lunedì, luglio 20, 2009

Torno in Africa


Quest’anno vado in Africa. Di nuovo. E sempre alla missione di Ismani, regione di Iringa, altipiano centro-meridionale della Tanzania. E del resto, da quando ci sono andato la prima volta, nel 2004, non passa giorno che io non pensi di tornarci. Ecco qua, di seguito elencate e spiegate, e commentate, alcune delle parole che per un mese sentirò e dirò a Ismani. Fanno parte del quotidiano di quel posto e per un breve periodo, quale può essere un mese, anche del mio. Un quotidiano e un posto certamente molto diversi dai nostri e che spesso stentiamo a credere e a capire. È un piccolo glossario, ovviamente non esaustivo. Magari quegli otto buffoni che di recente hanno fatto quella festicciola a L’Aquila potrebbero impararlo, non è difficile. Certamente dopo smetterebbero di blaterare sull’Africa e su quanto siamo buoni e generosi noi ricchi.

Mzungu – straniero, bianco. Ce lo sentiamo dire spesso, anche nella variante plurale wazungu, quando andiamo in giro. Dai bambini come dagli adulti, a Ismani come a Iringa come a Dar es Salaam. Significa uomo bianco, più sottilmente europeo, non americano, ché quello è maracani. Mzungu in generale non è offensivo, come negro da noi. Il luogo comune dice che il nero ama il bianco alla follia, lo stima, lo riverisce, gli vuole bene, bla bla bla. Non sempre ho visto volti rilassati nei nostri confronti, disponibilità o benevolenza. Spesso sì ma non sempre. Mi chiedo cosa pensano di noi, se ci considerano superiori a loro, come noi bianchi, tutti in fondo in fondo, crediamo di essere.

Shida – problema. Abbiamo ribattezzato così le donne che aspettano per ore e ore davanti alla missione, sotto il sole, per essere ricevute coi loro bambini in collo o per mano. (In realtà, memori della nostra provenienza dal cinico mondo occidentale e grazie anche a una discreta frequentazione del velinato mondo della TV, le abbiamo chiamate shida girls. Siamo un po' stronzi, è vero.) Fanno la fila, o meglio stanno ad aspettare davanti la porta dell’ufficio della missione che qualcuno si accorga di loro e le ascolti. Entrano nell’ufficio, si seggono e si mettono a parlare a voce bassa. Donne giovani, meno giovani, vecchie. Con uno due tre figli, quasi sempre uno dei quali sulle spalle tenuto dalla kanga. Non conosco lo swahili ma so che a un certo punto sentirò quella parola: shida. E infatti dalla voce bassa e roca infine la parola esce, insieme ad altre per me incomprensibili ma che diranno certamente di cibo scarso, di papà morto, di ospedale caro, di farina di mais, di figli senza scarpe. Alcune tirano fuori dei quaderni o dei fogli di carta, scritti da medici di ospedali, in cui si narrano le vicende cliniche dei loro figli o di loro stesse. Penso alle file, agli assembramenti delle shida girls e non mi vengono in mente pensieri positivi. Chi l’ha detta quella stronzata che i poveri hanno sempre il sorriso sulle labbra e il cuore contento? E del resto, perché dovrebbero averlo, perché dovrebbero essere felici? Forse per far contenti noi occidentali ricchi? I poveri non sono così allegri, belli-e-felici-nonostante-tutto come li si vuole dipingere. I poveri sono tristi, scostanti, sporchi, bui e puzzolenti. E del resto perché non dovrebbero esserlo? Nella piccola anticamera dell’ufficio si assembrano le mama, le bibi, i watoto accompagnati tutti da un puzzo a volte irresistibile di vestiti sporchi, di piedi, di igiene al grado zero. O cosa può essere entrare in una stanza di ospedale. E l’oleografia occidentale, magari di chi un giretto da queste parti non se l’è mai fatto, vorrebbe presentarceli come sempre felici. Forse per esorcizzare i sensi di colpa che a volte ci prendono nel pensare che non muoviamo un dito per loro; per dire che anche se ci facciamo i beati cavoli nostri, in fondo loro non stanno così male perché sono sempre allegri e contenti. E allora noi possiamo continuare a fregarcene e guardare Il Grande Fratello. In santa pace.

