venerdì, maggio 29, 2009

ZAWADI


Zawadi in swahili vuol dire regalo. Normalmente si tratta di piccoli doni che portiamo nella nostra missione di Ismani, in Tanzania, ai bambini del programma delle adozioni a distanza. O che altri dall’Italia mandano ai bambini. Si tratta generalmente di magliettine, pantaloncini, scarpe sportive, felpe e robe così. L’accoglienza dei doni non sempre è calorosissima dai parte dei bambini ma la cosa è dovuta semplicemente a timidezza, non certo a ingratitudine. Anzi.
Una nostra amica, una volontaria, ha incontrato la sua bambina adottata, una bimba del villaggio di Mkungugu che vive con la bisnonna – giacché quelli delle generazioni intermedie sono tutti morti – e le fa un sacco di salamelecchi, la bacia, l’abbraccia, la stringe, le fa delle foto, etc… Alla fine dell’incontro scatta lo zawadi e le regala tre vestitini che le aveva portato dall’Italia. Il giorno dopo, era domenica, la bimba viene alla messa a Ismani – da Mkungugu è relativamente vicino – e ci accorgiamo che indossa i vestitini. Tutti e tre. Uno sopra l’altro.
Del resto anch’io ho incontrato il mio bambino adottato a distanza, Lazak, ed è stata una roba che mi ha molto commosso. Gli ho dato del materiale per la scuola. La sua bibi, la nonna, non la finiva di ringraziarmi. A un certo punto gli fa: “Sema asante, baba”, (“Di’ grazie, papà”). E il bambino, il piccolo Lazak, mi fa: “Asante, baba”. Mi sono squagliato. (Nella foto, il vecchio Lazak, sua nonna e il sottoscritto)
Ma la cosa più straordinaria ci è capitata due anni fa. Mentre ficcavamo il naso nel magazzino della missione per mettere un po’ di ordine, abbiamo trovato una scatola bella grande. Conteneva una bicicletta che una tizia di Girgenti aveva mandato a Joseph, un ragazzino adottato a distanza del villaggio di Uhominyi. Così, per regalo, zawadi. Quindi pensiamo di consegnargliela non appena quelli del villaggio, Joseph compreso, vengono in missione per le adozioni. Al momento della consegna eravamo tutti là, per vedere la reazione del ragazzo. Man mano che lo scatolone si apriva e lasciava intravedere qualcosa della bici, gli occhi di Joseph cominciavano a brillare sempre di più. Baiskeli baiskeli, diceva, bicicletta. Il ragazzo ha rischiato di morire per la felicità. Non sapeva come esprimere la sua gioia, stringeva i pugni come se avesse segnato un gol; non sapeva se piangere o ridere (perché, noi lo sapevamo se ridere o piangere?). I suoi occhi lucidi di contentezza sono stati un segno per tutti coloro che hanno assistito. In quel momento avrei potuto morire felice. All’uscita dall’ufficio della missione – Joseph in groppa alla sua bici nuova – tutto il villaggio ha cominciato a urlare e battere forte le mani. Partecipavano alla gioia di un ragazzo che aveva avuto in regalo una cosa che mai avrebbe potuto comprare. Le donne venivano a stringerci la mano ringraziandoci, gli asante sana si sprecavano, pensando che l’avessimo fatto noi, il regalo.
L’Africa mi farà impazzire, prima o poi.

martedì, maggio 26, 2009

VACCI PIANO CON LE PAROLE



Forse però, ragazzi, almeno tra coloro che condividiamo un certo modo di vedere l’immigrazione, dovremmo cominciare, quantomeno, ad “aggiustare” il nostro lessico. Non uso ormai da anni la parola “clandestino” – credo di non averla mai usata –, posto che di una persona che scappa dal suo paese non mi interessa sapere se è in regola o meno. È un termine che denota negativamente qualcuno, così, senza neanche conoscerlo. Del resto non sento mai chiamare qualcuno “evasore”, anche se di quello si sa che se ne straimpippa del Fisco. O “frequentatore di puttane”, anche se si sa che non disdegna il puttan tour. Né, è questo è grave, sento chiamare “condannato” o “inquisito” o “imputato” gran parte dei personaggi che affollano il nostro Parlamento e il nostro Consiglio dei Ministri. Anzi, quelli li chiamiamo “onorevoli”.
Abolirei anche “extracomunitario”, giacché ne metterebbe in luce soprattutto la sua non appartenenza a quel club esclusivo che è la Comunità Europea. Peraltro non credo che i migranti brucino dalla voglia di diventare “intracomunitari”, credo cerchino solo la dignità negata.
Infine farei attenzione (ma molta) a non chiamare “centri di accoglienza”, quei mostruosi CIE (già CPT). Ci basta che lo facciano le televisioni, no? Guardate un po’ in giro per il web e cercate di capire il tipo di accoglienza che si pratica in quei luoghi. Il CPT di Girgenti è stato chiuso anni fa in seguito a una visita della Commissione per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa. Forse praticavano un’accoglienza un po’ “focosa”. Del resto, si sa, l’accoglienza del Sud…

lunedì, maggio 25, 2009

CIAO, PAOLINO



Provo sempre meno interesse per il calcio. In passato, da ragazzo sono stato milanista. Beh, non ho elementi per dire che non lo sono ancora adesso, nonostante il mio crescente disinteresse per il mondo del pallone. Però, che cavolo, un saluto al grande Paolino Maldini voglio farlo anch’io. Ieri il capitano del Milan ha lasciato il calcio, ad un’età veneranda per la media, e si godrà la famiglia. O forse resterà nell’ambiente con altre mansioni. Spero abbia messo da parte qualcosina che lo faccia campare dignitosamente. Epperò quando se ne va uno così, alla fine mi dispiace. E allora ciao e buona pensione. Gliel’avranno fatta la festa e regalato l’orologio?

