martedì, settembre 13, 2011

KAYUKO (1)

L’inizio di questo pezzo è Il capretto nero, scritto un paio di anni fa e pubblicato su questo blog. Il resto è stato scritto per il laboratorio di scrittura “MONècrit”, tenuto da Beatrice Monroy ad Agrigento, nella primavera del 2011. A causa della lunghezza del pezzo, verrà pubblicato in tre stadi.

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I bambini africani riscuotono sempre un grande successo. Piacciono a tutti. Sono belli, non c’è che dire, e tutti quanti se ne innamorano. Quegli occhi grandi ed espressivi, quei sorrisi accattivanti, quelle testoline ricciute: è impossibile non amarli. Tanti ci chiedono cosa si prova a essere attorniati da un nugolo di bambini neri, vocianti e ridenti, che ti chiamano, ti tirano, ti prendono la mano. E quante volte ci chiedono, addirittura, come si fa ad averne uno. In tanti si dichiarano disposti ad adottarne uno. Alcuni pensano che basti venire qui in Africa, per tornare con un bel bambino nero sotto braccio, tipo al discount.

E tutte le volte che sento questi discorsi, tutte le volte che vedo questi slanci di amore incondizionato verso i bambini neri, io penso a Miss Ethel Holloway, la protagonista de Il capretto nero, una divertente novella di Luigi Pirandello. Miss Ethel, quindi, è la “giovanissima e vivacissima figlia di Sir W. H. Holloway, ricchissimo e autorevolissimo Pari d’Inghilterra”, venuta in vacanza a Girgenti, dove poté ammirare le bellezze della città, che tuttavia Pirandello descrive come molto misera. L’inglesina, quindi, si innamorò perdutamente di un capretto nero, una vivace bestiola che allegramente trotterellava, anzi springava “come se per aria attorno gli danzassero tanti moscerini di luce”, in mezzo al gregge che il caprajo, “bestiale e sonnolento”, portava a rugumare tra le rovine di un tempio dorico, cosa che Mr Charles Trockley, vice-console d’Inghilterra a Girgenti, giudicava come profanazione. Ebbene, tanto fu l’amore immediato che la ragazza provò per la bestiola, che decise di comprarla e farsela inviare in Inghilterra. La spedizione dell’animale, per varie vicende, richiese quasi un anno, per cui, a quel punto, il graziosissimo capretto nero era diventato un caprone, un becco, “un orribile bestione cornuto, fetido, dal vello stinto rossigno”, che causò lo sconcerto della giovinetta e le rimostranze decise di suo padre. Eppure era lo stesso animale.

E allora, dicevo, che c’entrava la storia dei bambini neri con quella del capretto? È simile. Tutti a squagliarsi davanti ai bambini neri: “ma quanto sono carini, che dolcezza, che tenerezza, che simpatia. Guarda che bella quella bambinetta nera. M’a mangiassi a muzzicuna. Come si fa ad averne una? Ne vorrei uno a casa mia. Me ne prenderei uno.”

Fatto sta che il desiderio di molti di avere tanti bei bambini neri alla fine viene esaudito. I bambini neri vengono davvero qui da noi, però dopo una quindicina, una ventina di anni. Ma nessuno li riconosce più. Non riconoscono più il sorrisetto furbo del bambino del Senegal nel ragazzone che chiede di comprare un accendino; né lo sguardo vispo di un bimbo somalo nelle lacrime del migrante che supplica il finanziere in guanti di lattice. Nessuno vede nella prostituta nigeriana la bella bambina sorridente che aveva visto in foto tanti anni prima e che voleva portarsi a casa.

Eppure sono le stesse persone.

***

No, non c’era il leone a vegliare alla sua nascita, pigro e austero. Non scesero gli gnu, giù dalle colline verso il Ruaha River, la giraffa non stava di vedetta né i cercopitechi si accalcavano vocianti per assistere all’evento. Quando nacque, nella stanza dove la giovane, giovanissima, bambina Bitres lo stava dando alla luce, una cosa su tutte spiccava: un odore asperrimo, il puzzo della povertà.

Sedici anni, presa da un camionista di passaggio, che da Morogoro scendeva a Songea con un carico di copertoni. Presa per una sera e poi lasciata lì, con un figlio in grembo al quale avrebbe dato un nome – Josephu – e il suo cognome – Kayuko.

Dopo pochi giorni la mamma sparì, non si sa dove sia andata. Chi dice a Dar es Salaam a cercare fortuna. Ma si sa bene qual è la fortuna che può capitare a Dar a una ragazzina di sedici anni proveniente dall’interno. Prostituzione o mendicità. Di altri parenti neppure l’ombra. Per cui il piccolo Josephu, per tutti quanti Kayuko (secondo l’uso di chiamare tutti per cognome), fu portato a Furaha na tumaini, un orfanotrofio gestito da una ONG italiana con addosso un’etichetta: yatima kabisa, completamente orfano.

