martedì, settembre 30, 2008

CINE GARDEN (IN MEMORIAM)

A quei tempi, da bambini, cioè, avevamo un amico della nostra età, ragazzo simpatico, da noi molto invidiato per un solo semplicissimo motivo: era il figlio della maschera del cinema, il Cine Garden. Luogo che a Girgenti ha dato il nome a tutta la zona nella quale si trovava (‘a strata d’o Garden, ‘a scinnuta d’o Garden, ‘a scola d’o Garden, etc…), zona che tuttora viene chiamata con questo stesso nome. Per cui il nostro amico aveva accesso illimitato al magico mondo del grande schermo, poteva entrare e uscire a gratis. Certo se ci pensi ora a distanza di uno schifio di anni la cosa fa ridere, fare la maschera al cinema non è esattamente uno di quei lavori al top dei sogni dell’italiano medio, e lo dico io che sono il più medio tra gli italiani. Però a quei tempi e per la nostra mentalità di bambini ad avere la possibilità di entrare perpetuamente gratis al Cine Garden c’era di che rodersi tranquillamente il fegato. E parte del pancreas.
Soprattutto se si tiene conto della programmazione del Garden, il cui piatto forte erano i film di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, famosi anche, ma non slo, per le parodie di celebri film come “Indovina chi viene a merenda”, “Paolo il freddo”, “Il bello, il brutto e il cretino”. Noi andavamo al Garden, io e i miei fratelli, a vedere Franco e Ciccio e tra il primo e il secondo tempo ci compravamo i bastoncini salati o l’ascaretto. Eravamo ghiotti di Franco e Ciccio, diciamo in particolare di Franco, ed ogni film era atteso come un evento imperdibile.
Al Garden davano anche i celebri filmoni americani. Ricordo che mio padre mi portò a vedere “Quo vadis?” e “Ben Hur”, di cui ovviamente ricordo bene la scena della corsa delle bighe, che quando si accostavano tra di loro i mozzi delle ruote facevano scintille; e “Il pianeta delle scimmie”, al finale del quale piansi piano piano di commozione sperando che mio padre non se n’accorgesse. Mio padre ovviamente se ne accorse. Oppure ancora facevano i film di Maciste, Ursus, Spartacus, Ercole, i forzuti dello schermo, gente che piegava le sbarre delle prigioni, abbatteva templi a spallate, rapiva belle donne ma a fin di bene.
Al Garden davano anche spaghetti-western, roba comica, tipo “Lo chiamavano Trinità”, “Continuavano a chiamarlo Trinità”, “Arrivano Joe e Margherito”; o western veri e propri, tipo “Dio perdona… io no!” o “Hai chiuso ragazzo, c’è Sabata” (che un tipo invece disse che davano “Hai chiuso ragazzo, è sabato”) e varia altra roba. Poi fecero anche la saga intera dei 5 matti – credo fossero francesi – “5 matti allo stadio” o “5 matti vanno in guerra”, ecc… E il sergente Rompiglioni e il colonnello Buttiglione chi se li ricorda?
Questo fino ai primi anni settanta, dopodiché il Garden cominciò a dare tutta la filmografia di Buddispenzer e Terenzill – riporto la pronunzia esatta – tipo “Altrimenti ci arrabbiamo” (quello con la dune buggy e la scena del coro) o “Anche gli angeli mangiano fagioli”. I polizieschi di serie B con Maurizio Merli e Luc Merenda, fai conto “Milano violenta”, “Roma a mano armata”, “Napoli si ribella”, ecc… Oltre, naturalmente ai film di kung-fu, che ci facevano uscire dal cinema che sembravamo tanti Brusilì (sempre con la pronunzia originale): “Dalla Cina con furore”, “L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente”. Poi il Garden scivolò lentamente nel genere del filmetto scollacciato che ebbe in Alvaro Vitali il suo mentore, in Edwige Fenech la sua musa e nel buco della serratura il suo osservatorio privilegiato: “La professoressa di lingue”, “La dottoressa del distretto militare”, “L’insegnante balla con tutta la classe”, eccetera eccetera eccetera.
Infine il Cine Garden, il glorioso Garden, virò decisamente verso il porno, i firmi di pilu, entrando nell’immaginario collettivo agrigentino come unica meta dei cultori – e sì che ce n’erano – del genere a luci rosse. Splendide le scene di rispettabili professionisti agrigentini che uscivano la sera dal Garden con fare circospetto o disinvolto.
E infatti sentite questa. Un pomeriggio di questi, fine anni ’70, io e altri tre o quattro compagnetti di scuola del liceo andammo al Garden a vedere un firmi di pilu, di cui adesso, e me ne dolgo, non ricordo il titolo e dentro il cinema, accese le luci, vedemmo un altro nostro compagno. Era uno che a scuola era piuttosto bravo anzi era bravo forte e godeva di un elevato credito presso la professoressa d’italiano. Ovviamente dentro al cinema lo chiamammo a gran voce. L’indomani questo compagno, maledetto, sbolognò la cosa alla professoressa in termini di: “ieri sono andato al Garden a vedere un film pornografico, affinché mi serva come esperienza di vita perché nella vita bisogna fare anche di queste esperienze per capire dove può arrivare la perversione dell’uomo, etc…”. Mi venisse un colpo se non le disse tutte ‘ste minghiate. La professoressa lo stava ad ascoltare in mistica ebbrezza, in rapimento estatico tipo Bernadette o i tre pastorelli in Cova d’Iria, e si riprese solo quando la carogna le spifferò che alla fine del primo tempo, quando avevano acceso le luci, aveva incontrato me e gli altri, che detto tra di noi, di credito presso la professoressa d’italiano ne godevamo un po’ pochino. Al che lei ci guardò come si guardano dei debosciati e comunque a noi la faccia era già caduta a terra da un pezzo.
Il Cine Garden, a metà degli anni novanta del ‘900, dopo un velleitario tentativo di ripresa con una programmazione normale, chiuse definitivamente i battenti, dopo decenni di onorata carriera, accompagnato da un commosso, silenzioso applauso e dalla riconoscenza sempiterna degli agrigentini.

sabato, settembre 27, 2008

Que pasò hoy?

Castel Volturno (Ce): Ieri c’è stato l’arresto di alcuni camorristi del clan dei casalesi. Uno di questi, trascinato a forza nella macchina della polizia, chiedeva agli agenti di fargli (mi pare) dare l’ultimo bacio a suo figlio. Al rifiuto dei poliziotti, l’uomo continuava a ripetere: “è una cattiveria”. E a dirlo era uno che di mestiere spara in faccia alle persone.

Vittoria (Rg): È più facile che si senta che in questo o in quel paese (o città) italiano vengano emesse ordinanze balzane, fai conto dare 300 euro di multa a un mendicante – il quale dovrà ulteriormente mendicare per pagarla – o vietare assembramenti di tre persone nel centro città. Ma quando si sente che in una città l’acqua viene dichiarata bene comune e viene soppressa qualunque forma di privatizzazione, allora… Mi ritorna quel vecchio vizio della speranza. Meno male che poi vedo Gasparri.

Roma: Presentata la riforma della scuola della ministra Gelmini. I sismografi hanno registrato degli strani movimenti tellurici, come di rivoltamento, intorno alla tomba di Giovanni Gentile.

venerdì, settembre 26, 2008

LETTERA APERTA AI MISSIONARI

Pubblico qui, e inauguro così la rubrica “Parrinazzi”, una lettera di p. Fausto Marinetti, un prete solidamente ancorato alla realtà di ogni giorno, quella fatta più di lacrime, sudore e sangue che non di lustrini e paillettes. I parrinazzi questo sono: preti che seguono il vangelo di Cristo più che quello di papi e vescovi; si sporcano le mani per la strada rifuggendo le calde atmosfere delle sagrestie; preferiscono il campo nomadi alla curia. Il primo parrinazzo è padre Fausto Marinetti, appunto. L'incontro con don Zeno Saltini (fondatore della Comunità di Nomadelfia) gli cambia la vita. Imbevuto del suo amore per i popoli-fratelli s'immerge nelle stigmate del nordest brasiliano. Denuncia le cause dell'ingiustizia strutturale con libri-testimonianza (L'olocausto degli empobrecidos, Lettere dalla periferia della storia). Rientra in Italia nel 2000 e si dedica all'approfondimento e diffusione della "profezia" del terzo mondo. Su questo blog lo vedrete altre volte; ad esempio posterò una sua lettera intitolata “Caro Dio” (già dal titolo…) e la sua Lettera al papa dal Brasile. Come posterò anche altri pezzi di altri parrinazzi, gente molto seria e impegnata e che per questo nella Chiesa conta molto. Quanto il due di coppe, esattamente.
***
Cari amici,
a chi altri, se non a voi, testimoni della "vita abbondante", confideremo il tormento dell'anima?
Il Mediterraneo sta diventando la tomba di tanti fratelli, i quali, pur di non lasciarsi mangiare dalla denutrizione, affrontano la morte in mare. Più di 20mila l'anno intraprendono il "viaggio della speranza", con un pedaggio annuale di mille vittime. Morte o "uccise" dall'ignavia generale?
Si parla di "ecatombe di disperati", di "derubati della speranza" da parte dell'economia globale. I pescatori sono stanchi di pescare "uomini tonno", "donne tonno". E perfino "bambini tonno". Nel "mare nostrum", l'acquasantiera della civiltà cristiana? O fossa comune, nella quale abbiamo seppellito giustizia e solidarietà umane, prima che cristiane?
Ma dove sono i padri universali, i prelati, seguaci di colui che è venuto perché tutti siano salvi dalla fame, dalla schiavitù del bisogno? Troppo intenti a celebrare le glorie cattoliche a Rimini? A quando un "meeting" per i popoli alla deriva, per i clandestini di tutte le latitudini?
Quale "amicizia dei popoli" celebrate? Vi preme il "popolo delle (cosiddette) libertà", perché vi elargisce sovvenzioni (scuole, oratori, cappellani, cooperative cielline), favori, mantenendovi alla sua greppia?
[Ah, Formigoni, Formigoni... attenzione a sbandierare modelli lombardi di sanità con la clinica dei dottor-Mengele! Ah, "Compagnia delle opere" con i prodigi alla Why-not...! Perché il vostro arcivescovo di Mosca non riferisce i risvolti dell'ecumenismo ciellino, che provoca l'ira degli ortodossi per proselitismo sleale, perché "avanza" a suon di dollari? E le conversioni del riso in India, le scuole cattoliche per le classi abbienti (altro che per i poveri), che innescano l'ira degli indù? Martiri? Quanti indios abbiamo martirizzato in nome di Cristo in America Latina e dintorni?]
E' lecito rispondere alle emergenze globali, con 12 carcerati modello? Basta la testimonianza di una sieropositiva per rispondere ai 40 milioni di aidetici destinati a morte sicura?
Interrogativi, che non sono un lusso cattolico, ma un tormento umano: si può assistere indifferenti, ignavi all'uccisione dei fratelli in umanità senza un sussulto di coscienza? Attribuiremo tutto, come sempre, al destino, alla sfortuna, alle avverse condizioni socio-economico-politiche-metereologiche?Al rimpallo delle responsabilità da una costa mediterranea all'altra? Ai facili alibi, all'impotenza generale, all'illegalità, allo stato di diritto? I Biffi ed i Maggiolini continueranno a dare man forte ai crociati padani, gridando all'invasione mussulmana? Alla minaccia ai valori cristiani? Ma il diritto alla vita non è né mussulmano né cristiano, vero?
Non insegnate nelle università e seminari che in "estrema necessità, tutto diventa comune"? La morale cattolica non legittima il "furto" quando ad uno è stato sottratto il minimo vitale, che gli spetta per diritto? Se vale per l'individuo, non deve valere, a maggior ragione, per un popolo? Non è loro diritto attraversare qualunque mare, affrontare qualsiasi tempesta di egoismi collettivi, di accumulo di capitali?
Ogni coscienza di cittadino del mondo (prima che di una chiesuola) deve sentirsi in dolo. Come pesano quei mille "tonnati" all'anno! Come scaricarli, come giustificarsi?
Accoglienza, diritto d'asilo, protezione umanitaria? Basta girovagare su You tube per vedere le tragedie che si consumano nei vari CPT disseminati nei paesi mediterranei! Centri di detenzione, prigioni? Per delitto di clandestinità. Ma non apparteniamo tutti alla stessa patria dell'umanità?
Non si può minimizzare, certo. Ma si può illudersi di affrontare tale emergenza con la solita politica dei cerotti, del buonismo caritativo?
Acque territoriali? Codici di navigazione? Competenze portuali? E' evidente che il diritto delle nazioni è insufficiente per produrre soluzioni globali. L'invasione dei clandestini non può essere gestita con le normative dei razzismi patriottici...
Nuovi scenari, nuove emergenze.
Il popolo dei clandestini è forse una nuova "nazione", che reclama il diritto minimo alla vita, al lavoro, alla salute? "Se non c'è da vivere in Africa o in Asia, non abbiamo forse il diritto di andarcelo a conquistare dove è possibile? Voi, popoli colonizzatori, non avete fondato l'ideologia della conquista sul diritto naturale di "un posto al sole"? Con la benedizione del papato, con le indulgenze, con i missionari al seguito?".
"Ma noi non possiamo ricevere tutti quanti! Se la zattera del benessere non può alloggiare più di 800 milioni di fortunati che cosa possiamo fare?".
Lo sanno anche i sassi che si spendono 17 miliardi di euro per mantenere cane e gatti primo-mondiali, mentre ne bastano 13 per sfamare i popoli denutriti. Che ciò che spreca un americano è sufficiente per mantenere 5 famiglie africane.
E se quanto si spende per "difendersi" dagli straccioni, per sussidiare l'agricoltura dei popoli arricchiti, per mantenere uno standard di vita criminale, per produrre armi e beni superflui, ecc. fosse investito nei loro paesi d'origine? E se andassimo oltre alla cultura dell'assistenza e cominciassimo a coniugare OPERE DI GIUSTIZIA GLOBALE?
Suvvia! Che aspetta la cristianità a devolvere parte dei suoi beni, delle sue case affittate, dei suoi conventi vuoti come segno/sacramento di giustizia? Quale responsabilità storica non farlo?
Quelle migliaia di vittime della nostra ignavia non sono più là, sotto il mare nostrum, sono qui, ci circolano nell'anima. Come sale, fermento, fuoco per accendere passioni di nuova umanità.

Fausto Marinetti

giovedì, settembre 25, 2008

Que pasò hoy?

Vaticano: Vi è stata una presa di posizione piuttosto dura da parte del segretario del Pontificio Consiglio per i Migranti e gli Itineranti sulle politiche dell’immigrazione del governo italiano. In particolare, il buon Mons. Marchetto se l’è presa con le norme restrittive in materia di asilo e ricongiungimenti familiari. Dice che: "Tradisce i diritti umani e gioca al ribasso". I diritti umani? Ma monsignore, proprio Berlusconi, amico di Putin, di Gheddafi, di gente che i diritti umani sa, eccome, che cosa siano. Su, monsignore, faccia il bravo. Ma come, nel maggio scorso il papa disse di provare “gioia e soddisfazione per il nuovo corso della politica italiana” e adesso lei salta fuori con questa sparata qua. Boh?
Scherzi a parte, sono contento di questa sortita della Chiesa. La avvicina alla gente, soprattutto a quella che soffre. Del resto… “Ero forestiero e mi avete ospitato” (Matteo 25, 36). No?

Roma: Lite Maroni-La Russa sulla camorra. L’altroieri erano andati assieme a fare un giro in aeroplanino militare ed erano felici come due scolari in gita (foto). Ieri la tragedia. Il leghista sostiene che c’è in atto una vera e propria offensiva della criminalità organizzata, mentre il fasc…, ehm, il ministro di AN dice che è una guerra tra bande. Il primo dice che siamo in presenza di terrorismo, il suo collega risponde di no. Allora Maroni ha telefonato a Berlusconi per accusare La Russa. Subito dopo, La Russa ha detto a Maroni: “e io ora chiamo a mio cuggino!”.

mercoledì, settembre 24, 2008

PUTTANATE




















A sinistra prostitute per le vie di Roma; a destra due dive del Bagaglino, programma di punta delle televisioni del Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. O forse a sinistra le ragazze di Silvio e a destra le pulle. (Lo dico sempre che mi devo prendere un appunto su un pizzino se no faccio di ‘ste figure.) Comunque, a due di queste, quelle vestite in maniera sconcia, sarà vietato da ora in poi andare in giro abbigliate in questo modo. Perché i bambini guardano e non è bello far vedere loro certe cose. Le altre due, invece, quelle caste, potranno continuare a impazzare nel video e dare ai nostri bambini la certezza che stanno crescendo nel migliore dei mondi possibili. Senza contare che dalla tv possono essere viste da più bambini contemporaneamente. Le signorine di sinistra, invece, dovranno andare in appartamento, così, oltre al fatto che non si faranno più vedere in giro, avranno anche la possibilità di godere degli spettacolini nient’affatto male delle altre due, quelle di destra. O viceversa. Per non dire del fatto che i magnaccia avranno finalmente la possibilità di togliersi dalla strada, tra tanti pericoli con tutti ‘sti extracomunitari, senza contare lo smog. Nessuno può capire quant’è diventata dura la vita del pappone in Italia. Era ora che questo governo prendesse una decisione chiara rispetto a questo problema. Meno male che Silvio c’è. E anche Mara.

RAZZE A CONFRONTO



Razze, inferiore (sx) e superiore (dx), a confronto.

martedì, settembre 23, 2008

IN MEMORIA DI ABID MOHAMED, DETTO MARADONA

A fine agosto, a Girgenti, c'è stata una manifestazione dedicata ad Abid Mohamed. Chi era Abid Mohamed? Se avete un po' di pazienza leggete questo pezzo che ho scritto qualche anno fa.

***

Sarà stato l’inizio dell’estate 2003 quando a Girgenti accadde quell’episodio che tutti ancora ricordano. Un giovane uomo proveniente dalla Tunisia, Abid Mohamed detto Maradona, in uno slancio di generosità non ci pensò mica due volte e si buttò in mare per salvare due bambini che stavano per affogare. E come a volte accade in questi casi, perse la vita, sopraffatto dalle onde. Ci fu una grande eco in tutta la città, la notizia fu riportata anche su scala nazionale, e non vi fu chi non indicasse nel povero nordafricano un eroe. La retorica scorse a secchiate ma la commozione fu vera e giusta. Il comune di Favara in tempo record, dimostrando grande senso di civiltà, si prodigò per tributare i dovuti onori ad Abid, al punto da dedicargli un piccolo parco giochi, nel luogo vicino alla tragedia. Lo chiamarono “Il giardino di Abid”, affinché rimanesse nella memoria di tutti il nome dell’uomo che per salvare degli altri uomini sfidò il mare. E perse.
Il comune di Girgenti, invece, come al solito brillò per la sua assenza. Non organizzò alcun momento di commemorazione pubblica, nonostante Abid Mohamed detto Maradona vivesse nella nostra città da una ventina d’anni. Un consigliere comunale propose di intitolare una via al poveruomo ma fu subito ripreso e zittito con la motivazione che è necessario che passino almeno dieci anni dalla morte della persona perché gli si possa dedicare una via. E no, perché noi alle forme ci teniamo!
Che poi, in realtà è ingeneroso da parte mia dire che i nostri amministratori furono affatto assenti. Furono visti, eccome, alla cerimonia di intitolazione del giardino. E furono visti in televisione, ovviamente. Stavano tutti lì in prima fila, belli incravattati, in favore di telecamera, coi capelli pettinati e cotonati come sempre. Seduti accanto ai familiari di Abid, mostravano puro cordoglio mentre l’operatore faceva scorrere la macchina sui loro volti, compunti per la tragica occasione. Qualcuno, mi pare, fu pure intervistato e si condolse alquanto. C’erano tutti e rappresentavano tutti i partiti del centro-destra. C’era l’UDC, c’era Forza Italia, c’era persino Alleanza Nazionale. E c’erano anche alcuni del centro-sinistra. Mancava solo la Lega, mannaggia!, per ovvi motivi. Gli altri erano tutti presenti per commemorare il povero sfortunato Abid Mohamed detto Maradona.
E c’era pure un senatore, Calogero Sodano, già sindaco di Girgenti. Nomino lui solo, nessuno se ne abbia a male, perché tra tutti è l’unico che ha avuto il raro privilegio di votare la legge 189/02 sull’immigrazione: la Bossi-Fini. Che è una legge che si occupa di tutti i Mohamed. Quelli vivi, però, non quelli morti. E se ne occupa senza visi di circostanza, considerandoli solamente come un problema, da affrontare e sconfiggere, un problema di ordine pubblico, alla faccia della solidarietà e dei giardinetti pubblici. Del resto cosa ci si può aspettare da una legge sull’immigrazione fatta da Bossi e Fini: sarebbe come far fare una legge sulla nutella a due diabetici, no?
È una legge che nega agli extracomunitari, o bingo bongo, come li chiama un Ministro della Repubblica Italiana, la possibilità di venire liberamente qui in Italia, nel “nostro” paese, anche se sfuggono alla fame, alla miseria, alle persecuzioni politiche, ai disastri ambientali e alla guerra. E del resto non è che ci possiamo fare carico di tutti i problemi del mondo, no? Per cui diamo una bella chiavardata alle frontiere e non se parla più.
La Bossi-Fini è la bella legge di chi ammette che possano tranquillamente circolare i flussi economici e finanziari, le merci e i soldini, ma non gli uomini. Quelli no. Quelli, gli uomini cioè, ma anche le donne (a volte incinte), i vecchi e i bambini, devono sottoporsi a pietosi viaggi, organizzati da squallidi personaggi senza scrupoli. Attraversano il deserto a bordo di camion a pezzi e poi il Mediterraneo stipati a decine su barconi scassati col rischio di finire tra le onde. E molti di loro ci sono già finiti, e altri ancora ci finiranno, nel “nostro” mare. Oppure si mettono nelle mani di camionisti disinvolti, che li portano attraverso le frontiere e li lasciano in Italia. Ma non sempre va bene. Come non andò bene a quel sedicenne afghano trovato sepolto sotto una valanga di angurie. Accanto a lui un panino e una bottiglietta d’acqua. “Ma chi glielo fa fare, lo sanno che qui non si può venire, no? Lo sanno che rischiano la morte in mare”. Eh, sì, lo sanno (anche se non ne sarei sicurissimo), e intanto con la faccia di bronzo che si ritrovano continuano a venire qui. Da noi.
Eppure, nonostante tutto, nonostante i buoni propositi per fermare questo esodo, la bellissima Bossi-Fini da questo punto di vista si è rivelata decisamente un fallimento. E questo perché non basta una legge, quantunque ottima e abbondante come questa, a convincere le persone che sono nel bisogno a non tentare la fuga. Perché sanno che l’unica possibilità per riuscire a dare una speranza a se stessi e ai propri figli, l’unico modo per sfuggire alle persecuzioni di una guerra dimenticata da tutti, è saltare su una di quelle bagnarole e tentare il viaggio. Ci salterei anch’io sulla bagnarola, se ne fossi spinto dal bisogno estremo. E anche Bossi e Fini ci salterebbero. Forse.
È una legge che prende gli immigrati e li butta dentro i Centri di Permanenza Temporanea, i “nostri” CPT, quelli che qualcuno ogni tanto chiama “centri di accoglienza”. Si risentono tutti se li chiamiamo lager, anche quelli del centro-sinistra, che li hanno inventati. Fatto sta che si prendono ‘sti migranti, dicevo, si buttano dentro ‘sti bei posticini e li si costringe a stare due mesi lì dentro, dietro le sbarre, rinchiusi come se avessero commesso chissà quale reato e invece non hanno commesso nulla. Rinchiusi, tutti insieme appassionatamente, nordafricani ed esteuropei, sudamericani e orientali e africani neri. Gente con culture, religioni e stili di vita diversi, tutti costretti a convivere nel poco spazio ad essi concesso e dove spesso a causa della promiscuità scoppiano risse, rivolte e disordini vari, sedati gagliardamente dalla Polizia o misericordiosamente dagli operatori degli enti gestori, con manganelli o psicofarmaci. Ma sempre totalmente ignorati da giornali e televisioni.
Tempo fa il mitico Bossi, l’Umbertone a noi molto caro, disse che gli immigrati devono essere considerati più o meno come delle merci. E lì imbarazzo e indignazione come se piovesse, soprattutto nella sua parte politica. Come quando disse che per le carrette del mare ci vorrebbero i cannoni della Marina. Ci si sfidava nella gara del come-si-permette, e non ci si accorgeva che era tutta ipocrisia e della peggiore risma. Eh sì, perché la verità è che in Italia le merci sono trattate molto meglio. Esse viaggiano su comodissime navi cargo che non le butti giù neanche con le bombe. Le merci non sono costrette a raggiungere nessun porto della Libia o della Tunisia, a meno che non partano da lì, e non devono pagare alcun pedaggio o alcun biglietto per partire. Salpano senza problemi, attraversano i mari sin dai posti più lontani del mondo e arrivano in totale sicurezza nei nostri porti. Se sono deteriorabili viaggiano in ambienti refrigerati, o riscaldati, affinché rimangano intatte e non deperiscano. Al loro arrivo passano tutte, positivamente, i controlli di frontiera; tutt’al più vengono annusate da qualche cane antidroga ma non vengono maltrattate, anzi vengono accolte dai compratori e portate nei magazzini, non in luoghi squallidi e maleodoranti. Magari i migranti fossero trattati come merci!
La Bossi-Fini è la legge di uno stato, il “nostro”, che espelle ogni giorno decine di richiedenti-asilo, gente del Congo, del Sudan, della Liberia, in virtù di colloqui approssimativi di cinque-dieci minuti davanti a una commissione, con traduttori superficiali e imprecisi, negando loro un diritto sacrosanto, simpaticamente sancito dalla nostra Costituzione, e ricacciandoli nei loro paesi di provenienza, laddove saranno esposti alla prospettiva certa di fare la fame e di essere perseguitati e a quella probabile di essere uccisi.
È la legge per tutti i Mohamed, quelli vivi, però, quelli per cui né Calogero Sodano né i suoi compagnucci faranno mai dei musi lunghi. Anzi. Perché è la legge di uno stato democratico, civile e cristiano. Il “nostro” stato.
***
Conobbi tanti anni fa Abid Mohamed detto Maradona. Lo conobbi in una maniera strana, nel giorno del battesimo del suo primo figlio. Allora a Girgenti non c’erano ancora molti stranieri, figurarsi se battezzavano i figli con rito cattolico. Ma la moglie di Abid era italiana e cattolica, per questo volle far battezzare il figlio. Io e altri amici eravamo nel gruppo giovanile della parrocchia dove si fece la cerimonia, e anzi ricordo che animammo la messa coi canti e le chitarre. E ricordo quest’uomo completamente spaesato che non rispondeva alle sollecitazioni della liturgia ma la seguiva compostamente pur non capendone un’acca. Abbozzava segni di croce involontariamente ridicoli e si alzava e sedeva solo perché tutti lo facevano. Ebbe un momento di sconcerto al segno della pace, quando tutti si dettero la mano. Non ne capì il perché ma si ritrovò a stringere mani sconosciute. All’inizio il prete chiese il nome del bambino e si sentì rispondere con un nome arabo, che non ricordo, la qual cosa lo indispettì parecchio. Infatti al momento della litania dei santi, dopo aver nominato tutti i “nostri” santi, tenne a precisare che non esisteva un santo col nome del bambino e anzi chiese ai genitori come mai non gli avessero imposto un nome italiano. Beati noi che abbiamo i santi!
Da allora in poi ogni volta che ci incontravamo ci salutavamo. Lui era basso, tarchiato, scuro di pelle e con un collo taurino. Aveva un testa piena di riccioli neri. Come un vero siciliano.
Abid Mohamed detto Maradona non leggeva il Vangelo. Certo, non posso escluderlo ma immagino non lo leggesse. Per cui probabilmente non conosceva quella frase che dice che non c’è Amore più grande di chi dà la propria vita per il suo prossimo. Non la poteva conoscere, era musulmano. Eppure l’ha messa in pratica ugualmente.

lunedì, settembre 22, 2008

Perfect pictures for an imperfect world



C'è questo bellissimo video su YouTube che vi invito a guardare. Dura poco - 38 secondi - ed è dannatamente triste. Ma è bello forte. Vedetevelo!

http://www.youtube.com/watch?v=lvLHYtU12zc

Notte.

Que pasò hoy?

Milano: Biscotti davanti al bar dove è stato ucciso Abba. Pare che mentre lo picchiavano a morte, i due aggressori continuassero a dargli dello “sporco negro”. Ma tutti fanno a gara a dire che il razzismo non c’entra. E infatti anche secondo me non c’entra. C’entra, però, la cultura del “sei nel nostro territorio”, che ormai impera in Italia. L’altro giorno a Roma è stato aggredito un pensionato, sol perché si trovava in un posto che i suoi aggressori, ragazzi della Roma bene, definivano loro. Non si contano più le aggressioni a ragazzi di centri sociali o di sinistra in generale (non perché non ne parla la tv vuol dire che non accadano); così come gli attacchi agli omosessuali, rei di passeggiare in luoghi a loro off limits; per non parlare delle spedizioni punitive contro immigrati.
È la cultura della ronda.
E allora ecco anche i miei biscotti.


Trapani: Giovanissimo marocchino ridotto in schiavitù, costretto a drogarsi, a spacciare e a compiere rapine, denuncia i suoi aguzzini. In questa settimana c’è stato l’agguato di Castel Volturno, in cui cinque africani – e un italiano – hanno perso la vita; due badanti ucraine sono state uccise dall’ex fidanzato di una delle due; per non parlare delle migliaia di immigrati in mano ai racket vari, al caporalato e a datori di lavoro che li sfruttano e li sottopongono a lavori pesanti e senza tutele. C’è da aver paura a vivere in Italia da immigrati.

Cina: Certo che allo schifo del capitalismo moderno non c’è mai fine. Quattro bambini sono già morti mentre salgono a 53.000 quelli rimasti intossicati per aver consumato il latte in polvere contaminato da melamina, sostanza nociva comunemente utilizzata per la produzione di plastiche, adesivi e vernici. Mescolata al latte, fa sembrare più alto il valore proteico ma provoca calcoli e insufficienza renale grave, con danni permanenti e a volte mortali. La Nestlè si chiama fuori. Loro preferiscono farli morire in Africa, i bambini. Date un’occhiata qua, va’.
http://www.ribn.it/

domenica, settembre 21, 2008

THOMAS SANKARA, UN EROE DIVERSO



L’assassinio a Milano di Abdul, un ragazzo italiano ma originario del Burkina Faso, mi porta alla mente la figura di un grandissimo africano, anch'egli burkinabé: Thomas Sankara. Ecco la sua biografia, tratta dal sito internet “Missionari d’Africa”, dei Padri Bianchi.