Bibi – nonna. Spesso rimane l’ultima persona nella vita dei bambini di Ismani. Muoiono i padri, le madri, gli zii; i fratelli maggiori se ne vanno per i fatti loro e i poveri bambini restano con le nonne, le bibi. Che si prendono cura di loro con amore, senza dubbio, ma senza il vigore che può avere una persona giovane. Arrivano alla missione per i
l colloquio dell’adozione a distanza e stanno ore e ore sedute per terra, scalze o con delle vecchie scarpe da ginnastica, con le loro kanga lise e aspettano con pazienza il loro turno. Poi ci sentono chiamare l’appello e quando sentono il nome del nipote, rispondono Nipo, c’è. Sembrano persone rassegnate. Non ho mai visto piangere una bibi. Neanche quando parla della mamma, morta, del bambino che accompagna, e che magari era sua figlia. Le bibi non piangono neanche quando ci vengono a dire di adottare un altro nipote, visto che quello che era adottato in precedenza è morto di malaria due mesi prima. Neanche quando descrivono le atmosfere di totale povertà nelle quali vivono e nelle quali gli tocca portare avanti la propria e l’altrui esistenza. Mi chiedo se le bibi sanno che al di fuori di Ismani esiste un altro mondo, e che quel mondo in molti casi è diverso dal loro. Non dico migliore, diverso.
Qualche anno fa, nel viaggio di ritorno abbiamo portato con noi un bambino con la sua bibi. Bambino nato con una malformazione ai genitali e che per soprammercato ha perduto entrambi i genitori. La bibi è venuta diverse volte in missione a piedi da Chamndindi, un villaggio piuttosto lontano, chiedendo di aiutare in qualche modo il nipote. Alla fine abbiamo deciso di portarli a Dar es Salaam per far visitare il bimbo in ospedale e poi vedere il da farsi. A Dar, la donna è stata alloggiata al piano inferiore della casa dove risiedevamo anche noi. A sera, quando già quasi tutti erano a dormire, notiamo che la luce della camera di bibi e nipote era ancora accesa. Non c’erano persiane sicché, mossi da semplice curiosità, dalla necessità di non farci i cavoli nostri, ci avviciniamo per cercare di capire il motivo per cui non fossero ancora a letto. E invece scopriamo che i due dormivano già, e della grossa. Poi abbiamo fatto mente locale: la bibi non aveva spento la luce perché non conosce la luce, quella elettrica quanto meno, non sa che c’è un interruttore che la accende e la spegne. Lei non sa cosa sia un interruttore. Per lei la luce è quella che viene al mattino e che va via al tramonto la sera e che nessun interruttore può accendere o spegnere.
Che poi anche la vecchiaia a Ismani è un concetto relativo, come la vita, la morte, il dolore. Una donna si professava ormai vecchia assai; diceva di essere incapace di prendersi cura dei nipoti, perchè troppo in età avanzata. Alle insistite richieste di rivelarci l’età disse di avere 55 anni.

Alikufa – è morto. È quello che ogni tanto ci sentiamo dire quando chiamiamo i bambini delle adozioni. Ne esiste un’altra versione: alifariki. Ed è quello che non vorremmo mai sentirci dire. Alikufa, dice qualcuno, magari la stessa mamma o la bibi. A volte lo accompagnano con dei gesti sconsolati delle mani, ci guardano e parlano di quella morte come se ci dicessero, non so, che c’è stato un temporale, un furto di polli o comunque qualcosa che poteva capitare e così sia. Trovo molto fatalismo in questo atteggiamento e non so se ammirarlo o incazzarmene. Un bambino muore di AIDS o di malaria o per una bronchite incarognita e la bibi guardandoti, col breve muovere delle mani dice Alikufa, come dicesse: “Vabbe’, pazienza, e che ci vogliamo fare?” E si scopre che in quella casa non è neanche il primo bambino che muore. Da noi, quando in una casa muore un bambino, i genitori ne hanno la vita sconvolta per sempre. Non si riprendono più. Lì invece c’è una visione totalmente diversa della morte e della sofferenza. Sembra che la morte faccia parte della vita, sembra che ne sia solo un episodio. E penso che forse questo è l’atteggiamento giusto per guardare la morte e probabilmente per non temerla.

