorie: i giocatori, le squadre e gli scudetti) o se gli mancavano. E quindi una litania di ce l’ho, ce l’ho, ce l’ho veniva ogni tanto interrotta da un mi manca. Qui avveniva lo scambio. Se era una figurina normale – che ne so, Giubertoni, Frustalupi, Garlaschelli – veniva scambiata con un altro pezzo, o con due-tre se era una squadra o uno scudetto. Se invece era una rara, si mercanteggiava sul prezzo e alcuni mettevano in mostra spirito levantino e capacità dialettiche non indifferenti che li portava a sparare cifre improponibili anche per calciatori ordinari laddove non infimi; altri, tra cui io, che non mostravamo alcuna propensione per il commercio, a volte sbolognavamo pezzi rari a cifre risibili. Ero la disperazione di mio fratello. Riuscivano a fregarmi in qualunque modo. Vero è anche che in alcuni casi – fai conto Martiradonna del Cagliari, Bui del Torino, Pizzaballa della Sampdoria etc… – erano pupà ben spesi. Il fine ultimo era completare l’album. E qui riapro una delle ferite più sanguinolente della mia vita: io non ho mai completato un album! Quando i più attaccavano col secondo, a me mancava ancora mezzo Lanerossi Vicenza, un quarto di Verona Hellas o parte del Palermo (che so io, Tanino Troja, giusto per dire) e si era già a fine campionato. Mi vergognavo come un delinquente ma a un certo punto credo di aver dato la colpa al destino.

Nessun commento: