lunedì, settembre 19, 2011

KAYUKO (3)

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Cari Ornella e Sandro,

Habari gani? Quanto a me, nzuri sana. Sono Josephu Kayuko, detto semplicemente Kayuko, il bambino che avete conosciuto più di venti anni fa all’orfanotrofio Furaha na tumaini, di Mbololo, Tanzania. Voglio subito darvi una bella notizia: mi è stato dato dal Governo l’incarico di dirigere il dispensario del villaggio di Mugambe, a due ore di macchina da Iringa, verso il Ruaha Park. Ho già preso servizio da tre mesi. Il lavoro di un medico africano è duro, ma questo lo sapete, e Mugambe è molto povero, come gli altri villaggi, del resto. In questo periodo in particolare la situazione è ancora più drammatica a causa della siccità. Baba Mario e baba Kalinga, giù alla missione fanno fatica a soddisfare tutte le richieste della gente che espone senza fine i propri shida. E chi non ha problemi quaggiù? Va bene hakuna matata ma in certi periodi è davvero dura. Chi non ha cibo, chi non ha vestiti, scarpe, o soldi per comprare qualcosa. Chi non ha niente. Chi ha la casa col tetto sfondato o non può mandare i figli a scuola. Da questo punto di vista purtroppo non è cambiato molto dai vostri tempi. E poi c’è chi non ha medicine, praticamente tutti. Ogni mattina decine di mama, bibi e watoto affollano il dispensario. Uno ha la malaria, l’altro la pellagra, l’altro ancora il beriberi. Io li curo ma spesso con poca convinzione. Dovrebbero mangiare e lavarsi di più e meglio e non ci sarebbe bisogno di venire da me.

Un paio di mesi fa ho incontrato Antonella, forse la ricorderete, l’operatrice della ONG che ci seguiva quando eravamo piccolissimi a Furaha na tumaini. Era venuta per rivedere i posti dove aveva trascorso qualche anno della sua vita parecchio tempo fa, e mostrarli ai suoi figli. Ha cercato alcuni dei bambini di allora ma ne ha trovati solo pochi. Diversi di loro sono morti, purtroppo; tra malaria, ukimwi e qualcos’altro qui è una strage continua. Altri sono andati da qualche parte a lavorare. Ma per chi viene dall’interno del Paese, la vita nella grande città non è certo semplice: sei quello che fa i lavori peggiori, sfruttato e maltrattato e spesso rischi di finire male. Per cui, di molti si sono perse le tracce.

Antonella mi ha aiutato a ricostruire parte della mia vita, attraverso i suoi racconti. Mi ha detto del nostro incontro e la cosa mi ha fatto davvero piacere. Mi ha anche dato il vostro indirizzo e mi ha raccontato di come siete rimasti impressionati il giorno in cui mi avete conosciuto.

La mia bibi mi aveva raccontato le circostanze della mia nascita, di come sono finito a Furaha na tumaini e dei primi tre anni passati lì. Mi ci portarono mezzo morto di fame e di stenti ma quelli del centro sono stati bravi a tirarmi su, insieme a tanti altri bambini come me. Non ricordo nulla di quel periodo ma la bibi mi ha raccontato di quando stavo lì e di come poi mi hanno preso loro e mi hanno cresciuto. E quando stavo lì, più o meno a due anni ho incontrato voi. Forse sarebbe meglio dire che voi avete incontrato me. Dopo, però, la vita non è stata rose e fiori per me e per le persone che vivono quaggiù.

Di mia madre non si è saputo nulla per tanti anni. Poi, cinque anni fa, la Polizia di Dar es Salaam ci ha comunicato che era morta in città. Aveva contratto l’ukimwi. Quello che non ho mai saputo è perché è andata via.

Dopo Furaha na tumaini sono andato al chekechea della missione. Era bello, l’asilo, mi divertivo con i miei amichetti ma soprattutto riuscivo a mangiare a pranzo, per cui per i miei nonni ero una bocca in meno da sfamare. Almeno a pranzo. Lì cominciai anche ad avere problemi agli occhi. E non solo. Poiché ero stato malnutrito nei primissimi tempi della mia vita, ho continuato ad essere cagionevole di salute. Antonella racconta di avermi portato diverse volte in città per farmi visitare. Addirittura mi hanno fatto mettere anche gli occhiali, e questo mi rendeva differente dagli altri miei amici. Un bambino africano con gli occhiali è una cosa non comune, per cui ero certamente il più visibile e il più riconoscibile di tutti.