***

Thomas Sankara è stato l’eroe della rivoluzione popolare che nel 1983 cambiò i destini dell’Alto Volta, un povero paese saheliano, poi ribattezzato col nome di Burkina Faso (nella lingua locale significa “terra degli uomini liberi e integri”). Salì al potere giovanissimo ma dimostrò di saper governare con saggezza, ispirato da nobili ideali: moralizzò la politica, aiutò i contadini, lottò contro la povertà. E lasciò un segno indelebile nell’animo di milioni di persone.
Giovane ufficiale dell’esercito, ambizioso e determinato, Sankara si impadronì del potere con un golpe. All’età di soli 34 anni si trovò a governare una nazione assediata dalla desertificazione e dalla carestia, che da decenni conviveva con colpi di stato, scioperi selvaggi e una miseria dilagante. In soli quattro anni di governo, Sankara riuscì a realizzare riforme sociali epocali e cambiò il volto del Paese.
Sankara era un idealista ma pure un uomo di azione, un insaziabile stacanovista. Si dedicava solo a programmi ambiziosi e intensivi: in meno di tre settimane, il suo Governo riuscì a far vaccinare contro il morbillo, la meningite e la febbre gialla il 60% dei bambini del paese (secondo l’Unicef fu una delle più belle imprese mai realizzate in Africa). In ogni villaggio Sankara fece costruire nuove scuole (in quattro anni la percentuale di bambini scolarizzati del Burkina salì di un terzo), ambulatori, piccoli dispensari e magazzini per i raccolti.
Molta gente si offriva volontaria per realizzare i programmi della rivoluzione, ma Sankara non esitava ad usare le maniere forti pur di centrare i suoi obiettivi: obbligò i capi-villaggio a seguire corsi di formazione per infermieri di primo soccorso. Impose una campagna di alfabetizzazione rapida nelle campagne (tutti, per 50 giorni consecutivi, furono costretti a frequentare la scuola) ed arrivò persino a promulgare l’obbligo di partecipare ad un’ora di ginnastica collettiva tutti i giovedì pomeriggio.
Senza peli sulla lingua
Sankara gestì il potere in modo decisamente poco convenzionale. Cercò di ridare vigore all’arretrata economia rurale, nella speranza di far raggiungere al Paese l’autosufficienza alimentare. Ma rifiutò polemicamente gli aiuti internazionali e le politiche di aggiustamento promosse dal Fondo monetario. «L’Africa si salverà da sola. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno sta nella nostra terra e nelle nostre mani» usava ripetere nei suoi comizi.
Non contento, Sankara scosse le cancellerie occidentali facendosi promotore di una campagna contro il debito estero contratto dai paesi africani: «Dopo essere stati schiavi, siamo ora schiavi finanziari. Dobbiamo avere il coraggio di dire ai creditori: siete voi ad avere ancora dei debiti, tutto il sangue preso all’Africa». La Francia, in particolare, temeva che il proselitismo di questo giovane rivoluzionario potesse contribuire all’erosione dell’influenza politica ed economica di Parigi in Africa.
Un presidente in bicicletta
La diplomazia e la realpolitik non erano il suo forte ma, da umile e populista qual era, viveva per primo il modello di vita proposto alla sua gente. Occorreva che tutti facessero dei sacrifici e lui non si tirava indietro. Rifiutava di vivere al di sopra delle possibilità della gente comune; per le vie della capitale Ouagadougou lo si vedeva spesso girare in bicicletta. Per abbattere i privilegi della classe dirigente fece vendere le auto blu ministeriali, sostituendole con semplici utilitarie (il presidente guidava personalmente una Renault 5). Nel 1985 licenziò gran parte dei membri del suo gabinetto e li inviò a lavorare nelle cooperative agricole, nello stesso anno decise un taglio del 15% dei salari del governo. Impose una radicale politica di austerità a tutti i funzionari pubblici, compreso a se stesso.
La frattura col passato
In effetti la rivoluzione richiedeva sacrifici. Tutti erano coinvolti nei progetti contro la desertificazione: ogni straniero che arrivava in Burkina era obbligato a piantare un albero. Studenti, operai, ministri e persino diplomatici europei furono “inviati” a dare una mano per la costruzione della ferrovia che avrebbe dovuto collegare la capitale Ouagadougou alla città di Tambao, dove si trovano ricchi giacimenti di manganese e di calcare.
Sankara era anche questo. Non tutti lo prendevano sul serio, soprattutto all’estero, ritenendolo ingenuo e sognatore. Gli oppositori politici lo accusavano di autoritarismo e di demagogia. Ma il suo fascino era contagioso: soprattutto i giovani vedevano in lui un nuovo leader, non assetato di potere, saggio e idealista. Sul piano sociale e culturale Sankara creò una frattura netta col passato. Si oppose fermamente a quella sorta di feudalesimo rurale che permetteva ai capi-villaggio di sfruttare i contadini. Puntò con forza sull’emancipazione delle donne. Si occupò di moralizzare la vita pubblica e lottò attivamente contro la prostituzione e la corruzione.
A livello economico perseguì una politica protezionistica. Quando non indossava l’uniforme militare, Sankara vestiva il tipico abito verde della fabbrica di tessuti Faso dan Fani, fatto col cotone ruvido burkinabé (era l’uniforme imposta ai funzionari). Anche il pane veniva in parte fatto con la farina di miglio perché il mais costava troppo e doveva essere importato. Certo non fu facile, ma in quattro anni il presidente cambiò il volto del Paese. E il Burkina Faso divenne fiero della propria diversità.
Ucciso dagli “amici” più cari
Thomas Sankara venne assassinato nel 1987 durante un colpo di stato organizzato da alcuni ufficiali dell’esercito, tutti vecchi amici del presidente. La nuova giunta militare venne guidata dal capitano Blaise Compaoré (l’attuale presidente del Burkina Faso), un tempo compagno di lotta di Sankara, che cercò invano di screditare l’immagine dell’ex leader con un’intensa propaganda destinata solo a far rimpiangere il precedente regime. Sotto il governo di Sankara l’economia del Burkina ritrovò vigore, i conti pubblici vennero gestiti con oculatezza e la corruzione fu ridotta a livelli bassissimi (un caso quasi unico in Africa). Tutti i principali indici della qualità della vita – mortalità infantile, età media, scolarizzazione, ecc. – migliorarono. Ma soprattutto la popolazione burkinabé sviluppò un genuino senso di patriottismo che permise di superare le divisioni tribali e di guardare al futuro con rinnovato ottimismo.

sabato, settembre 20, 2008

RAFFAELLA


Ragazzi, ma è vera la notizia che ho sentito: Raffaella Carrà torna in tv? Raffaella, la grande Raffaella Carrà. La nostra Raffaella. Ho amato Raffaella Carrà e credo di non essermene mai uscito. Lei è la televisione italiana. Lei è lo spettacolo italiano. Lei è l’Italia. E non conto minchiate. Perché, non è vero che lei è l’Italia? Non fu lei che spiegò a tutti quanti “come è bello far l’amore da Trieste in giù”, in una famosa sigla (Ma che sera – 1978), mentre alle spalle scorreva un filmato con tanti monumenti di città italiane, Tempio della Concordia compreso? Chi non se la ricorda?
Certo Carràmba è una gran cagata, non lo nego, ma cosa non è una cagata oggigiorno in tv? E poi poter rivedere la mitica Raffaella nel luogo che le è più congeniale, la tv, a me emoziona come un bambino. E sì, perché quando ero piccolo il sabato sera coincideva con l’apparizione in video della splendida Raffaella. Eravamo tutti innamorati da bambini di Raffaella Carrà. Il suo caschetto biondo, il suo ombelico, la sua risata franca… Ma soprattutto le sue gambe. Ballava benissimo con quelle gambe fasciate da calze nere. Ragazzi, roba da restarci secchi; ha turbato più di una notte della mia prepubertà. Forse ebbe un momento così così con Maga maghella, onestamente non tirava o comunque non ci interessava particolarmente, ma quando uscì con il Tuca-tuca tememmo di non farcela. A scuola commentavamo con la bava alla bocca.
Non c’era soubrette che poteva rivaleggiare con Raffaella. E sì che ce n’erano di belle. Lola Falana, per esempio, una panterona nera, con tanto di capelli afro, che credo fece una cosa sola in tv e poi è scomparsa dalla circolazione. A quanto pare si è fatta monaca. Forse ha capito che con Raffaella non ce la poteva fare. O Minnie Minoprio, una spumeggiante biondina che cantava “Quando mi dici così” col compassato Fred Bongusto e gli andava con le dita negli occhi. Oppure c’erano anche le Kessler, tanto di cappello. Ah, che tempi! Si diceva che erano troppo “svestite”. Al confronto di adesso erano veramente suore.
Chi non ricorda le sigle di Raffaella? “Ma che musica maestro”, ad esempio, o “Chissà se va”. Conoscevamo tutte le parole e le cantavamo a squarciagola. O no? E quell’altra, non mi ricordo il titolo, con una strana coreografia in cui Raffaella si metteva la mani davanti agli occhi, alle orecchie e alla bocca. Come si intitolava, non mi ricordo. E le Canzonissime no? Ce ne fu una con Corrado, se la memoria non m’inganna. Ricordo anche Milleluci, con Mina che la sopravanzava di due spanne. Lì non ci fece una gran figura, secondo me, perché Raffaella deve stare da sola e dominare la scena. Raffaella è unica.
Gli ultimi ricordi che ho di Raffaella sono di quando ero già all’università. Lei stava seduta su un divano con un’enorme burnìa piena di fagioli e la gente telefonava da casa per dire quanti erano. Una roba pazzesca, se ci pensi. Eppure anche allora ebbe un successo clamoroso. Poi fece anche qualche Fantastico, se non sbaglio. Poi l’ho un po’ persa di vista ma godo sempre nel vedere che è ancora sulla breccia, la grande Raffaella. Ma la fa ancora quella cosa, che si tira improvvisamente la testa all’indietro? Quella era una cosa spettacolare. Ah, Raffaella, Raffaella mia. Bentornata, cara.

venerdì, settembre 19, 2008

Manifesto degli scienziati antirazzisti 2008

Qualche giorno fa ho postato una cosettina su un libro di critica al razzismo. Oggi trovo questo appello di un gruppo di scienziati, non proprio stupidissimi. C'è pure la Levi Montalcini, quella alla quale Storace voleva regalare le stampelle. Avesse Storace un neurone della Levi Montalcini... Avesse Storace un neurone!
Non dimenticate di firmare l'appello.
***
I. Le razze umane non esistono. L’esistenza delle razze uma­ne è un’astrazione derivante da una cattiva interpretazione di piccole differenze fisiche fra persone, percepite dai nostri sensi, erroneamente associate a differenze “psicologiche” e interpreta­te sulla base di pregiudizi secolari. Queste astratte suddivisioni, basate sull’idea che gli umani formino gruppi biologicamente ed ereditariamente ben distinti, sono pure invenzioni da sempre utilizzate per classificare arbitrariamente uomini e donne in “mi­gliori” e “peggiori” e quindi discriminare questi ultimi (sempre i più deboli), dopo averli additati come la chiave di tutti i mali nei momenti di crisi.

