giovedì, aprile 02, 2009

E VIDI CA VEGNU


Un altro gioco a squadre molto gettonato all’epoca era la tavula longa (peccato non poter rendere graficamente l’esatta pronunzia!). Si organizzavano due squadre con lo stesso criterio già descritto per le partite di calcio e si faceva la conta per stabilire quale squadra dovesse andare sutta. I membri di questa squadra si mettevano in fila, partendo dal muro, chini a 90 gradi; il giocatore di dietro afferrava saldamente le gambe e il sedere del compagno davanti via via fino a formare una sorta di, appunto, lunga tavola sulla quale l’altra squadra, quella di supra, doveva saltare. Il primo della squadra di sotto, però, non poggiava direttamente sul muro, perché normalmente si prendeva un bambino, preferibilmente grasso, e lo si metteva con le spalle al muro a fare da cuscino.
Ma qui devo assolutamente aprire una parentesi. Vita particolarmente dura avevano i bambini grassi o grossi. Per quanto ancora non si fossero fatti strada i canoni estetici tipici della società odierna, i bambini grassi (anche se sconosciuti) venivano duramente presi in giro con epiteti che andavano dal grossu di minghia, al bombola di gas, fino al classico bussicuni. Credo fossero in assoluto i più bersagliati dalla cattiveria feroce degli altri bambini. Si disperavano, urlavano, minacciavano di chiamare familiari preferibilmente di sesso maschile ma più si arrabbiavano più scatenavano l’accanimento dei loro giovani carnefici che contentavano la propria malvagità solo quando vedevano le proprie vittime scoppiare in lacrime. Quanti bambini grassi hanno pianto da piccoli a causa delle derisioni dei compagni! (Non è per defilarmi ma sin da bambino ne ho sempre avuto rispetto.) A quel punto, cioè al momento del pianto (ma solo perché rappresentava l’acme di una situazione che rischiava di degenerare), interveniva qualcuno pronto a farsi difensore del corpulento amichetto, talora arrecando ulteriore pregiudizio alla sua causa: Veni ccà, fattilla cu mia. Chi t’a fa cu chiddu ca è grossu? Lo stesso trattamento non era riservato ai magri, ancorché scheletrici. Sì, qualche sfottò di prammatica lo beccavano anche loro, magari si ventilava la presenza di una qualche malattia venerea (sifiliticu!) ma ai grassi era riservato ben altro trattamento. E poi, da bambini ognuno di noi aveva il proprio segno particolare. C’era l’alto, il basso, il biondo, il bruno, l’occhialuto. Fin qui nulla da eccepire. I problemi sorgevano allorché questi caratteri distintivi venivano utilizzati al solo scopo canzonatorio. Il bambino con gli occhiali era chiamato occhialinu o quattr’occhi e ‘na banana (e subito ci si premurava di puntualizzare che fine facesse la banana!); quello dalla pelle ben pigmentata era nivuru ‘mpiciatu. Il bambino dai capelli biondi era ’u biondinu, quello dalla chioma riccia era ’u ricciolinu, quello dagli occhi a mandorla era ’u cinesinu. Termini, quindi, vezzeggiativi che però non si esitava, alla bisogna, a tramutare in dispregiativi: Biondì / ricciolì / cinesì, mi sta rumpennu a minghia!. E addio vezzeggiativo!
Ma torniamo alla tavula longa. La squadra di sotto aspettava che quella di sopra esaurisse i salti di tutti i suoi membri. Salti che perlopiù venivano, intanto annunziati dal grido E vidi ca vegnu!, e poi eseguiti non tanto con spirito sportivo o di puro divertimento, quanto nella segreta speranza di spezzare in due la schiena dell'avversario o di arrecargli una qualunque menomazione fisica, purché permanente. Esauriti i salti, compito della squadra di sotto era resistere fino a dieci, mentre i soprastanti eseguivano le manovre più turpi, fuori dal regolamento e da qualunque convenzione internazionale, per farla cadere. Infatti l’obiettivo della squadra di supra era fare scunucchiari la squadra di sutta. Ovviamente le due squadre alla fine si accusavano a vicenda di scorrettezze e anche tavula longa finiva a schifìo. Era, va da sé, un gioco ad alto coefficiente di pericolosità. Alla fine non si contavano le ginocchia sbucciate, le dita piegate, le schiene doloranti ma soprattutto i pantaloni squarciati nel mezzo, che ci costavano asperrimi rimproveri.