Poi ho iniziato ad andare alla Primary School. La shule mi piaceva molto, soprattutto lo swahili. Purtroppo avevamo anche lì dei problemi, il mwalimu era bravo e simpatico, ma la scuola era messa davvero malissimo. Neanche i banchi bastavano per tutti, per cui molti di noi erano costretti a stare seduti per terra e quando il mwalimu lasciava un compito da fare, dovevamo stare in ginocchio a scrivere, col quaderno per terra. Però eravamo felici lo stesso. Solo adesso però ne ho capito il motivo: perché eravamo bambini.

Io – allora non ne capivo il perché – ero stranamente messo un po’ meglio degli altri. Avevo la divisa più pulita e ogni anno la bibi riusciva a comprarmela. La divisa di scuola era obbligatoria, camicia bianca e pantaloni azzurri, però la usavamo anche fuori da scuola per cui dopo qualche mese era praticamente già da buttare. Io avevo sempre le scarpe. Ed ero uno dei pochi ad averle sempre, cosa strana da queste parti, anche adesso. Quando finiva un quaderno, la bibi me ne dava un altro; i miei compagni invece erano costretti a cancellare ciò che avevano scritto e riutilizzare il quaderno vecchio. Io invece avevo sempre dei quaderni, delle matite e una gomma. Un anno, in sesta, riuscii ad avere anche un libro. Solo il mwalimu lo aveva. Quell’anno anche io.

Anche a casa sembrava aleggiasse una sorta di nuvola che provvedeva a noi anche quando tutto intorno c’era la siccità, la fame e la miseria. A noi non mancava mai un piatto di ugali e fagioli. Con ciò non voglio dire che eravamo ricchi ma almeno il cibo non ci mancava.

Anche per l’accesso alla sanità, ora che ricordo bene, eravamo combinati un po’ meglio degli altri. E anche in questo caso non ne capivo il perché. Parecchie volte ho avuto la necessità di ricorrere al dispensario. La mia costituzione fisica non mi consentiva grossi sforzi per cui ogni tanto mi capitava di finire in ospedale. A causa dell’acqua, ad esempio, che qui non è mai pulita. La facciamo bollire più volte, la filtriamo e così cerchiamo di renderla un po’ migliore ma niente, sporca è e sporca rimane e il nostro tumbo ne risente. Quante volte sono stato portato in dispensario per problemi di stomaco e tutte le volte sono guarito. Ma dei miei amici non tutti sono stati così fortunati. Pascali, per dirne solo uno, è morto a nove anni a causa della diarrea. La diarrea, capite? E come lui anche altri. Per non parlare della malaria, io l’ho presa parecchie volte e ce l’ho sempre fatta ma quanti invece se ne sono andati? Greyson, un mio compagno di scuola, un giorno non è venuto a giocare a mpira. Allora siamo andati a casa sua. La sua capanna era molto lontana dalle nostre. Non lo abbiamo trovato e la sua bibi ci disse che lo avevano portato al dispensario, forse aveva la malaria. Greyson non è più venuto a giocare a mpira. Eravamo amici.

Alla fine della Primary School ero certo che sarei andato con mio nonno a lavorare il campo. Pochissimi giovani riescono ad andare alla Secondary e io davo per scontato che anche io facessi parte del grosso numero che abbandona la scuola. A malincuore, nel mio caso, perché nei sette anni di scuola elementare mi ero in qualche modo appassionato allo studio. Anzi, negli ultimi anni cominciai ad avere passione anche per le scienze. Pensate il mio stupore quando la bibi mi disse che sarei andato alle superiori. Ma come? La maggior parte dei miei compagni resterà a casa perché non se lo può permettere e io invece potrò continuare ad andare a scuola? Era tutto molto strano. Tra l’altro, al nostro villaggio non c’era, e non c’è neanche adesso, la scuola superiore, per cui sarei dovuto andare almeno a Iringa, affittare una stanza, provvedere al cibo, al vestiario e al corredo scolastico. Chi mi avrebbe dato gli shilingi necessari? Fatto sta che andai alla Secondary. E furono quattro anni indimenticabili, in cui sperimentai tante cose, e che mi fecero fare delle nuove scoperte nella vita. Andavo in un istituto a indirizzo scientifico e lì la mia passione per le scienze continuò a crescere. Imparai anche l’inglese, con il quale adesso ho la possibilità di scrivervi. A Iringa dividevo una camera con altri due amici, Lazak Likiliwike e Zakaria Sanga, la vita era abbastanza dura, non potevamo fare troppi i brillanti e dovevamo accontentarci del poco che avevamo. Ma sicuramente, anche così, eravamo dei privilegiati rispetto a tanti nostri coetanei. Ed io continuavo a non capire chi o cosa mi assicurava questo privilegio.