II. L’umanità, non é fatta di grandi e piccole razze. È inve­ce, prima di tutto, una rete di persone collegate. È vero che gli esseri umani si aggregano in gruppi d’individui, comunità locali, etnie, nazioni, civiltà; ma questo non avviene in quanto hanno gli stessi geni ma perché condividono storie di vita, ideali e religioni, costumi e comportamenti, arti e stili di vita, ovvero culture. Le aggregazioni non sono mai rese stabili da DNA identici; al con­trario, sono soggette a profondi mutamenti storici: si formano, si trasformano, si mescolano, si frammentano e dissolvono con una rapidità incompatibile con i tempi richiesti da processi di selezione genetica.

III. Nella specie umana il concetto di razza non ha signifi­cato biologico. L’analisi dei DNA umani ha dimostrato che la variabilità genetica nelle nostra specie, oltre che minore di quella dei nostri “cugini” scimpanzé, gorilla e orangutan, è rappresenta­ta soprattutto da differenze fra persone della stessa popolazione, mentre le differenze fra popolazioni e fra continenti diversi sono piccole. I geni di due individui della stessa popolazione sono in media solo leggermente più simili fra loro di quelli di persone che vivono in continenti diversi. Proprio a causa di queste differenze ridotte fra popolazioni, neanche gli scienziati razzisti sono mai riusciti a definire di quante razze sia costituita la nostra specie, e hanno prodotto stime oscillanti fra le due e le duecento razze.

IV. È ormai più che assodato il carattere falso, costruito e pernicioso del mito nazista della identificazione con la “razza ariana”, coincidente con l’immagine di un popolo bellicoso, vin­citore, “puro” e “nobile”, con buona parte dell’Europa, dell’In­dia e dell’Asia centrale come patria, e una lingua in teoria alla base delle lingue indo-europee. Sotto il profilo storico risulta estremamente difficile identificare gli Arii o Ariani come un po­polo, e la nozione di famiglia linguistica indo-europea deriva da una classificazione convenzionale. I dati archeologici moderni in­dicano, al contrario, che l’Europa è stata popolata nel Paleolitico da una popolazione di origine africana da cui tutti discendiamo, a cui nel Neolitico si sono sovrapposti altri immigranti prove­nienti dal Vicino Oriente. L’origine degli Italiani attuali risale agli stessi immigrati africani e mediorientali che costituiscono tuttora il tessuto perennemente vivo dell’Europa. Nonostante la dram­matica originalità del razzismo fascista, si deve all’alleato nazista l’identificazione anche degli italiani con gli “ariani”.

V. È una leggenda che i sessanta milioni di italiani di oggi discendano da famiglie che abitano l’Italia da almeno un millennio. Gli stessi Romani hanno costruito il loro impero in­globando persone di diverse provenienze e dando loro lo status di cives romani. I fenomeni di meticciamento culturale e socia­le, che hanno caratterizzato l’intera storia della penisola, e a cui hanno partecipato non solo le popolazioni locali, ma anche greci, fenici, ebrei, africani, ispanici, oltre ai cosiddetti ”barbari”, han­no prodotto l’ibrido che chiamiamo cultura italiana. Per secoli gli italiani, anche se dispersi nel mondo e divisi in Italia in piccoli Stati, hanno continuato a identificarsi e ad essere identificati con questa cultura complessa e variegata, umanistica e scientifica.

VI. Non esiste una razza italiana ma esiste un popolo ita­liano. L’Italia come Nazione si é unificata solo nel 1860 e anco­ra adesso diversi milioni di italiani, in passato emigrati e spesso concentrati in città e quartieri stranieri, si dicono e sono tali. Una delle nostre maggiori ricchezze, é quella di avere mescolato tanti popoli e avere scambiato con loro culture proprio “incrocian­doci” fisicamente e culturalmente. Attribuire ad una inesisten­te “purezza del sangue” la “nobiltà” della “Nazione” significa ridurre alla omogeneità di una supposta componente biologica e agli abitanti dell’attuale territorio italiano, un patrimonio mille­nario ed esteso di culture.

VII. Il razzismo é contemporaneamente omicida e suicida. Gli Imperi sono diventati tali grazie alla convivenza di popoli e culture diverse, ma sono improvvisamente collassati quando si sono frammentati. Così é avvenuto e avviene nelle Nazioni con le guerre civili e quando, per arginare crisi le minoranze sono state prese come capri espiatori. Il razzismo é suicida perché non colpisce solo gli appartenenti a popoli diversi ma gli stessi che lo praticano. La tendenza all’odio indiscriminato che lo alimenta, si estende per contagio ideale ad ogni alterità esterna o estranea ri­spetto ad una definizione sempre più ristretta della “normalità”. Colpisce quelli che stanno “fuori dalle righe”, i “folli”, i “poveri di spirito”, i gay e le lesbiche, i poeti, gli artisti, gli scrittori alter­nativi, tutti coloro che non sono omologabili a tipologie uma­ne standard e che in realtà permettono all’umanità di cambiare continuamente e quindi di vivere. Qualsiasi sistema vivente resta tale, infatti, solo se é capace di cambiarsi e noi esseri umani cam­biamo sempre meno con i geni e sempre più con le invenzioni dei nostri “benevolmente disordinati” cervelli.

VIII. Il razzismo discrimina, nega i collegamenti, intrave­de minacce nei pensieri e nei comportamenti diversi. Per i difensori della razza italiana l’Africa appare come una paurosa minaccia e il Mediterraneo è il mare che nello stesso tempo se­para e unisce. Per questo i razzisti sostengono che non esiste una “comune razza mediterranea”. Per spingere più indietro l’Africa gli scienziati razzisti erigono una barriera contro “semiti” e “ca­miti”, con cui più facilmente si può entrare in contatto. La scien­za ha chiarito che non esiste una chiara distinzione genetica fra i Mediterranei d’Europa (Occidentali) da una parte gli Orientali e gli Africani dall’altra. Sono state assolutamente dimostrate, dal punto di vista paleontologico e da quello genetico, le teorie che sostengono l’origine africana dei popoli della terra e li compren­dono tutti in un’unica razza.

IX. Gli ebrei italiani sono contemporaneamente ebrei ed ita­liani. Gli ebrei, come tutti i popoli migranti ( nessuno é migrante per libera scelta ma molti lo sono per necessità) sono sparsi per il Mondo ed hanno fatto parte di diverse culture pur mantenendo contemporaneamente una loro identità di popolo e di religione. Così é successo ad esempio con gli Armeni, con gli stessi italiani emigranti e così sta succedendo con i migranti di ora: africani, fi­lippini, cinesi, arabi dei diversi Paesi , popoli appartenenti all’Est europeo o al Sud America ecc. Tutti questi popoli hanno avuto la dolorosa necessità di dover migrare ma anche la fortuna, nei casi migliori, di arricchirsi unendo la loro cultura a quella degli ospitanti, arricchendo anche loro, senza annullare, quando é sta­to possibile, né l’una né l’altra.

X. L’ideologia razzista é basata sul timore della “alterazio­ne” della propria razza eppure essere “bastardi” fa bene. È quindi del tutto cieca rispetto al fatto che molte società ricono­scono che sposarsi fuori, perfino con i propri nemici, è bene, per­ché sanno che le alleanze sono molto più preziose delle barriere. Del resto negli umani i caratteri fisici alterano più per effetto delle condizioni di vita che per selezione e i caratteri psicologici degli individui e dei popoli non stanno scritti nei loro geni. Il “meticciamento” culturale é la base fondante della speranza di progresso che deriva dalla costituzione della Unione Europea. Un’Italia razzista che si frammentasse in “etnie” separate come la ex-Jugoslavia sarebbe devastata e devastante ora e per il futu­ro. Le conseguenze del razzismo sono infatti epocali: significano perdita di cultura e di plasticità, omicidio e suicidio, frammenta­zione e implosione non controllabili perché originate dalla ripul­sa indiscriminata per chiunque consideriamo “altro da noi”.

Enrico Alleva, Docente di Etologia, Istituto Superiore di Sanità, Roma
Guido Barbujani, Docente di Genetica di popolazioni, Università Ferrara
Marcello Buiatti, Docente di Genetica, Università di Firenze
Laura dalla Ragione, Psichiatra e psicoterapeuta, Perugia
Elena Gagliasso, Docente di Filosofia e Scienze del vivente, Università La Sapienza, Roma
Rita Levi Montalcini, Neurobiologa, Premio Nobel per la Medicina
Massimo Livi Bacci, Docente di demografia, Università di Firenze
Alberto Piazza, Docente di Genetica Umana, Università di Torino
Agostino Pirella, Psichiatra, co-fondatore di Psichiatria democratica, Torino
Francesco Remotti, Docente di Antropologia culturale, Università di Torino
Filippo Tempia, Docente di Fisiologia, Università di Torino
Flavia Zucco, Dirigente di Ricerca, Presidente Associazione Donne e Scienza, Istituto di Medicina molecolare, CNR , Roma

per firmare:
http://www.regione.toscana.it/regione/opencms/RT/sito-RT/MenuUtility/SanRossore-
Firma-Manifesto-Antirazzismo

Que pasò hoy?



Roma: Salta la trattativa per Alitalia. Sbaglio o alla prima vera difficoltà il governo ha dato segni di incapacità? Meglio parlare di soldatini per le strade o prostitute via dalle strade, vero? O Silvio che ramazza le strade di Napoli, magari. Intanto si è chiarito il mistero della cordata. Ricorderete che prima delle elezioni, il buon Silvio – ma mica per raccattare voti, eh? – disse che aveva nel cassetto la cordata per salvare Alitalia. Dov’è finita? Si è scoperto che il maggiordomo filippino aveva ordinato un piccolo spostamento di mobili dentro casa. Ora, la villa di Arcore non è come le nostre case, che se sposti una cosa dalla stanza da letto la vai a ritrovare in soggiorno. No. Per cui, chissà dov’è finita quella cassettiera dove stava la cordata per Alitalia. Non è che non si trovò più la cordata, non si trovò più il cassetto!

Catania: Proteste davanti al Comune della città dell’Etna. Non passa giorno che in tv non si parli di Napoli per il fatto della monnezza, di Catania invece non si parla mai. Perché si dovrebbe? Magari perché è una città con l’acqua alla gola, dove la notte le strade sono al buio perché il Comune ha forti debiti con l’Enel e di giorno i cassonetti vengono rovesciati per strada dai netturbini inferociti perché non vengono pagati da mesi. Catania, la splendida Catania, è stata amministrata per dieci anni da Umberto Scapagnini, il medico personale di Berlusconi, colui che dice di averlo reso eterno. Deve essere per questo che in TV non ne parlano mai: perché Scapagnini è pappa e ciccia col Berlusca e..., no, ma cosa mi sto inventando? Solo che mentre rendeva immortale Silvio uccideva Catania. Comunque tranquilli, Scapagnini adesso è… deputato.