In gran voga era anche Uno manda all’uno (si dovrebbe scrivere così), la variante nostrana dell’universale gioco della cavallina. Era un gioco solo apparentemente innocuo e amichevole perché nonostante il preventivo abbozzo di regolamento e i giuramenti di correttezza, spesso, come vedremo, il ricorso alla violenza si rendeva quasi necessario. Si faceva la conta ad eliminazione, per cui l’ultimo che rimaneva doveva stare chino (sutta) e consentire a tutti gli altri di saltare. Erano consentiti quattordici salti, drammatizzati e ritmati da una filastrocca, stranamente in italiano, per quanto inframmezzata da parole siciliane (l’italiano era, in genere, mal tollerato) che riporto:
- uno – manda all’uno;
- due – manda a due (i primi due salti erano franchi);
- tre – figlio di re (si eseguiva il salto e quando si atterrava si simulava un gesto di napoleonica autoincoronazione);
- quattro – calci in culo e passa arrè (in questo caso si dava un calcio al volo nel sedere della cavallina; calcio che spesso era volutamente forte);
- cinque – raccogli il grano (atterrando si doveva fare un ampio gesto, da gaia spigolatrice, chinandosi con le braccia che si chiudevano a raccogliere un immaginario fascio di spighe);
- sei – piedi in croce (si atterrava incrociando i piedi);
- sette – due pugni (invece di poggiare le mani si poggiavano i pugni chiusi. Si poggiavano per modo di dire; alcuni avevano come fine ultimo la lesione delle vertebre della cavallina);
- otto – scivolò (invece di sorvolare la schiena, ci si scivolava sopra. Ed era anche doloroso, per chi stava sotto);
- nove – ti lascio questa sella (e si lasciava un fazzoletto sulla schiena della cavallina. I fazzoletti di allora non erano gli igienici Scottex di adesso ma i classici fazzoletti di stoffa, per cui erano già pieni di patacche di mòccaru, fresco o già solidificato e croccante);
- dieci – me la riprendo (si riprendeva il fazzoletto);
- undici vado a messa (questo era un vero colpo di teatro: ci si rimboccava la maglia sulla testa a simulare le vecchine che andavano a Messa col velo in testa);
- dodici – scappiddazzu (in questo caso si saltava unendo le mani e dando un colpo sulla schiena a mani unite. Come nel caso del numero sette, il fine ultimo era il male fisico dell’altro);
- tredici – mi preparo per scappare;
- quattordici – sputo e scappo (si scaracchiava sul muro e si scappava).
Alla fine l’uomo-cavallina doveva cercare di acchiappare qualcuno e, se vi riusciva, decadeva dal compito per affidarlo all’altro. Anche questo gioco non era esente da proteste e risentimenti, soprattutto fisici. Ho già ricordato che alcuni numeri prevedevano l’uso della violenza, per cui chi era sotto a volte, colpito duro, abbandonava prima del tempo, veniva tacciato di essere fattu di ricotta e, come sempre, finiva a sciarra.
Ammucciaré era invece il classico “Nascondino”. Non ho niente da dire in proposito se non che mi sono sempre chiesto cosa volesse dire tingolo, la parola che si diceva quando un giocatore nascosto si faceva scoprire. ‘Ncagliaré era semplicemente il rincorrersi per acchiapparsi. C’era un bar vicino all’INA Casa dove andavamo a abbucari. L’intera attività del giocare a flipper era resa con questa splendida sineddoche: la sola azione dell’inserire la monetina significava tutto il resto. Per cui Amunì a abbucari o semplicemente Abbucàmu significavano “Andiamo a giocare a flipper” o “Giochiamo a flipper”. E sempre a proposito di soldi, ogni tanto si facevano anche dei giochi con le monete, da 50 e da 100 lire, i più in voga dei quali erano ‘a fussité, che consisteva nello spingere le monete a colpi di pollice verso una fossetta, e ‘u parmu, in cui le monete venivano spinte a colpi di pollice e poi le distanze misurate: quando si mandava la propria moneta a un palmo dall’altra, si vinceva l’altra moneta.
Quindi erano tutti giochi che si facevano senza l’ausilio di mezzi, a parte il calcio, naturalmente, dove occorreva il pallone. Ma vi erano anche giochi per i quali servivano degli strumenti. Uno di questi era ’a tortula (foto), la trottola. Correva voce che un vecchio a piazza Municipio le fabbricasse ancora ma noi le compravamo lesti e boni da qualche parte vicino all’INA Casa. Erano fatte di legno, secondo me molto belle (qualcuno le decorava pure), e occorreva anche una certa bravura nel farle girare bene. Un lungo chiodo le attraversava in tutta la lunghezza: la punta del chiodo era poi la punta della stessa trottola, quella che la faceva girare. Intanto necessitava una corda, ad un’estremità della quale veniva assicurato un tappo di bottiglia appiattito e bucato. La corda, ‘a lazzata, veniva fatta girare saldamente attorno alla trottola, il tappo tenuto