venerdì, settembre 16, 2011

KAYUKO (2)

In mattinata, Sandro e Ornella tornarono a Furaha na tumaini. Sulla strada si fermarono a guardare un signore che stava facendo i mattoni per la sua casa. L’uomo aveva scavato un grande fosso sul terreno, smosso tutta la terra, l’aveva abbondantemente annaffiata con l’acqua, lavorata coi piedi per far diventare il fango piuttosto omogeneo, senza troppi grumi e stava procedendo all’ultima fase. Aveva un attrezzo, un telaio rettangolare a forma di H, chiuso alle estremità, quindi con altri due rettangoli interni; riempiva di fango l’aggeggio e lo andava a vuotare sul terreno rilasciando ogni volta due mattoni. Con quelli avrebbe costruito la sua casa.

Arrivati al centro, i due si fiondarono da Kayuko. Forse volevano cercare conferma nella decisione che aleggiava. Trovarono i bambini nel momento del cambio dei pannolini. Le operatrici ovviamente non usavano i pampers bensì le kanga, tagliate a strisce, che facevano sia da assorbente che da mutandina. La kanga è la veste multicolore delle donne africane, che viene usata, principalmente, come gonna ma anche per portare il bambino piccolo sulla schiena e per un altro migliaio circa di utilizzi. Man mano che un bambino o una bambina veniva cambiato, le donne lo adagiavano per terra e il piccolo cominciava a gattonare, strisciare, cercare di sollevarsi da terra e camminare. Tutti quei bambini sul pavimento erano uno spettacolo di tenerezza.

Non fu facile riconoscere Kayuko, non perché, come si dice dalle nostre parti, “i neri sono tutti uguali”, ma perché effettivamente alcuni di loro si somigliavano molto e poi perché avevano passato troppo poco tempo assieme per ricordarselo bene. Poi lo videro che gattonava in un’area un po’ lontana della stanza e lo andarono a prendere. Stettero con lui tutta la mattina e notarono che al bambino piaceva molto avere qualcuno che si occupasse di lui. Giocava e rideva contento. Ad ora di pranzo, Sandro gli diede pure da mangiare; le donne del posto gli permisero di imboccarlo e ovviamente si stupirono molto nel vedere un uomo compiere quell’attività femminile. Kayuko mangiò riso e fagioli – e cos’altro? – che del resto è la dieta base di qualunque bambino africano dopo lo svezzamento: direttamente dal latte materno a riso e fagioli. Provava molta tenerezza nell’accudire il piccolo e la cosa gli fece aumentare la voglia di prendersene cura più a lungo, molto più a lungo.

La mattina successiva, a Furaha ni tumaini c’era una festa popolare. Ornella e Sandro andarono, accompagnati da Antonella, la ragazza della ONG che in quei giorni era stata per loro un preziosissimo cicerone. A lei la sera prima avevano spifferato la loro intenzione di vedere se era possibile avviare una pratica di adozione per Kayuko. La ragazza gioì molto di quella cosa e anzi diede loro delle dritte utilissime. Alla festa ci furono balli e canti. Si divertirono da matti, loro e il bimbo, poi se ne andarono. Tristi. L’ultima polaroid che si portarono di lui fu scattata davanti la porta del camerone, Kayuko a terra, gattonando, li guardava, con l’occhietto semichiuso e le labbra tra i denti.

Sulla strada per Kyamani si fermarono un giorno a Iringa. Andarono a trovare due tizi, italiani, che avevano lasciato baracca e burattini e si erano stabiliti in Africa, fondando una specie di casa per bambini in situazione di handicap fisico. L’avevano attrezzata di palestra e sala per la fisioterapia e giornalmente accoglievano diversi bambini disabili. In sovrappiù, avevano adottato tre bambine in situazione di svantaggio. A loro raccontarono l’incontro con Kayuko, ne discussero ed essi furono prodighi di consigli e avvertenze.

Ornella e Sandro lavorarono a Kyamani per altre tre settimane, poi tornarono in Italia, con la solita voglia di ritornare in Africa ma questa volta con un motivo in più. Avevano nell’occhio ancora Kayuko, il bambino di Mbololo.