Milano: Oggi, all’udienza per il processo che vede imputato quel fior di galantuomo di Silvio Berlusconi (ci vuole coraggio a processarlo), mancavano i suoi avvocati, perché impegnati a Roma a massacrare la giustizia italiana, pardon, impegnati nelle Commissioni Giustizia di Camera e Senato. Al loro posto è stata chiamata una giovane avvocatessa, Chiara Zardi di anni 28, che, stupita alquanto del fatto, ha accettato la difesa. Il giornalista del Tg1 si chiedeva se il buon Silvio non decida di tenerla. Beh, carina è carina, quindi ha delle chance. Quindi secondo me rimane. Si accettano scommesse. E se è pure brava prima o poi potrebbe fare anche il ministro. Non so se mi spiego.

giovedì, settembre 18, 2008

SAFARI AGRIGENTO – MILANO










È di ieri la notizia che una donna di Canicattì (perché Canicatti esiste) è stata mangiata viva dagli insetti sul treno. Si trovava sul Roma-Agrigento, la Freccia del Sud, da alcuni ribattezzato Feccia del Sud, e al suo arrivo a casa si è sentita male, è andata in ospedale insomma…
(http://www.repubblica.it/2008/09/sezioni/cronaca/insetti-treno/insetti-treno/insetti-treno.html). E in effetti posso dire, per recente esperienza personale, che fare un lungo viaggio in treno è un’esperienza che ti può segnare. Era una vita che non prendevo il treno e me ne sarei certamente tenuto ancora alla larga se non ne avessi avuto la necessità. Necessità dettata dal fatto di non aver trovato neanche un posto in aereo, dal dover fare questo viaggio proprio in quel periodo, etc… Dovevo prendere, quindi, il treno e recarmi a Como. Decido di evitare la tratta Agrigento-Catania e di andare in pullman alla città etnea. Al mio arrivo a Catania, vado alla stazione ferroviaria e trovo il mio treno, un Regionale per Messina, pronto sul binario 4. Salgo e, visto che c’era ancora almeno mezz’ora prima della partenza, tiro fuori il mio bel panino con la mortadella e decido che è giunta la sua ora. A metà panino sale un tizio delle Ferrovie che mi dice che devo scendere perché quel treno non partirà e al suo posto ci sarà un bus sostitutivo fino a Messina. Riincarto il panino, vado così al piazzale antistante la stazione, finisco il mio panino e prendo ‘sto bus che, per sì e per no, parte con una decina di minuti di ritardo. Io tengo l’occhio fisso sull’orologio perché devo arrivare a Messina Centrale verso le 18,00; da lì devo andare a Messina Marittima (restando sul treno), traghettare a piedi (sempre meglio che a nuoto) e poi, a Villa San Giovanni, prendere il treno, la Freccia, che mi parte a una cert’ora, le 19,43 esattamente, e che mi porterà trionfalmente a Milano. Sono anche moderatamente ottimista, penso che se il treno fa Catania-Messina in un’ora e mezza, l’autobus, via autostrada, ci può anche mettere meno, no? No. Infatti quale sorpresa quando vedo che il pullman non va verso la desiderata autostrada ma si dirige, lento pede, verso i paesini della costa. Luoghi bellissimi, non lo nego, ma con stradine così così. Aci Castello, Aci Trezza (coi faraglioni che si intravedono e c’era anche Padron ‘Ntoni che bestemmiava con un sacco di lupini in spalla), Acireale (panorami bellissimi), Guardia, Giarre. Capisco, e già da tempo, che non ce la posso fare a prendere il mio treno a Messina. Dal mio posto piuttosto indietro sento la gente seduta davanti che parla ad alta voce. Approfitto del fatto che alcune persone sono già scese e mi vado a sedere più vicino all’autista e lì mi si apre un mondo. Capisco che al guidatore è stato dato un itinerario di massima, che si fermerà a Taormina e non a Messina, che si fermerà a tutte le stazioni dove si sarebbe fermato il treno e che, ahimé, lui non è tanto esperto di quei posti lì. Per cui ad ogni bivio nasce una discussione su quale strada prendere, si negozia se andare a destra o a sinistra, “no, non prenda da lì che c’è un ponticello basso che poi non ci possiamo passare”. Roba da restarci secchi. C’è una signora tedesca, ma sposata a un siciliano, che ride convulsamente. Ad ogni bivio c’è uno scambio di idee su dove andare. Ora, per carità, sono siciliano e conosco la mia terra ma a queste cose non mi ci posso abituare. Subito dopo Giarre un signore bravissimo prende in pugno la situazione e decide lui quali strade prendere; diventa il leader e l’autista si fida ciecamente. Alla stazione di Fiumefreddo il signore scende e io mi sento perso. Lo prego di rimanere, gli facciamo capire che siamo disposti a pagare, ma per fortuna prima di andar via dà disposizioni all’autista, il quale riprende il cammino più sicuro di sé. Infatti manca solo la stazione di Giardini Naxos e poi eccoci a Taormina. Il treno ci avrebbe messo un’ora e mezza fino a Messina, il bus ce ne ha messo due e mezza ma fino a Taormina. Abbiamo fatto strame della tabella di marcia e mentre sono alla stazione di Taormina io penso al mio bel trenino di Messina che sta partendo or ora alla volta di Milano. Fortunatamente il treno per Messina sta passando proprio in quel momento. Sicché salgo. Io sono pervaso da una strana calma ma vicino a me c’è gente che bestemmia in lingue orientali. Fatto sta che dopo un’oretta arrivo a Messina, la città dello Stretto ma spero mai del Ponte. A quel punto devo reinventarmi il viaggio, per cui vado all’Ufficio assistenza clienti, dove una signora gentilissima mi prospetta una rosa di possibilità, tutte di merda. Per cui, nonostante fossi in possesso di un biglietto per Milano con un comodissimo posto a sedere (di cuccette neanche l’ombra) decido di prendere il primo treno per Roma, posto in piedi, sperando di beccare uno di quegli strapuntini in corridoio. Dopo più di un’ora di attesa, nella quale giustizio il mio secondo e ultimo panino (crudo ed emmenthal), prendo il suddetto treno e abbranco il primo strapuntino al quale riesco ad arrivare, che poi sarebbe il primo del corridoio, quello subito dopo la porta. Miei compagni di strapuntino si vengono a sedere negli altri e dopo un po’ il treno parte alla volta del Continente. Ma prima c’è da passare lo Stretto. Rimango sulla carrozza per paura che mi freghino la valigia per cui mi sorbisco tutta la traversata sul treno ad una temperatura tahitiana. Saranno già le undici della sera e a quell’ora sarei già dovuto essere in centro-sud Italia. Ma sono fermo inchiodato a Villa San Giovanni. Quando riparte il treno alla volta di Roma faccio un po’ il punto della situazione. Mi trovo seduto su uno scomodissimo sedile in corridoio, unico italiano a usufruire di cotanta meraviglia (accanto a me ci sono due giovani eritrei, o etiopi, più in là altri nordafricani, ogni tanto passa qualche esteuropeo). Le condizioni del treno sono spaventose. È sporchissimo, dal bagno arriva tanfo di urina ingrommata; la porta che separa l’entratina della carrozza dal corridoio non si chiude da sé come dovrebbe, per cui ogni volta che qualcuno la apre, tocca a me richiuderla ma nel frattempo il fetore ha preso posto nella mia zona. Quando poi i miei compagni di corridoio, come un sol uomo, si tolgono le scarpe, il gioco è fatto e l’effetto Geenna è assicurato. E per finire ci sono anche dei cani.
Vabbè, il treno parte e io penso che male che vada tra poche ore sarò a Roma. E infatti va male. Cerco di dormire un po’ ma è pressoché impossibile. L’unico modo per dormicchiare un tantino è con i gomiti sulle ginocchia e la testa tra le mani ma anche questo non va bene perché o la testa cade in avanti o a un certo punto arriva qualcuno che deve passare. Oppure con la testa appoggiata al muro, laddove c’è un bel maniglione passamano proprio all’altezza della nuca. Maniglione che nel mio caso era anche sporco di qualcosa e bisunto (ma me ne sono accorto solo dopo averci appoggiato la testa). E intanto io penso sempre al mio posticino a sedere, magari lasciato vuoto, sull’altro treno. Mi ero lamentato di non aver trovato una cuccetta e adesso darei dei soldi per averlo.
Questa è la situazione che dura praticamente per tutta la notte, fino all’arrivo a Roma. Alla stazione di Paola, in Calabria, sale un poliziotto in borghese (dio ce ne scampi), in realtà un energumeno che come atto di insediamento sbatte fuori un immigrato trovato senza biglietto, maltrattandolo verbalmente con la prosopopea tipica di chi ha a che fare con un poveraccio che non può neanche aprire bocca. Per cui sale, dicevo, e si insedia nel primo scompartimento, quello riservato ai dipendenti delle Ferrovie in servizio sul treno e che gli stessi avevano già provveduto a far sgomberare, visto che vi si erano insediati abusivamente degli immigrati. Il secondo atto del poliziotto, che in verità non è solo anche se i suoi colleghi mi sembrano molto più umani di lui (ma non ci voleva tanto), è quello di cazziare a sangue il tipo dei caffé. Avete presente il poveretto di una sessantina d’anni che sale clandestinamente sui treni di notte con un secchio pieno di bibite e un thermos pieno di caffé per portare a casa qualche euro (figura portata sullo schermo da Nino Manfredi nel bellissimo Café Express)? Ebbene, il nostro difensore della Legge, lo becca, se lo porta dentro lo scompartimento e lo fa stare una pezza, oltre al fatto che gli prende pure le generalità e poi gli intima di scendere alla prima fermata utile. La terza impresa del nostro uomo è stata quella di scovare e pesantemente sanzionare tre ragazzi che mettendo in palese pericolo l’incolumità della nazione, stavano fumando nel passaggio tra le carrozze. Avercene di cotali difensori della Legge. Sono questi che ci fanno dormire sonni tranquilli.
Insomma, fatto sta che in tutta la nottata avrò dormito sì e no 25 minuti. Alle sei del mattino arrivo a Roma, da dove ripartirò alla volta di Milano verso le nove. Integro il biglietto per Milano, essendo un Intercity, anche se dubito che qualcuno integrerà me per il disagio subito. Assisto allo svegliarsi della stazione Termini, e niente, solite cose: colazione, giornale, giro per l’enorme atrio, barboni, libreria, ma vvedi d’annattene, etc. etc. etc… Verso le nove-noveequalcosa prendo il treno per Milano. Il treno è sicuramente migliore di quello di prima, poi è giorno e ho anche un bel posto a sedere.
Nel frattempo Roberta, mia moglie, aveva costituito l’unità di crisi, tipo quelle della Farnesina. Sin da ieri sera, coordinando una task force costituita, oltre che da lei, anche da Carla, mia sorella, ed Elena, sua sorella, aveva seguito le mie evoluzioni lungo la linea ferrata d’Italia, per cui mi segnalava i treni da prendere. A Milano mi consiglia di agguantare il primo treno che possa portarmi a Como, che è quello che parte dopo mezz’ora e va a Zurigo. Ci sarebbe anche lì da pagare il supplemento però stavolta sono veramente stanco e anche abbastanza incazzato per farlo. Per cui decido di prenderlo lo stesso. Eccheccazzo. Pare che da Milano a Como non passi neanche il controllore per verificare i biglietti. Ora, secondo voi, il controllore è passato? Ovviamente sì. È passato mentre stavo sulla pedana in attesa di scendere alla stazione di Como S. Giovanni. Mi ha chiesto come mai non avessi il supplemento e gli ho raccontato brevemente questa storia, quella che ho raccontato a voi e che per me non era ancora finita, dopo 28 ore di viaggio. Non mi ha detto niente.

mercoledì, settembre 17, 2008

Que pasò hoy?