Maji – acqua. A Ismani non c’è l’acqua. In quasi ogni villaggio c’è il pozzo al quale tutti si riforniscono. Spesso è distante qualche chilometro. L’acqua vanno a prenderla l
e mamme o le bibi o le stesse bambine, col plastik moja, il secchio di plastica, in bilico sulla testa. All’andata va bene ma al ritorno, col secchio da venti litri sulla testa, facile facile non deve essere, nonostante l’abitudine. Quando vedo le bambine col secchio in testa non posso fare a mano di pensare alle mie alunnette di Favara, coi loro jeans a vita bassa e le magliettine risicate che lasciano scoperto l’ombelico, coi loro zainetti Seven o le loro pochette Prima Classe, con le loro scarpe Nike e le felpe Baci e Abbracci. E penso che va bene che loro abbiano tutte queste cose ma perché non anche le bambine di Ismani? Vanno e vengono coi secchi d’acqua sulla testa.
Certo, chiamare acqua quella roba liquida giallina, marroncina o verdina è piuttosto azzardato ma tant’è. È acqua. Che va bollita, ribollita e filtrata perché possa essere buona da bere. Non sarà mai buona da bere. Ogni volta che chiediamo ai bambini adottati notizie sulla loro salute, un mucchio di volte ci sentiamo dire che hanno problemi di tumbo, stomaco.

mercoledì, luglio 08, 2009

Omelia dell'arcivescovo Francesco Montenegro alla festa di San Calogero

Oggi mons. Francesco Montenegro (foto), Arcivescovo di Girgenti, entra di prepotenza nel novero dei parrinazzi. Predicando per la festa di San Calò, di cui ho dato resoconto nel post precedente, il nuovo (be’, è già passato un anno dal suo insediamento) titolare della cattedra di San Gerlando, ha così commentato.
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"Il termine Calogero, significa “bel vecchio”; nel mondo greco ciò che è bello, è anche giusto e buono. Egli, nato verso il 466 a Calcedonia sul Bosforo, (Tracia), giunse a Roma, ricevendo dal papa il permesso di vivere da eremita. Grazie ad una visione, venne in Sicilia. Fu a Lipari, a Sciacca, poi sul Monte San Cronio, dove è vissuto per 35 anni.
Probabilmente è arrivato su un barcone. Oggi diremmo che è arrivato nella nostra terra senza permesso di soggiorno, con pochi soldi in tasca. Per cui è vissuto di carità, aiutato dalla buona gente di allora. E’ vissuto così nella preghiera e disponibile, nonostante la sua pelle nera, ad aiutare i fratelli bianchi che lo avvicinavano.Se è così, per coerenza con le leggi di oggi, dovremmo smettere di fare festa, togliere il simulacro di S. Calogero dall’altare e cacciarlo assieme a tutti coloro che non hanno la nostra nazionalità, perché probabilmente è da considerare un clandestino.Si dice che gli immigrati danno fastidio, che sono poco decorosi o pericolosi. Però, è strano, che non danno fastidio se sono bravi nel giocare a pallone o sanno cantare (per vederli paghiamo e siamo disposti ad affrontare viaggi per vederli)… o li veneriamo senza porci il problema della pelle, se sono santi. Stranieri gli uni e stranieri gli altri.
Chiediamoci: chi di noi sapendo che in un altro paese la media della vita si allunga di venti-trent’anni, non tenterebbe di raggiungerlo? La loro non è una vacanza. Se vengono da noi, è perché la vita nelle loro terre non è vita, è inferno. E se il viaggio è inferno, inferno per inferno vale la pena rischiare. Loro cercano pace, dignità, scuola, cibo. Vogliono vivere.
Il nostro cuore, perciò, si faccia casa per dare accoglienza. Amare è abitare nel cuore degli altri. Le nostre mani si tendano, curino, raccolgano e sostengano. I nostri occhi abbiano uno sguardo di benevolenza. C’è Gesù nel volto dell’uomo che ci è accanto, anche se immigrato. “Ero forestiero e mi avete accolto”.
E’ scritto nella Bibbia: “Perseverate nell’amore fraterno. Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo”.
La presenza dello “straniero” nella nostra vita non è un male da estirpare, ma una realtà con la quale confrontarsi. Assieme possiamo costruire una comunità diversa.Diceva s. Giovanni Crisostomo: “Il cristiano è un uomo a cui Dio ha affidato tutti gli altri uomini”.
L’eucaristia esige che scegliamo se stare dalla parte dei nostri interessi che spesso ci mettono gli uni contro gli altri, o dalla parte di chi cerca l’interesse di tutti. Se metterci dalla parte del male di alcuni o del bene di tutti.Gesù ci ha parlato di un sogno: “Molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli”.Perché non farlo divenire realtà.
Nell’A.T. era scritto: “Lo straniero che dimora in mezzo a voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi”. Ciò significa che l’accoglienza dello straniero è il prolungamento dell’amore di Dio. “Il Signore ama il forestiero e gli dà pane e vestito: amate il forestiero”.
"Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro". L’accoglienza non è fare una semplice elemosina, ma accogliere la persona che ho di fronte. Accogliere lo straniero è fare spazio nella città, nelle leggi, nella casa, nelle amicizie. L’accoglienza è diversa dalla beneficenza. Insomma il forestiero va accolto come riceveremmo il Signore, cioè con riguardo, con delicatezza, umilmente.
Il mondo e perciò soprattutto il cristiano vanno verso l’unità della famiglia umana. Non è possibile accettare un popolo superiore ad altri popoli. Gesù è morto sulla croce per riunire la famiglia umana: è morto perché nel mondo ci fosse uguaglianza e solidarietà, e non interessi di parte.
Si potrebbe dire: dal modo con cui i cristiani guardano lo straniero e gli esclusi si comprende in quale Dio essi credono.
Se siamo disposti a ciò, facciamo la festa di s. Calogero, altrimenti, come vi dicevo, per coerenza, togliamolo dall’altare e dalla nostra città.
Chiudo con una frase dell’Abbè Pierre: “Io ho tentato nella mia vita di mettere la mia mano nella mano di chi soffriva di più. Per ricompensa mi sono sempre ritrovata nell'altra mia mano la mano di Dio”. Che le nostre mani siano sempre piene. Auguri".