tra l’indice e il medio e con un secco movimento del braccio la corda veniva strattonata e la trottola prendeva a girare. Si facevano delle gare che iniziavano col lancio della sfida (Ti muchi?), e potevano terminare con la distruzione, a colpi di punta (pizzati), della tortula dell’avversario da parte del vincitore e con una bella, solita sciarra, che tanto l’occasione era sempre buona. Vi erano di quelli che riuscivano a far girare la tortula sulla mano o addirittura sulla punta della scarpa ma io, ovviamente, non ci sono mai riuscito. Mio fratello Alessandro ama ricordare che il fine esclusivo della mucata era la distruzione della tortula dell’avversario. È per questo motivo che spesso si incontravano picciuttazzi che appuntivano il chiodo della propria tortula sfregandone vigorosamente la punta sul cemento, preparando le armi alla battaglia. Una volta fu sull’orlo di uno choc infantile allorché il suo piede si imbatté in una emi-tortula, vittima di una recente mucata, di cui scorse, poco distante, l’altra metà. Rimase di gesso!
Poi c’era il periodo del carretto, per costruire il quale erano necessarie conoscenza, arte e bravura. Il carretto era altamente tecnologico per cui si doveva anche essere in possesso di competenze di fisica, meccanica e falegnameria. Infatti bisognava avere già una certa età per farne uno, fai conto una decina d’anni e bisognava anche in qualche modo dimostrare d’essere stati in gradi di costruirlo da soli, pena lo sfottò (Inghia, t’u fici to pà). Servivano:
- una tavola ampia,
- un’asse,
- due cubi di legno, ‘i cugna,
- altri pezzi di legno,
- dei chiodi; più
- un lungo bullone con dado e soprattutto
- tre cuscinetti a sfera, di cui due di uguale diametro e uno più piccolo.
Ragion per cui si doveva fare il giro di falegnami e meccanici della zona a chiedere di fornirci i suddetti pezzi, che spesso ci facevano anche pagare, in taluni casi fregandoci. Rovistavano in mezzo a secchi pieni di materiale vecchio – e bisunto nel caso dei meccanici – alla ricerca dei pezzi migliori, tra cui i più ricercati erano certamente i cuscinetti a sfera. Ci vorrebbe un disegno per meglio spiegare la costruzione del carretto ma proverò a farne a meno. Sopra tutto vi era la tavola che serviva da pianale su cui stava il conducente, con modalità diverse che poi spiegherò; nella parte posteriore della tavola, al di sotto di essa, veniva inchiodato un lungo pezzo di legno alle estremità del quale venivano inseriti i cuscinetti a sfera. La parte più elaborata era lo sterzo che era costruito con un’asse sotto la quale venivano fissati due cubi di legno, 'i cugna, che facevano da rudimentale forcella; dopodichè un mozzo veniva fatto scorrere dentro un terzo cuscinetto, il più piccolo dei tre, e inchiodato ai cugna. Lo sterzo, infine, era fissato alla tavola mediante un bullone e un dado. Detta così può sembrare una cosa semplice ma in realtà a tutto ciò doveva sottostare, come ho già detto, la conoscenza. Per esempio, dei materiali: il legno doveva essere di un certo tipo piuttosto che di un altro; bisognava eliminare il rischio di scheggiarsi le mani con le cciarde, per cui a volte necessitava un lavoro di limatura. E poi i cuscinetti migliori erano quelli più piccoli che comunque dovevano essere ben oliati. Qualcuno si concedeva anche qualche accessorio civettuolo, tipo una fodera o un’imbottitura sul pianale o dei catarifrangenti sul didietro. Una vera sciccheria.
E poi, a lavoro ultimato, si doveva dimostrare di essere in grado di guidare un carretto. Vi erano diversi tipi di guida a seconda della disciplina: per le gare sulla distanza si prediligeva la posizione col ginocchio destro sulla tavola e il sinistro a dare la spinta; per le discese la posizione era quella del bob o dello slittino, cioè seduti con le spalle un po’ all’indietro, le gambe in avanti e le braccia sullo sterzo. Per affrontare meglio quest’ultima posizione, certuni attaccavano alle estremità dello sterzo una fune e con essa lo manovravano. Noi facevamo delle discese ad altissimo coefficiente di pericolosità nella Discesa Metello, meglio nota come 'a Scinnuta d’o Garden. In questa discesa, dicevo, bisognava davvero dimostrare perizia giacché ci si misurava con strettoie, alta velocità acquisita dal mezzo (soprattutto verso la fine), pedoni che normalmente salivano o scendevano o uscivano a sorpresa dai magazzini che davano sulla via e soprattutto le macchine che salivano, ignare del fatto che degli incoscientissimi ragazzini si scapicollavano sui loro carretti. Era una prova di grande suggestione e notevole impatto visivo, davvero ricordava le gare di bob. Come molto bella era anche quella che facevamo sulla passerella del nostro palazzo di Via Acrone: ci davamo una bella spinta e, alla fine della passerella, che era un po’ in discesa, sterzavamo bruscamente per accapputtari. Non era pericolosa come la discesa, nella quale rischiavamo la vita, ma a volte succedeva che cappottando il carretto ci finisse addosso facendoci anche male.