Girgenti: Mi è stato riconsegnato il computer. Lo considero un fatto di rilevanza nazionale.

Roma: È scattato il piano anti prostitute del Comune di Roma, che addirittura precede quello dell’ineffabile ministra Carfagna (foto). Il servizio del TG1, che a lungo ha indugiato sulle cosce scoperte delle donne fermate, iniziava con un vigile urbano che accompagnando una prostituta le diceva: se provi a scappare ti spacco la testa. Ti spacco la testa??? Spaccare teste è nelle competenze dei vigili urbani del Comune di Roma? Poi, nel prosieguo, un altro vigile (o forse le stesso), rivolgendosi a un’altra donna la chiamava “tesoro”. Ora mi chiedo: o il vigile conosceva bene la ragazza, magari per averla frequentata nel tempo libero, o, se no, perché l’avrebbe chiamata tesoro? Chiama così qualunque donna, Carfagna compresa, o questo vigile è, come immagino, un machista di merda con inserti di fascismo d’accatto? Oppure è la sua divisa da pizzardone che gli dà, netta, la sensazione di potersi comportare così con la giovane prostituta? Spero sempre in un Paese migliore dove possa circolare un po’ più di rispetto. Ma non mi pare sia il momento, questo.

sabato, settembre 13, 2008

Que pasò hoy?


L’Espresso: Due giornalisti dell’Espresso hanno svolto un’inchiesta, giornalistica appunto, sullo smaltimento dei rifiuti tossici in Campania negli ultimi venti anni. Sono venute fuori responsabilità della camorra (ma va'?) che avrebbe agito in combutta con la politica (ma va'???). In particolare è venuto fuori il nome dell’attuale sottosegretario all'Economia, e di un bel po’ di amministratori di enti locali campani. Ebbene, sia la sede del settimanale che le case dei due giornalisti, Di Feo e Fittipaldi, sono stati perquisiti dalla Guardia di Finanza.

Il papa: Il pontefice, ieri in visita a Parigi ha detto: “La religione non è identificabile con uno Stato, la religione non è politica e la politica non è una religione”. Quando lo dirà anche in Italia?

Priebke: Ad un concorso di bellezza in provincia di Frosinone, è stato invitato il boia delle SS Erik Priebke. No comment.

Sono razzista…



"Sono razzista, ma sto cercando di smettere” – Guido Barbujani, Pietro Cheli – Editori Laterza (Collana I Libri del Festival della Mente) – Euro 10,00 (i.i.)

Quali sono i motivi che spingono una persona come me a comprare un libro? Innanzitutto le dimensioni del volume: più piccolo è, più speranze ha di attrarre la mia attenzione. E questo è davvero piccolino, sono una centoquarantina di paginette ma che entrano anche dentro ad un borsello. Infatti è comodo anche per questo.
Poi il prezzo. Amunì, 10 euri non sono tanti, no?
Poi la copertina. Questa è di un verde pisello (non sono sicuro che si possa ancora dire “pisello”) acido, non bellissimo ma di effetto. Se lo vedi sullo scaffale della libreria ti vien voglia di prenderlo per vedere di che si tratta.
Poi il titolo. Questo mi pare veramente carino. Mi ricorda quella frase che dicono i fumatori incalliti: sto cercando di smettere. Ma chi è razzista normalmente è pure orgoglioso di esserlo e non cerca di smettere. La maggior parte delle persone di solito si professa non razzista (prima di dire che però quei negri lì se ne devono andare a casa loro o a quegli zingari han fatto bene a mandarli via). “Non sono razzista, però…” È il “però” che ti frega.
Poi l’autore. E in questo caso sono due: Guido Barbujani e Pietro Cheli. Due perfetti sconosciuti, almeno al grande pubblico, credo non abbiano partecipato nemmeno all’Isola dei Famosi, quindi come fai a conoscerli? Per cui mi dico: se per fare un libro grande così ci si sono messi in due, anche leggerlo non deve essere una gran faticata. E poi chi sono ‘sti due? Quarta di copertina, la bibbia del lettore occasionale: Barbujani insegna Genetica all’Università di Ferrara – buon motivo per non comprare il libro – mentre Cheli è un giornalista e lavora a Gioia. Fatto! Compro il libro.
Io non sono razzista, almeno credo di non esserlo. Ho sempre pensato che il razzismo è una cosa davvero stupida perché, come diceva Arbore, si è sempre a sud di qualcuno. Ho sempre pensato che benché ci siano diverse razze, è necessario, attraverso il rispetto e la tolleranza reciproca, superare questa diversità di razze e vivere assieme in questo mondo, no? E no! Il volumetto dei due cerca di dimostrare, a mio avviso riuscendoci, che non ci sono razze umane diverse ma esiste una sola razza: quella umana, appunto, giacché tutti discendiamo dal quel gruppetto di uomini che, partiti dall’Africa, hanno in breve tempo (qualche migliaio di anni) colonizzato tutto il mondo. Casomai esistono differenze scritte nel DNA ma non razze. E per dimostrare ciò i nostri eroi si sono lanciati al galoppo in un excursus (adoro le parole come “excursus”) di tipo storico e scientifico che non lascia dubbi. Almeno a me non ne ha lasciati.
Ho letto questo libro mentre ero in vacanza e mi ha molto molto divertito. Sì, divertito. Pensare che il razzismo è stupido non perché devi razionalmente superare il concetto di razza ma più semplicemente perché le razze non esistono è una cosa, intanto che non conoscevo, e che mi ha divertito.
Meno male che in Italia non ci sono razzisti.
Ma dai, scherzavo.

venerdì, settembre 12, 2008

Que pasò hoy?


Carfagna: A sentire il ministro Carfagna che parla di morale a me viene da ridere a crepapelle, che ci posso fare? (A destra un'immagine del ministro durante i lavori parlamentari.)

Denise: L’esame del DNA ha accertato che la bambina greca che si pensava potesse essere la piccola mazarese Denise Pipitone ha dato esito negativo. Per fortuna, aggiungerei. Per fortuna per la piccola greca e per la sua famiglia. Questo non vuol dire che gli zingari non rubino i bambini, ovviamente. È una storia che sento sin da quando ero piccolo. Di recente però ho saputo che nelle procure italiane non esistono procedimenti a carico di zingari per rapimenti di minori. Com’è possibile? Neanche il famoso caso della ragazza di Napoli, quello che scatenò la rivolta di Ponticelli con successiva cacciata dei rom. Chi non se lo ricorda? E sì, perché nonostante l’allegro e protratto strombazzare dei media su questo caso, si è scoperto che si era trattato di una montatura. Ma questo i media ovviamente non l’hanno detto.
(http://wildgretapolitics.wordpress.com/2008/06/03/gruppo-everyone-il-tentato-rapimento-della-neonata-e-una-montatura/)
Naturalmente speriamo che il caso di Denise si risolva presto. Magari non allontanandosi troppo da Mazara del Vallo. Tante volte…

Raffadali: Oggi a Raffadali gran parte della cittadinanza ha sfilato per la via principale in segno di protesta verso le alte tariffe per lo smaltimento dei rifiuti. C’era davvero molta gente, e incazzata. Gli intervistati gliele hanno cantate, credo in fa diesis, e il sindaco ha abbozzato una difesa molle. Ma quello che mi ha fatto piacere, e assà sparti, è che la maggior parte del corteo era formato da donne. Che la nostra terra dia segni di risveglio?
http://www.agrigentonotizie.it/notizie/leggi/28840/raffadali-oltre-mille-per-protestare-contro-lato.html

MAESTRO UNICO


È questo un altro di quei momenti – capitano sempre quando cambiano i governi e ogni ministro vuol farsi ricordare per esser stato/a quello/a che l’ha sparata più grossa – in cui la scuola pubblica italiana si appresta ad essere massacrata per l’ennesima volta in tanti svariati modi. Uno di questi è la reintroduzione del maestro unico.
Epperò a me viene in mente che faccio parte di una generazione che ha avuto il maestro unico. E non posso non ricordare una delle persone che più hanno contato nella mia formazione. Sto parlando del maestro Sutera Sardo Antonino, rigorosamente prima cognome e poi nome.Il mio maestro era una gran brava persona, anzi è una gran brava persona visto che a quanto pare è ancora vivo e avrà una rispettabilissima età. Per noi era già vecchio allora ma si sa, i bambini vedono le cose in maniera distorta.
In realtà nell’intero ciclo delle elementari ho avuto due maestri, uno in prima e seconda, l’altro in terza, quarta e quinta. Del primo non parlerò molto se non per dire che ogni tanto ci scattiava in testa con le nocche e ci faceva un male assassino oppure ci sbatteva le teste fra di noi per farci capire che avevamo sbagliato. A me la sbatté solo una volta, col mio compagno Enzo, ma c’era gente ormai con la fronte concava per la troppa abitudine.
Invece il maestro che ho avuto in terza, quarta e quinta, come dicevo, era un galantuomo di rara fattura. Sai quelle persone che ti rimangono per sempre nella vita e non te le scordi mai più? Così era lui; ricordo che era proprio buono, paterno; oddio, qualche volta capitava che se la combinavamo grossa ci faceva mettere in ginocchio accanto al banco, vabbé. Aveva gli occhi chiari, acquosi; la voce decisa, da uomo. Lui era una presenza, aleggiava, avevamo piacere nel parlargli, nel sentirlo e anche solo nel vederlo. Una volta fu assente per un po’ di tempo e ci sembrò un secolo anche se la supplente non era affatto male. Quando la scuola elementare finì, ogni volta al pensiero di non rivedere più il mio maestro mi veniva quella cosa che tutti chiamano nodo in gola. Ricordo, per esempio, che un giorno, andando a scuola, io e mio fratello vedemmo una scena spettacolare. Un gruppo piuttosto nutrito di scolari sciamava vociando dietro a due ragazzoni neri altissimi, divertitissimi – almeno credo – per il fuori programma, e li seguiva urlando e battendo le mani. Ricordo che uno di loro addirittura toccava i rami più bassi degli alberi con la testa, tanto era alto. A quel tempo i neri – qualcuno – si vedevano solo in televisione (tipo Rocky Roberts o Lola Falana) o nelle figurine (c’erano Jair, Nenè, Canè e Amarildo), per cui a vederli dal vivo la cosa ci stupì parecchio. Ebbene, io e mio fratello ovviamente non esitammo: ci unimmo alla banda e per un po’ ci accodammo anche noi al corteo. In classe il maestro, che aveva assistito a tutta la scena, ci cazziò a sangue. E quello fu il primo discorso antirazzista che ho sentito in vita mia. E devo anche dire che mi convinse.
Un altro ricordo del maestro è quello di quando una volta stavamo facendo un compitino in classe e io non avevo il foglio. Sì, il foglio centrale del quaderno, quello che poi si piega, vi si scrive il nome sul retro e si consegna. Allora il maestro, vedendomi in difficoltà, prese un suo quaderno e con movimenti lenti lo aprì, ne allentò i punti della cucitura centrale, tirò via il paginone, me lo diede e richiuse i punti. Seguivo quei movimenti come se fossero una liturgia. E l’amore che mise nel fare questa cosa – forse esagero ma il mio ricordo mi fa vedere questo – fu una roba che non dimenticherò finché campo. Dopo un po’ sbagliai e gli chiesi se per caso poteva darmi un altro foglio e stavolta, come ogni persona normale, s’incazzò. Ma me lo ridiede.
Sono grato al mio maestro. Il mio maestro unico. Un giorno dovrei cercarlo e andarlo a trovare.
Sì, ma forse dovrei sbrigarmi.