lunedì, luglio 06, 2009

SAN CALO'


I nomi tipici della nostra città sono due: Gerlando e Calogero. Gerlando – in siciliano Giullannu, abbreviato Giullà o Giuggiù – e Calogero – normalmente detto Lillo ma talora anche Calò o Luzzu. Gerlando e Calogero sono i nomi dei due patroni della città. E qui c'è da fare un discorsetto a parte, nel senso che il vero patrono di Girgenti è San Gerlando (foto), vescovo francese che, chissà come, arrivò da queste parti. Oddio, qualcuno sa come e perché ci arrivò, fatto sta che diventò vescovo di Girgenti e in seguito – siccome era straniero e noi abbiamo una sorta di predilezione per gli stranieri – divenne pure Santo e patrono. A lui è dedicata la cattedrale, che è bella vero. In passato – ricordo – quando c’era tipo una pioggia forte con lampi e tuoni o si vedeva un incidente o si sentiva passare la sirena si diceva San Giullannu senza ddannu. Si commemora il quindici di febbraio e gli agrigentini non vanno a lavorare. Soltanto che la fortuna non ha molto arriso a San Giullà, perché gli agrigentini gli hanno sempre preferito San Calogero, ovvero San Calò (altra foto), il santo nero, titolare della festa religiosa più importante di Girgenti. Oddio, di religioso la festa di San Calò ha davvero pochino e mi dispiace dirlo perché molti miei concittadini ne sono veramente e sentitamente devoti. O forse è di una religiosità talmente primitiva – detto col dovuto rispetto – che sembra che se ne sia persa la profonda valenza religiosa per lasciar posto a quella popolare o folkloristica. In ogni caso San Calò è un caposaldo della cultura di questa città, basti pensare che è anche entrato nel linguaggio comune degli agrigentini. San Calò è un termine che indica confusione, ressa. Per dire che in un posto c'è molta folla si può dire: c'è San Calò. Inoltre per dire che qualcosa non viene affrontata con la dovuta cura si dice: C’è San Calò ‘n manu ‘e carusi, cioè San Calogero in mano ai ragazzini, la qual cosa evidenzia l’amore degli agrigentini per il loro santo, al quale deve essere dedicata la massima attenzione. C’è anche una bella canzone popolare, molto allegra, che rende omaggio al santo nero e che ne esalta le virtù (San Caloriu di Giurgenti fa li grazii pi’ nenti) o anche le magagne (San Caloriu di Grutti mangia, vivi e sinni futti).
Allora, questa festa si svolge tra la prima e la seconda domenica di luglio quindi vuol dire con un caldo che si muore. E tutto comincia qualche giorno prima con un gruppo di tammurinara (suonatori di tamburi) che attraversano tutta la città e ricordano che si sta avvicinando la festa (Brèbbiti brèbbiti San Calò). Tempo fa assistetti a un improvvisato concerto di tammurinara, sul sagrato della chiesa di San Calò. Il ritmo era frenetico e martellante, sempre uguale, e ricordo che a un certo punto cominciai a sentirmi come staccato dalla realtà del momento, come in una sorta di stato semi ipnotico indotto dal tambureggiare assordante e convulso.
Ma il protagonista assoluto della festa di San Calò è il pane. Molte persone nei giorni precedenti portano dei pani in varie forme, praticamente degli ex-voto; per esempio, uno ha avuto un’operazione al cuore e allora porta un pane a forma di cuore a San Calò, non so se mi spiego. I pani vengono portati alla chiesa, anzi al Santuario, di San Calogero che si trova proprio al centro della città, di fronte alla stazione dei treni. Sulla facciata esterna c’è anche un Ecce Homo che tutti ci passano davanti e si fanno la croce e a volte le spose lasciano il bouquet.