Furaha na tumaini, quindi, Gioia e speranza, il nome benaugurale che i giovani della ONG, una delle prime ad arrivare, hanno dato a questo posto dove bambini poveri, abbandonati, spesso ammalati, cercano di affrontare i primi passi di una vita che non sarà certo benevola con loro. Figli di una Tanzania scalza, lacera, malata e, ancora una volta, puzzolente. La struttura – vista dall’alto è un semiovale – sorge su due ali di costruzione, con al centro il cortile e il campo per i giochi all’aperto dei bambini. In una punta dell’ovale il cancello di ingresso mentre l’altra punta è aperta. Nell’ala destra, la cucina, il refettorio e qualche altra stanza di sbarazzo o di alloggio del personale; nell’ala sinistra il camerone con tutti i lettini dei bimbi e uno spazio dove accudirli. Complessivamente venticinque-trenta bambini, perlopiù sani, a differenza di altre strutture della zona, che accolgono bambini malati.

Furaha na tumaini è una sorta di oasi. Persino i suoi edifici, in veri mattoni, non hanno nulla a che vedere con l’ambiente esterno. Fuori da lì si stenta a credere di trovarsi nel 20° secolo. Le case sono ancora costruite di fango, coi tetti di paglia. Niente luce, niente acqua, niente gas, niente di niente. I bambini vanno a scuola, con l’uniforme, obbligatoria anche se lacera, ma spesso senza scarpe e certamente senza attrezzatura scolastica. Non giocano con la macchine telecomandate ma se trovano un vecchio cerchione di bicicletta sono ben più che contenti; male che vada fanno una bella palla di sacchetti di plastica, o di vecchie magliette, per fare delle epiche giocate a mpira, a calcio. Un operaio guadagna in media mille lire al giorno, quando va bene, e con quello deve provvedere al fabbisogno alimentare di una famiglia, spesso numerosa. E in ogni caso sono quasi tutti wakulima, contadini, di un’economia di sussistenza che ogni giorno alza lo sguardo al cielo sperando nella pioggia. Che spesso non arriva. Qui siccità vuol dire carestia e mettere assieme il pranzo con la cena spesso non è impresa facile.

Nel grande stanzone con lettini a destra, sinistra e centro, ogni lettino, di legno, aveva la sua zanzariera azzurra raccolta in alto, ultimo baluardo spesso inutile contro la zanzara anofele, responsabile della malaria. Kayuko aveva l’ultimo posto a destra, per cui ci volle del tempo prima che fosse visto da Sandro e Ornella, due coniugi italiani in visita alla struttura. Non più giovanissimi, i due collaboravano con la missione di Kyamani, sulla strada verso Dodoma, a più di cento chilometri, dopo Iringa. L’uomo fu il primo ad essere attratto dallo sguardo non troppo vispo del bimbo nero, dal suo occhietto sinistro mezzo chiuso e forse un po’ storto e dal muco d’ordinanza ingrommato sul labbro superiore. Ornella nel frattempo indugiava con altri bambini.

Un fagottino, Kayuko, sicuramente meno di un anno. Non particolarmente bello. Eppure Sandro proprio lui notò tra tanti. Non il piccolo Deusi dalle guance belle piene, che ricordava il mio amico Arnold; né la bella Floriana, da tutti chiamata Froliana (per la difficoltà dei parlanti swahili a pronunciare le L e le R); nemmeno la dolce, fragile Gresy, magrissima e malata o il buffo Madison, con un vestitino da bambina. A lui piacque Kayuko. E basta. Come quando in mezzo a centinaia di articoli simili, scarpe fai conto, lo sguardo della professionista dello shopping viene attratto inesorabilmente dal paio che sta in fondo all’ultimo scaffale, quasi dimenticato, il primo candidato ad arricchire i fondi di magazzino del negozio. Quelle voglio!

Ecco, forse così si sarà sentito Sandro ma non ebbe tempo, e neanche voglia, di pensarlo, perché venne immediatamente calamitato dal piccolo. Lui, un maturo italiano, uomo di città, alle prese con un minuscolo africano, figlio della savana, che lo guardava, in ginocchio appoggiato alla sponda del lettino, la bocca semiaperta con le labbra fra i denti. Cercò la moglie per mostrarle il suo nuovo amichetto ma la donna stava altrove. Kayuko guardava Sandro e Sandro Kayuko. Col suo pagliaccetto bianco sporco, non solo di colore, con un gattino disegnato sopra e la scritta – ridondante – CAT. Chissà di chi era stato quell’abitino, sicuramente Kayuko non era il primo a indossarlo. Sarà arrivato dall’Italia insieme a centinaia di altre cose, che la generosità da cambio di stagione di noi italiani avrà riempito. Pagliaccetti, quindi, completini, magliettine, calzoncini, scarpette e altro, stivati in un container MSC rosso e spedito in Africa. Due mesi in attesa di essere sdoganato al porto di Dar es Salaam e poi via, verso Mbololo, per la gioia degli operatori di Furaha na tumaini e, di riflesso, di tanti Kayuko.