Un paio di mesi dopo il loro rientro in Italia, Ornella ricevette una lettera da parte di Antonella, l’operatrice della ONG di Mbololo, quella che li aveva scarrozzati in giro. La ragazza li aggiornava sulle ultime notizie da quel fronte. Al centro si stavano facendo dei lavori di scavo per la raccolta e il drenaggio dell’acqua piovana. Si doveva riuscire a convogliarla dentro delle cisterne per far fronte alle esigenze idriche del centro e del villaggio, nei periodi di siccità, cioè molto spesso. Inoltre si stavano facendo degli altri lavori anche alla sala giochi dei bambini: la stavano ripitturando, in verde, e l’avrebbero dotata di tanti altri giochi e cuscinoni, che nel frattempo erano arrivati in container dall’Italia. Il falegname del villaggio, oltre a ciò, aveva già realizzato un grande box, in cui i bambini potevano esercitarsi a camminare e altre cose stava costruendo.

Quanto ai bambini, Antonella raccontava che effettivamente quello era un periodo di grandi scoperte per loro. Sembrava si fossero decisi tutti insieme a camminare, a parlare e a scoprire ogni giorno tante cose nuove. Erano uno stimolo gli uni per gli altri.

“Adesso vi chiederete cosa fa il vostro piccolo amichetto” – disse a un certo punto della lettera, la ragazza. E raccontò loro che era stato portato in ospedale a Iringa per il piccolo problema di strabismo. Era stato visitato da un oculista, il quale, però, aveva consigliato un esame più approfondito, magari a Dar es Salaam. Anche una fisioterapista aveva incontrato Kayuko, per la sua difficoltà, a due anni, di camminare ormai speditamente come tutti i bimbi di quella età. La professionista aveva confermato che il problema era in relazione stretta con i primi mesi di vita del bambino, quelli della malnutrizione.

I due sanitari avevano poi manifestato la loro preoccupazione rispetto a questa nuova malattia che, appena arrivata anche in Africa, stava facendo dei danni enormi. AIDS, si chiamava, ma lì era conosciuta come ukimwi, e colpiva soprattutto la fascia centrale della popolazione, lasciando soli tanti bambini e bambine.

Antonella continuava raccontando del viaggio in dalla-dalla fino a Iringa e ritorno, di come Kayuko, e gli altri bambini che erano con lui, si erano divertiti sul pulmino. Avevano riso per tutto il viaggio, guardando fuori dai finestrini con lo stupore tipico dell’esploratore. Anche nella grande città guardavano tutto con meraviglia: per loro era una scoperta continua. Sandro e Ornella si intenerivano al pensiero del loro piccolo Kayuko alle prese con la vita e avrebbero voluto trovarsi lì con lui.

Fino a che, camuffata da notizie come le altre, Antonella non mollò l’affondo. Riguardava la famiglia di Kayuko: si erano trovati i suoi nonni ed erano giovanissimi, 35-36 anni. Il bambino era nato dalla loro figlia, di cui non si avevano più notizie e il padre era ignoto.

«Oh, cazzo», meditò Sandro. Adesso saltavano fuori ‘sti nonni, ragion per cui Kayuko non era più yatima kabisa. Antonella aveva dato la notizia en passant, a margine di altre informazioni, probabilmente per addolcire la pillola. Conoscendo l’attenzione che hanno in Africa per i bambini, diciamo che questo metteva una pietra tombale sull’argomento adozione. Laggiù il bambino che rimane senza genitori non resta mai solo, c’è sempre una bibi, benché anziana, una zia o persino una vicina di casa disposta ad occuparsene. Figuriamoci due nonni trentacinquenni. Sandro e Ornella si erano acculturati sul sistema delle adozioni internazionali e stavano predisponendo di andare a vivere per un po’ in Tanzania, secondo la legge del luogo, ma quella lettera gli faceva repentinamente disfare le valigie. D’altronde, Kayuko aveva i nonni e questo gli dava la possibilità di poter restare nella sua terra. Non era la speranza che Ornella e Sandro avevano coltivato per un po’ ma pazienza. Duramente, a malincuore ma era meglio così.

E sì, però forse occorreva continuare ad aiutare quel bimbo che li aveva resi felici, sebbene per poco tempo. Nonostante fosse la soluzione migliore, restare in Africa comportava il doversi confrontare quotidianamente con difficoltà enormi. Bisognava trovare il modo di poter aiutare quel bambino, poterlo seguire e fare per lui ciò che avrebbero voluto fare qui, in Italia, dove Sandro e Ornella adesso si trovavano. Ma senza Kayuko.

“Vi abbraccio forte e aspetto vostre notizie! A presto, da Mbololo. Anto” – così finiva la lettera.

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