domenica, aprile 10, 2011

LA MACCHINA DEL TEMPO


A Girgenti c’è un luogo che è come la macchina del tempo, in cui basta varcare la soglia per essere risucchiati indietro di trent’anni e ritrovarsi di botto negli anni Settanta del Novecento. Non dirò di che ufficio si tratta perché magari qualcuno potrebbe offendersi, anche se secondo me non c’è nulla di cui offendersi. È un ufficio in centro città, dove non si aspetta molto – del resto non c’è mai nessuno – però c’è sempre qualcosa da pagare. Io ci sono andato stamattina e ho fatto ovviamente il viaggio nel tempo.

Anyway, appena oltrepassata la porticina in alluminio anodizzato – il materiale più terrificante dopo la fórmica – dell’ufficetto, mi è subito venuta voglia di prendere in mano l’album delle figurine Panini. Si entra in una stanza piuttosto grandetta, in realtà due ambienti separati da un parapetto, un bancone che funge da sportello, in fórmica, appunto, appena appena sollevata agli spigoli, color marrone-effetto-legno. Una porta, in legno pittato chiaro, con inserto di rettangolo verticale in vetro opaco martellato, separa questo ambiente dagli altri.

Entrare in quel luogo è stato il trionfo dei cinque sensi. Il primo senso colpito è stato l’udito: da una radiolina arrivavano le note di una canzone dei Collage. Il secondo l’olfatto, per via di un intenso odore di rinchiuso misto a scartoffie. Poi la vista, per tutto quello che vi dirò; poi ancora il tatto, dal momento in cui i miei polpastrelli hanno indugiato sulla superficie fredda del bancone dove albergava un sottile velo di polvere. Beh, è mancato solo il gusto effettivamente ma è come se, in quel trionfo di anni ’70, avessi assaggiato un bel bicchierino di Rosso Antico. Nell’anticamera, un divano piuttosto sformato, una scrivania in metallo grigio e alle pareti stampe di Agrigento antica – una vecchia edizione del Giornale di Sicilia – debitamente incorniciate.

Al di là della balaustra, due creature di sesso maschile – forse imbalsamate – mi guardavano, certamente chiedendosi cosa volessi da loro. I due uomini stavano seduti a due scrivanie, l’una in legno, quindi marrone, con ripiano verde e lastra di vetro spesso sotto la quale erano stati infilati fogli di carta e pizzini vari; l’altra era più o meno come quella dell’anticamera, in metallo grigio. Il secondo uomo scriveva… a macchina.

V’era dell’altra mobilia, un armadietto, sedie con seduta decorata a sbalzo, scaffali vari. C’erano sì, due computer, di quelli vecchi con schermo enorme, ma non ne ho compreso l’utilità, visto che nella mia permanenza in quel luogo, non sono stati usati affatto. E in ogni caso, l’obsolescenza se li stava mangiando vivi. Ai muri altre stampe, tutte ben ingiallite. Dietro le due scrivanie, calendari dell’Arma dei Carabinieri, appesi per il fiocco su bande di legno, a formare il classico effetto di rombi in sovrapposizione.

Mentre alla radio Fred Bongusto eseguiva uno dei suoi brani meno noti, mi presento ai due ed espongo il motivo della mia visita. Il secondo uomo si alza – lì capii che era vivo – e viene verso di me. Mi chiede se altre volte avessi fatto la stessa richiesta e alla mia risposta affermativa, prende una carpetta gonfia di carte e comincia a sfogliarle. Una ad una. Lentamente. Non trova nulla, quindi dichiara che tanto non era importante!

Si reca pertanto in un’altra stanza e ritorna dopo un po’ con in mano il classico “modulo da riempire”, a più fogli. Mentre dichiara che dovrà compilarlo con la macchina da scrivere – ah, i rumori della macchina da scrivere: il trrr trrr trrr del carrello, il colpo secco della levetta per andare a capo, il campanellino del fine pagina – da dentro un cassetto prende qualcosa che era rimasto sepolto nella mia memoria, sotto quintali di polvere: la carta carbone. Ho pianto in silenzio.

Fatto sta che il nostro, forse comprendendo il mio sconcerto, decide di abbandonare la fida Olivetti e scrivere il modulo a mano. Per cui si appoggia sul bancone e si dà alla compilazione. L’operazione si è svolta in maniera abbastanza tranquilla e senza spargimenti di sangue. Al momento di firmare ho pressato talmente sul foglio che ho rischiato di spezzare la penna. Ma così io ricordavo: sulla carta carbone devi scrivere bello forte così anche i fogli di sotto vengono leggibili.

Uscito da quell’ufficio sono ripiombato nella solita atmosfera di sempre. Speravo di sentire la voce di mia nonna che mi chiamava ma niente, la macchina del tempo mi ha riportato nello squallido 2011. Adesso mi ci vorrebbe un bel bicchierino di Rosso Antico per riprendermi dallo shock.

1 commento:

carletta ha detto...

Sono contenta che tu sia tornato a scrivere sul blog