«Ehi, ciao – sussurrò Sandro, sentendosi un po’ sciocco. – Come stai?» Sapeva che non gli avrebbe risposto, primo perché era troppo piccolo per parlare e poi perché, casomai, l’avrebbe fatto in swahili. Il bimbo lo guardava, lo scrutava, gli toccava la faccia e la testa calva.

«Non avrà più di un anno – pensò – forse anche meno.»

Poi invece lesse il cartellino sopra il lettino che, con grafia incerta, recava le informazioni di base del bimbo: nome, cognome, villaggio, data di nascita. Fece un rapido calcolo e gli venne quasi un colpo. Kayuko aveva poco meno di due anni. Non parlava, non camminava, si esprimeva solo con lo sguardo eppure aveva quasi due anni. Automaticamente il pensiero gli andò a casa, dove due bambini, gemelli, figli di suo fratello maggiore stavano passando le vacanze estive. Duenni anche loro ma diversamente da Kayuko i due bimbi erano due vitelli: parlavano, camminavano, correvano, urlavano, litigavano; interpretavano, insomma, e anche con bravura, tutto il repertorio tipico dei bambini di due anni o giù di lì.

E allora? Perché il piccolo Kayuko aveva tutto l’aspetto di un neonato o poco più? Sandro ebbe l’immediata, infelice tentazione di addossare la colpa a quelli dell’orfanotrofio. Poi rifletté. E mentre si faceva afferrare l’indice destro, pensò che non c’era nessuno che aiutasse Kayuko a crescere, che lo stimolasse a muovere i primi passi; nessuno che lo facesse gattonare, che gli sillabasse le parole perché lui le ripetesse; nessuno che si prendesse veramente cura di lui. Yatima kabisa.

Arrivò Ornella. Sandro le presentò il suo nuovo amichetto, che intanto aveva preso in braccio.

«Guarda», disse l’uomo.

E la donna capì immediatamente che tra i due si era instaurata un’intesa particolare. Un feeling “da uomini”.

La sera la trascorsero alla casa della ONG, su al villaggio. Faceva freddo sull’altopiano quindi si doveva stare per forza dentro casa. Cena con carne e riso con fagioli, naturalmente. Dopocena con chitarra alla luce fioca delle lampade alimentate dal gruppo elettrogeno. In certi posti del mondo, la luce elettrica fa ancora parte di quel progresso che tarda ad arrivare. Sandro e Ornella erano i più vecchi della compagnia e un po’ forse si sentivano a disagio ma che importava, la mente era giù a Furaha na tumaini, dove il piccolo Kayuko a quell’ora stava sicuramente già dormendo. Sandro ne era rimasto totalmente preso e non riusciva a pensare ad altro. I suoi erano sentimenti di tenerezza per il piccolissimo essere umano incontrato poche ore prima. Ornella, invece, benché ne fosse un po’ più distaccata, si rendeva conto che il marito era stranamente impensierito. Quel bambino nero lo aveva sconvolto. Ce ne sono a centinaia di bambini, dovunque si vada, ma quello…

Al suono di un pezzo di Guccini – Incontro, nientemeno –, un’idea cominciò a prendere forma nella sua testa di Sandro, affollata di pensieri e sensazioni. Come tutti quelli che desideravano avere un capretto nero, o un bimbo africano, Sandro cominciò a considerare la possibilità che questo potesse accadere a lui. E alla moglie, ovviamente. Sposati da pochi anni, non avevano figli, quindi tanto vale prenderne uno dall’Africa, dall’amata Africa. Perchè no? Non ne fece subito parola alla moglie. Ma si ripromise di dirglielo l’indomani, qualora il pensiero si fosse riaffacciato alla sua mente.

E infatti si riaffacciò. Appena sveglio, nel torpore della fredda mattinata africana, Sandro smanettò nei ricordi del giorno precedente e ritrovò Kayuko. E dopo di lui ritrovò anche quel pensierino impertinente che lo aveva visitato la sera prima. Perché non fare in modo di adottarlo? Non aveva la minima idea di come fare però cominciò a valutarne la fattibilità. Occorreva recarsi in qualche ufficio. Sì, ma quale? Si doveva trovare il modo per avviare la pratica. Ok, ma come? Bisognava uscire carte. Certo, ma quali? A queste cose stava pensando quando Ornella lo vide, pensieroso, e gli chiese se stesse pensando al piccolo.

«Obviously», rispose Sandro, stranamente anglosassone.

«E stai pensando a qualcosa in particolare?»

«Of course». Era in preda ad anglofonia compulsiva, un modo per alleggerire il momento.

«…», lo fissò Ornella.

«No, mi chiedevo se…», era fortemente indeciso.

«…»

«Secondo te, potremmo pensare a prendere con noi Kayuko? Per sempre, dico.»

«Per sempre?»

«Mh mh…»

Ornella non rispose ma si rese conto che Sandro parlava sul serio, nonostante il sorrisino sardonico e la faccia di babbìo che si era messa. Quella discussione finì lì. Almeno per il momento.

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