Alla fine del quarto anno della Secondary, si deve scegliere se finire gli studi o continuare per altri due anni, quelli che aprono le porte all’università o a studi superiori più specialistici. Quanto a me, nonostante avessi voglia di andare avanti, propendevo per la prima ipotesi: smettere con la scuola. Non perché non avessi voglia di studiare, anzi. L’avrei lasciata per l’impossibilità economica di continuare. Già che ero a Iringa avrei cercato un lavoro, mi sarei reso indipendente e avrei aiutato la bibi a tirare avanti.

Mio nonno, babu, nel frattempo era morto. Aveva trascorso una vita a zappare, seminare, aspettare la pioggia e raccogliere. Sempre e solo mais. È dura la vita del mkulima africano. Anch’io sarei dovuto diventare un mkulima e in tanti momenti della mia vita ho anche aiutato babu nel lavoro del campo. Ma in generale per me la vita è andata diversamente.

Infatti sono rimasto molto sorpreso nel sapere che avrei potuto andare avanti negli studi. È stato per me un momento davvero importante perché mi si concretizzava la possibilità di accarezzare un pensiero che non osavo neanche sperare: diventare medico. Il mio Paese è malato, grave, e ci vuole qualcuno che si assuma la responsabilità di curarlo. Volevo farlo io ma non ci speravo. Poi invece questa possibilità parve potersi concretizzare. Gli altri due anni a Iringa sono stati ancora ricchi di esperienze di maturazione. Ormai del bambino di Furaha na tumaini era rimasto davvero poco. Furono gli anni in cui acquisii la consapevolezza che il mio destino cominciava a delinearsi e non volevo perdere l’occasione. Non sapevo come avrei fatto a trovare i soldi che mi servivano per affrontare gli studi universitari ma ormai ero nel ballo. Nel tempo libero lavoravo, scaricavo ceste al mercato, spazzavo le strade, servivo nelle caffetterie per i turisti, i pochi che venivano a Iringa. E ovviamente studiavo. Studiavo sodo e frequentavo la scuola, ormai dovevo farcela. Qualcosa o qualcuno mi stava spingendo su una strada che mi piaceva percorrere. E io la stavo percorrendo.

Sì, la faccio breve. Alla fine dei due anni, mi sono iscritto alla Tumaini University, sempre a Iringa, che ormai era diventata la mia città adottiva. Tumaini significa speranza e mai come allora ho provato questo sentimento, per me e per il mio Paese.

Adesso più che mai. Lavoro in condizioni estremamente precarie ma sono contento di poter aiutare il mio popolo. Io sono stato aiutato, non so da chi anche se lo immagino. Sono stato aiutato in tanti modi ma la cosa più grande che mi è stata donata è la possibilità di poter studiare. Questo dovete fare per l’Africa, se la amate: dare ai suoi figli l’opportunità di studiare. Quando ero piccolo alcuni bambini del mio villaggio sono andati a vivere in Europa, adottati da famiglie italiane o britanniche. Si diceva che erano stati fortunati a trovare un futuro sicuramente migliore di quello che avrebbero avuto qui in Africa. Ma il guaio è che sono andati via e l’Africa li ha persi per sempre. Non so se sarei voluto andar via anch’io. Oggi dico no, dico che è stato cento volte meglio per me restare qui. Se a me fosse capitata la “fortuna” di andare a vivere all’estero probabilmente oggi lavorerei in un grande ospedale con bellissime attrezzature. Ma non sarei in Africa.

Se mi invitate, un giorno vi vengo a trovare.

Asante na shukuru.

Kayuko

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