lunedì, luglio 12, 2010

LA BELLA BANDIERA


Uno dei cimeli della mia famiglia è una bandiera dell’Italia. Un tricolore commissionato da mio fratello e me a un’anziana zia di mio padre, la mitica zia Pietrina (R.I.P.), e cucito durante i mondiali del Messico del 1970. È fatto con tre larghe bande verticali, sarà in tutto un metro per cinquanta, rossa bianca e verde ovviamente, con degli scampoli di un raso molto morbido e spesso, bello al tocco, che la zia, che era anche sarta o che comunque sapeva cucire come tutte le donne siciliane dell’epoca, ci fece forse più con pazienza che con amore. Mentre noi, palpitavamo per le gesta di Mazzola e Rivera, Albertosi e Bonimba, la zia cuciva la bandiera. A un certo punto ci telefonò per una delucidazione che poteva cambiare e non di poco la cosa: dalla parte del bastone, chiese, ci va il rosso o il verde? Il verde ci va, ci mancherebbe. In effetti a quell’epoca non si vendevano bandiere per strada nelle bancarelle per cui chi voleva fare il carosello con le macchine dopo la partita, chi voleva gioire per le vittorie della Nazionale, doveva provvedere a farsi fare una bandiera. E a volte se ne vedevano di veramente brutte, col rosso dalla parte dell’asta o con verdi di tonalità indecorose o con l’arancione invece del rosso. Tutte bandiere fatte da zie. Ma la nostra s’informò e la bandiera venne cucita bene. O ce n’erano di quelle che assemblavano tessuti male assortiti, il cotone e il raso, il nylon e il fresco di lana, il mistolino e il terital e ogni tanto compariva anche il fustagno. Un vero orrore. Invece nostra zia la fece tutta di raso e per Italia-Germania (4-3) avemmo la nostra bella bandiera setosa e frusciante. Fu inchiodata, inchiodata, dalla parte del verde, ad un manico di scopa ed energicamente sbandierata con passione sportiva. E civile. Orgogliosi eravamo della nostra bella bandiera e, lo dico, orgogliosi eravamo di essere italiani. Cantavamo l’inno di Mameli-Navaro, al balcone, con le sue parole strane, alcune a me ignote, a squarciagola. L’Italia sedesta, con l’elmo discipio che ci cingeva la testa, stringendoci accorte decisamente pronti alla morte. Qualcuna era anche schiava di Roma ma non ne comprendevo il perché. Tutti fratelli d’Italia eravamo, ma noi con la bandiera della zia. La quale fu riposta mestamente, la bandiera dico, avvolta in un paio di fogli del Giornale di Sicilia, dopo la notte boccheggiante di Ciudad de Mexico, dopo che Edson Arantes do Nascimiento detto Pelè, per non parlare di Jairzinho, Tostao, Gerson, Roberto Rivelino e gli altri, fecero strame dei nostri ragazzi. E i sei minuti di Rivera. Adesso dopo quarant’anni non sono più pronto alla morte neanche se l’Italia chiamò; sono ingrassato e ho perso i capelli, ma ho ancora la bandiera di mia zia. La esco ogni quattro anni, in occasione del mondiale. La guardo e mi scasso di ricordi: la tiro fuori dal finestrino della seicento di mio padre, e faccio delle sciarre con mio fratello per chi la deve sbandierare; sento le grida di mia madre perché ho colpito un lampadario e la rabbia di mio padre e i suoi improperi a Ferruccio Valcareggi. Anche lui, mio padre, cittì della Nazionale come tutti gli Italiani. Ogni quattro anni la appendo al balcone di casa dei miei ad Agrigento, i miei fratelli sono andati via, il bianco è ormai avorio e anche il verde e il rosso non se la passano benissimo. La faccio garrire un po’ al vento con la speranza che si vinca qualcosa.