Le cose che racconterò adesso sono reminiscenze di parecchi anni fa ovvero l’unica volta che ho veramente assistito alla festa. Intanto c'è da dire che il giorno della festa, alle sette di mattina che tu ancora dormi e non te l’aspetti, sparano un bel po’ di colpi di cannone, ti svegli di soprassalto e rischi che ti viene un infarto e ti togli per sempre dalle balle. Comunque. Torno al racconto, allora, mentre c’era la messa si sente un urlo disumano di Ebbiva San Calò, che – giuro – praticamente mi si sono drizzati i capelli sulla testa (e sì che allora ce li avevo) mentre tra la gente, anzi, qualcuno rispondeva pure Ebbiva San Calò. Di queste urla agghiaccianti se ne sono sentite fino alla fine della messa, tanto che in alcuni momenti il parrino faticava ad andare avanti. Alla fine della funzione si cominciò a preparare la statua del Santo per la processione e ricordo che un tizio salì sulla statua, che è messa lì in fondo all’altare maggiore della chiesa, e armeggiò un po’ con la faccia nera di San Calò, non capivo bene cosa facesse. A proposito, il bello di questo Santo è che non si hanno neanche notizie certe sulla sua vita; si dice che era un eremita, qualcuno dice che erano sette fratelli neri e qualcun altro addirittura che potrebbe non essere mai esistito. Comunque, mentre ‘sto tizio smanettava sull’altare col Santo, i tamburi suonavano furiosamente e le persone fuori gridavano come pazzi: E chiamamu a cu n’aiuta – Ebbiva San Calò. E allora dopo un po’ calano la statua dal suo posto, le fanno percorrere la chiesa e la sistemano sulla vara, cioè sul piedistallo. Poi vi inseriscono due lunghe pertiche e così il simulacro è pronto per la processione. Ora, io penso che la statua più il piedistallo più le pertiche peseranno un vero castigo di dio per cui è necessario che ci siano decine di persone che, magari alternandosi, percorrano tutto il tragitto della processione che peraltro è bello lungo. E infatti ci sono, perché esiste una confraternita, i Devoti Portatori di San Calogero, i quali nei giorni della festa indossano una casacca bianca e in testa una sorta di bandana colorata. Pittoreschi davvero. Con tutto il rispetto – ed è veramente tanto – i portatori appartengono perlopiù alle fasce popolari della città per cui, proprio a volerlo dire, non è che siano dei gran raffinati! Sicché, non appena la statua di San Calò mette il naso fuori dalla chiesa si cominciano a sentire fior di bestemmioni che il povero Gesù Cristo e la povera madonnina fanno su e giù. E quale sarebbe il perché di tanta foga? Richiamare la banda. E qui devo introdurre un altro protagonista della festa di San Calò, la musica appunto. Ma non un repertorio di pezzi da banda o marcette o brani da processione, bensì un solo brano: la Zingarella – che se ci fosse un supporto sonoro io ve la potrei pure canticchiare perché è veramente troppo bella. Nel Gattopardo, il romanzo di Tomasi di Lampedusa, l’autore riporta che quando il Principe Salina arriva con la famiglia a Donnafugata per passare le vacanze, viene accolto dalla banda, che intona la Zingarella. Pare sia lo stesso pezzo anche se, ad onor del vero, nel film di Visconti il pezzo suonato dalla banda non è lo stesso della processione di San Calò. Ma a me piace pensare che abbia sbagliato Visconti.
Chiunque assista alla festa di San Calò – vuoi alla processione vuoi a tutto quanto il periodo di festa – non può fare a meno di notare che alcune donne sono scalze. Fanno il cosiddetto viaggiu ‘n piduni. Le donne scalze sono presenti nelle processioni più importanti di Girgenti e cioè quella di San Calò e quella del venerdì Santo. È un voto che queste signore fanno per chiedere una grazia particolare a San Calogero o a Gesù Crocifisso o all’Addolorata. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, le donne indossano calzini, preferibilmente blu. Non c’è dubbio che sia una prova di fede che non ha bisogno di commenti.