giovedì, settembre 11, 2008

Le parole della politica.


Le parole, si sa, hanno un gran valore. Servono per convincere o dissuadere, irritare o ammansire, blandire o denigrare; far amare o far odiare, rafforzare le relazioni tra persone o indebolirle o addirittura tagliarle. Una parola al momento giusto può mettere a posto una situazione, al momento sbagliato può pregiudicarla per sempre. Si soffre quando manca una parola, si gioisce quando si trova quella giusta. La parola crea. Il Padreterno ha creato tutte le cose, ed è bene ricordare che lo fece in sei giorni, con la Parola: ogni cosa Egli pronunziasse, veniva creata.
Oggigiorno, molto più prosaicamente, le parole vengono usate, soprattutto in ambito politico, con una forte carica suggestiva. Il cosiddetto “politichese” è una neolingua orwelliana che serve a mascherare la mediocrità o talora il nulla della propria azione politica. A volte una semplice parola, magari raccattata a un Porta a Porta qualunque, può risolvere situazioni che normalmente creerebbero imbarazzo. Faccio qualche esempio.
Un’amministrazione uscente, distintasi per inettitudine, chiedendo nuovamente il voto ai propri elettori dice che i cinque anni passati sono stati caratterizzati da una forte progettualità. Ebbene, la parola è molto affascinante, evocativa di notti insonni e giornate senza tregua dietro ai tanti progetti che cambieranno la nostra vita; migliaia di caffè forti e Nazionali senza filtro consumati su fogli di carta, schemi e grafici; diottrie perse su schermi di computer alla ricerca del domani migliore per la nostra gente. Tuttavia possiamo stare ben più che certi che nulla è stato fatto per il bene dei cittadini. Tranquilli! Soprattutto se poi i dati confermano che quel comune, amministrato da quel sindaco, quegli assessori e quella giunta è tra gli ultimi in tutte le classifiche d’Italia.
Questa però, non c’è dubbio, è l’epoca della sinergia. Qualunque cosa venga fatta da due o più persone viene fatta in sinergia. La sinergia affratella, rende gli animi un tutt’uno, è sinonimo di buon esito e garanzia di successo certo. Il progetto realizzato in sinergia è praticamente cosa fatta. Faccio un esempio. A Girgenti l’acqua arriva nei nostri rubinetti solo per un motivo: perché il Comune agisce in stretta sinergia con la Regione, che ha uno straordinario commissario straordinario che in feconda sinergia con i vari assessori, avvia delle produttive sinergie con le Province, che a loro volta sono in fruttuosa sinergia, con l’E.A.S.. Una volta, adesso la sinergia è con l'azienda che ha privatizzato il sevizio. Mi viene da pensare cosa succederebbe se tutti questi soggetti non fossero in sinergia tra di loro. Niente di strano che non avremmo l’acqua!
Altro passe-partout della dialettica politica è il volano, che solitamente è accompagnato dalla parola sviluppo, dando vita alla frase volano per lo sviluppo. Che cazzo vuol dire? E però, cosa non è stato definito volano per lo sviluppo, negli ultimi tempi! Ogni evento, sagra, mostra, manifestazione, festa paesana, rito religioso o cerimonia laica, minchiata, processione, saggio di danza o gara di canto, scoreggia, competizione, teatrino, premio, e chi più ne ha più ne metta, viene definito da qualche assessore al ramo, “il volano per lo sviluppo della nostra città/provincia/regione”. Ecco spiegato il perché la nostra terra gode ormai di uno sviluppo invidiato da tutti!
E che dire del riqualificare? Ogni volta che si spazza una strada, si ripara un marciapiede, si aggiusta un lampione, c’è qualcuno pronto a dire che si sono riqualificate le nostre strade. Vanno in televisione a dire di voler riqualificare il lungomare di San Leone in vista dell’estate e magari omettono di dire da chi dipende il fatto che sia abbandonato all’incuria per dieci mesi l’anno. Tempo fa l’ineffabile sindaco Piazza diceva, naturalmente in televisione e senza contraddittorio, che la sua amministrazione aveva riqualificato Porta di Ponte. Nella mia mente cercai di ricordare quando e in che modo Porta di Ponte fosse stata squalificata (o dequalificata). Me la immaginai, allora, come luogo di prostituzione o spaccio di droga, o forse era una discarica a cielo aperto, o forse ancora vi si svolgevano le riunioni di una potente setta segreta o di un temibile clan mafioso. E non riuscivo a ricordare nulla di simile. Poi feci mente locale e mi sovvenne che avevano fatto zappare aiuole, estirpare erbacce, piantare piante e scrivere a lettere di tufo “Città di Agrigento”. Lavoro assolutamente ben fatto, per carità, ma ben lontano dal poter essere definito “riqualificazione”. Stamani ho pulito il bagno di casa mia, non l’ho mica riqualificato!
E attenzionare, allora? Non so neanche se esista come termine, devo controllare, fatto sta che in attesa di un eventuale riconoscimento ufficiale da parte dei dizionaristi, i nostri amministratori attenzionano tutto; sagaci come microbiologi, nulla sfugge al loro attenzionamento. La controindicazione è che non si può attenzionare tutto e contemporaneamente, per cui, mentre attenzionano qualcosa alla Bibbirria, qualcos’altro sfugge loro al Sottogas. Faccio qualche esempio: se stanno attenzionando l’acquisto di una nuova automobile per il sindaco, non possono attenzionare allo stesso momento la disinfestazione della città; o se attenzionano la riduzione di fondi alla solidarietà sociale, non possono attenzionare le strade che sembrano terreni da Camel Trophy. Mi spiego?
E poi c’è un’altra frase, molto bella, bisogna ammetterlo: restituire ai cittadini. Negli anni scorsi abbiamo visto, in TV naturalmente, inaugurare fontanelle con la giunta al gran completo, bottiglie di spumante stappate, primo cittadino che si disseta, intervista alla prima persona che attinge col bidoncino e sentire anche la frase tremenda: “abbiamo restituito questa struttura ai cittadini”. Ma perché non restituite l’acqua ai cittadini, porca miseria, anzi, perché non gliela date visto che non l’hanno mai avuta. Oppure quando inaugurarono, roba da restarci secchi, il cesso pubblico di Porta di Ponte per restituirlo ai cittadini. Ma almeno stavolta ebbero il pudore di non farsi riprendere mentre pisciavano.
Questa, ovviamente è una lista che ognuno di noi può ampliare. Del valore aggiunto, per esempio, vogliam parlarne? E che non c’è cosa che non sia fortemente voluta da qualcuno? E di dare contezza? E perché, porre in essere non vi piace? Per carità, non dico che non vadano bene. La verità è che le parole servono per dire qualcosa. Spesso, nella piccola politica agrigentina esse invece servono per il motivo opposto: non dire niente!

P. S. A proposito, ho controllato sul Devoto-Oli: attenzionare non esiste.

Oltre Girgenti


Perché questo nome? Perché voglio parlare e scrivere di Girgenti, la mia città. È vero, lo ammetto, recentemente ha cambiato nome; adesso tutti la conoscono come Agrigento, la città dei Templi. La città dove sempre manca l’acqua, la città della frana. Alcuni – ma non tanti, anche tra i miei concittadini – la conoscono come la città di Pirandello; pochissimi come la città di Empedocle, il filosofo greco dei quattro elementi. Ma Agrigento in realtà si chiama Girgenti; è questo il suo nome, cristallizzato nei secoli. Il duce, durante il fascismo, volle ridarle il nome che ebbe sotto i Romani: Agrigentum – quindi Agrigento – per esaltare la gloria di Roma e dell’impero italico. Di Roma, appunto, non di Girgenti… E infatti a Girgenti di gloria se ne è sempre vista poca. Per questo mi piacerebbe che Agrigento riprendesse il suo vero nome e ritornasse ad essere Girgenti. Se potessi cancellare – talé – l’ultimo secolo di storia di questa città, lo farei con piacere, alla faccia di chi dice che non bisogna rinnegare nulla di quello che si è fatto e vissuto. Ok, ma Agrigento cosa ha fatto e come ha vissuto nell’ultimo secolo, fatte salve alcune sporadiche, episodiche eccezioni? Per questo bisognerebbe tornare a Girgenti, la nostra Girgenti.
Per cui, come tutti coloro che vivono in provincia, si ha – anch’io ho – la tendenza a considerare la nostra piccola città, il nostro quartiere, la nostra stradella – come Sciascia con la sua casetta di Contrada Noce, a Racalmuto – come l’osservatorio privilegiato dal quale scrutare il mondo. L’oltre. Infatti c’è anche un oltre, un al di là. Girgenti non è il centro del mondo – grazie a dio – e per questo mi piacerebbe anche vedere e osservare quel che succede fuori da Girgenti. Per parlarne, per capire, per riflettere (sembro Marzullo). O semplicemente così, per cazzeggio. Fuori da Girgenti. Oltre Girgenti.