Dico la verità: mi piaceva da morire il gioco del lignu santu o lignusà. Era un gioco moderno, avvincente, e perciò stesso poco praticato. Era un gioco a bassissimo budget. Occorrevano, infatti, un pezzo di legno piuttosto lungo, fai conto una settantina di centimetri, e un pezzo piccolo. Erano materiali che in genere si trovavano con una certa facilità anche se spesso vi era un notevole lavoro di ripulitura da fare, soprattutto dai lunghi chiodi arrugginiti di cui erano pieni (a volte penso che siamo vivi per miracolo!). Allora, si metteva il pezzo piccolo per terra e col pezzo lungo, usato a mo’ di mazza da baseball, gli si dava un colpo cercando di farlo sollevare da terra e lo si colpiva al volo. Non sempre il pezzetto riusciva a sollevarsi bene per cui il colpo riusciva a arrunghia maccu, ossia facendo strisciare a terra la mazza, colpo peraltro non consentito. Spesso, invece, il bastoncino riusciva a percorrere delle belle distanze (talora anche dei “fuori campo”) che venivano misurate usando la stessa mazza come strumento di calcolo. Anche il lignu santu, vuoi per la scarsa perizia di alcuni (immediatamente sanzionata dalle canzonature dei compagni), vuoi per il problema relativo allo stabilire quando era arrunghia maccu e quando no, vuoi ancora per fatti legati alla misurazione, era spesso motivo di sciarri nivuri.
Ogni tanto capitava di trovare dei pezzi di cartone piuttosto grandi (Talé chi acchiavu!), fai conto imballaggi di frigorifero, di televisore o di lavatrice, visto che gli elettrodomestici facevano ormai parte della vita quotidiana delle moderne famiglie italiane, per cui si decideva di costruire una capanna. Contrariamente a quanto avveniva per altri giochi nei quali era favorita la partecipazione di quanti più bambini possibile, nella robinsoniana attività della capanna il reclutamento avveniva per esclusione: Tu n’a capanna un ci sì! Chi pronunziava questa frase era naturalmente colui o coloro che avevano trovato il cartone (U cartuni è mé!) e che ne erano pertanto legittimi proprietari oltre che impresari del progetto. Da qui le prime sciarre; gli esclusi facevano dichiarazioni di disinteresse totale alla cosa (Iu t’a ficcu ‘n culu a tia e a capanna vidè!) o addirittura promesse di danneggiamento dei materiali da costruzione (Ti l’abbrusciu stu minghia di cartuni!). Si faceva un abbozzo di progetto su come dovesse venire la capanna e normalmente si andavano a cercare degli altri materiali (legni, lacci, mattoni etc…) che sarebbero serviti per la costruzione. Questa ricerca era effettuata anche dagli esclusi ma per un motivo diverso: trovare dei pezzi di legno o del materiale generico significava danneggiare o rallentare il progetto-capanna ma poteva anche significare l’esserne automaticamente riammessi. Trovato qualcos’altro di utile, si cominciava la vera e propria costruzione. Naturalmente l’organizzazione era motivo di disaccordo giacché c’era chi proponeva una cosa, chi faceva il contrario e le sciarre erano assicurate. Ma dopo tanto lavoro, accuse reciproche e camurrìe varie, la capanna era bell’e finita e a volte venivano fuori anche delle piccole opere d’arte. Vi si entrava dentro, si stava un po’ e a quel punto si capiva di aver totalmente perduto interesse alla capanna.

4 commenti:

carletta ha detto...

Personalmente, la 'ngiuria che ho sempre preferito per i grassocci è: arancina cu 'i pedi.

fabio ha detto...

vidi ca ta sconzu sta minchi'e capanna!!!!

carletta ha detto...

'a vò finiri cu sta m...... 'i palumma?!?

Unknown ha detto...

albè, nel caso di una revisione dei pezzi per un eventuale libro (che devi fare per forza), ricordati di aggiungere che tavula longa, altrimenti conosciuta come evvidicavegnu!, veniva anche chiamata in alcune zone della città "o ciciru" (quando un elemento della squadra di sutta "sbracava" diceva la parola ciciru).