Per cui, tornando alla festa, a questo punto la situazione è la seguente: San Calò si trova sul sagrato della chiesa in attesa di iniziare la processione, i devoti portatori con urla belluine lo prendono in spalla, i tamburi suonano ritmi da sciamani; San Calò ondeggia pericolosamente, la banda suona la Zingarella e la gente grida e si scalmana. E qui ritorna il protagonista: il pane. Infatti dai balconi la gente piglia e comincia a tirare i panuzzi di San Calò. Il panuzzo di San Calò è una vera meraviglia: una cupoletta di pane di non più di 50 grammi, aromatizzato con semi di finocchio. Viene prodotto solo in prossimità della festa. Perché si tira il pane? Perché si racconta che quando il vecchio Calogero era vivo ci fu una peste o qualcosa del genere; per cui l’uomo di Dio andava in giro casa per casa a cercare qualcosa per alleviare le pene dei poveri malati. Ora, siccome la gente si cacava un sacco del contagio, non apriva la porta, pertanto al buon Calogero buttavano il pane dalle finestre. Ed ecco perché tuttora, non appena la statua di San Calò esce dalla chiesa, e per tutto il tragitto della processione, dalle finestre le persone rovesciano sul Santo migliaia di panini, del peso complessivo di diversi quintali, in ricordo di quell’episodio.
Dopo un po’ di attesa sul sagrato – voci, urla, caldo, sudore, spinte, tamburi a palla e Zingarella a manetta – San Calò si avvia verso via Atenea. La situazione è sempre di grande confusione, la gente chiama il Santo, ne invoca l’aiuto; lui intanto procede barcollando e tu dici: Stavolta cade. Ma ovviamente, sfuggendo a qualunque regola di fisica, non cade. Ogni tanto si ferma e le persone a turno salgono sulla statua per baciarlo e per impregnare dei fazzoletti col sudore di San Calò (che invece più laicamente è la sputazza delle persone che lo baciano). La banda suona e la gente urla; sulla statua, quando è ferma, due o tre energumeni aiutano i fedeli a salire. Oppure dalla folla prendono i bambini porti dai genitori – anche bimbi piccolissimi, lattanti – e li avvicinano alla faccia nera di San Calò per fargliela baciare. E si vedono ‘ste povere creature assolutamente terrorizzate, tirate su per un braccio, in lacrime di disperazione, costrette a fare una cosa che non si sognerebbero mai di fare. Intanto – la Zingarella come colonna sonora e il pane che continua a venir giù dai balconi (senza contare che se un panino ti colpisce dal terzo-quarto piano ti sbinghia) – la statua di San Calò si arrampica per le viuzze del centro storico di Girgenti.
Nel frattempo tra i devoti portatori cominciano a girare delle gran bottiglie di vino – vino di tavernazza, ovviamente – per cui dopo un po’ di tragitto, tra l’eccitazione, la musica, la fede e il vino, il devoto portatore è bello paro paro e mi hanno detto che ogni anno a un certo punto della processione scoppiano delle belle scazzottate. Anzi, pare che ci sia un punto al centro storico dove si fa una sorta di scazzottata rituale, ogni anno sempre allo stesso posto. Io quell’anno lasciai la processione a un certo punto, prima della sacra rissa, dopo aver baciato il Santo e urlato un paio di Ebbiva San Calò per dovere di firma. Alla fine della processione popolare, ne inizia un’altra – questa più compostamente religiosa – che riporta San Calò in chiesa su un camioncino, coi parrini e la gente che prega e canta inni sacri; niente Zingarella, niente pane dai balconi, niente devoti portatori, niente vino, niente bestemmie, niente urla, niente cazzotti. Alla fine della processione, a tarda sera, si fanno i fuochi d’artificio con la maschiata finale. Poi la statua viene riportata in chiesa e così finisce la festa di San Calò.