venerdì, maggio 22, 2009

Capaci, Vito Schifani: una corsa in moto, un ricordo…


Questo bellissimo pezzo è stato scritto da Salvo Grenci, un mio caro amico giornalista.
***
La notizia della strage di Capaci mi raggiunse allo stadio delle Palme, a Palermo, tempio dell’atletica siciliana, fase regionale dei campionati regionali assoluti di società. Avevo in mano una pistola, quella di starter, mi preparavo a chiamare i concorrenti a non ricordo quale gara di velocità e al tempo stesso seguivo con lo sguardo un paio di atlete che allenavo all'epoca. Solita roba. Le prime notizie arrivarono alla spicciolata, il telefonino era roba per pochi eletti, non era ancora quel che è oggi, però qualcosa arrivò, e presto il gelo calò sul tartan dello stadio. Proseguimmo sino a sera con un senso di vuoto e di impotenza, ma la mazzata più dura doveva ancora arrivare.
In albergo ci fiondammo davanti al televisore, eravamo in parecchi ad ascoltare i dettagli sull’attentatuni e ad un certo punto il Tg iniziò ad elencare i nomi dei poliziotti ammazzati insieme a Falcone e alla moglie. Quel "Vito Schifani" fu per me e Marcello Gargano una pugnalata al cuore: “Minchia, ma cu? VITO SCHIFANI? ‘Un po’ ìessiri”. Vito era un atleta del Cus Palermo,ex promessa da juniores, atleta di livello regionale successivamente. Amicone e bravo ragazzo, generoso e un po' matto. Mi tolse dieci anni di vita con una folle corsa in moto sino alla stazione degli autobus per non farmi perdere l'ultima corsa per Agrigento. Quando scesi di sella avevo le gambe molli e la fronte madida di sudore, e al suo sarcastico “U viristi ca ccià fìcimu?” lo mandai a quel paese, toccandomi ripetutamente con l’indice la tempia: “Tu sì foddi, di catina, sparti!”. Era bravo, Vito, faceva il suo lavoro con passione, e quando poteva tornava volentieri in pista per qualche sprint o alcune ripetute sui 200. Il destino gli tese una trappola, secca, senza appello: doveva essere lì, alle Palme, l’indomani, per coprire il classico “buco” in staffetta per la sua società, i Winners, che era poi la seconda squadra del Cus Palermo. Poi all’ultimo momento gli cambiarono il turno, o se lo fece cambiare lui, non ricordo bene e per quale motivo, e finì anche lui con Falcone e gli altri macellato dal tritolo di Capaci. L’indomani, alle Palme, Bartolo Vultaggio, dirigente appassionato che non aveva ancora fondato la Pol. Europa Capaci (che nacque appunto come manifesto di quel popolo non ancora rassegnato ad assistere alla deriva mafiosa della sua storia), con la voce tremante al microfono proferì poche ma significative parole per quel ragazzo come tanti, come noi, che vivevano di cose semplici: il lavoro, la famiglia, una sgambata allo stadio, i 400 metri corsi anche con spiccioli di preparazione ma con la stessa passione di sempre.
Diciassette anni dopo non mi sembra ancora vero, Vito, proprio lui...
E a pensarci bene, non l’ho mai ringraziato per quella folle corsa sino alla stazione degli autobus.

Salvo Grenci

***
In memoria di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e dei ragazzi che erano con loro: Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. E con il cuore grato anche a Giuseppe Costanza, unico sopravvissuto alla strage.
Guai a dimenticare gli eroi. (A. T.)

giovedì, maggio 21, 2009

Lacrime, spinte e manganelli, così l'Italia respinge i disperati

(di Francesco Merlo)

Una foto da Paris Match sul trattamento riservato ai migranti riportati in Libia

QUEI guanti di lattice, che servono a non toccare l'orrore, sono come il nostro pensiero, come i nostri ragionamenti sull'immigrazione-sì e l'immigrazione-no, le quote, i conteggi, i controlli, le leggi. Le guardie di finanza usano guanti di gomma e noi usiamo guanti mentali. Proprio come loro li indossiamo per non entrare in contatto con il male fisico, con la sofferenza dei corpi.
Ma bastano una, due, tre foto come queste per farci scoprire la fisicità. Le guardiamo infatti senza più la mediazione della logica, ne percepiamo l'efferatezza e la bruttura. E saltano i ragionamenti, non c'è più bibliografia, spariscono i distinguo del "però questo è un problema complesso". Ecco dunque la banalissima verità che sta dietro ai nostri dibattiti, al nostro accapigliarci sull'identità e sulle frontiere: stiamo buttando fuori a calci in faccia dei poveretti che ci pregano in ginocchio stringendo le mani delle nostre guardie di finanza, mani schifate e dunque inguantate.
E ci cade a terra anche la penna perché l'occhio è molto più veloce e diretto dell'intelligenza con la quale siamo abituati a mentalizzare il mondo. Ci cade la penna perché capire e spiegare è già tradire l'orrore, significa infatti infilarsi il guanto dell'orientamento politico, dei libri che abbiamo letto, della nostra battaglia contro la xenofobia, significa parlare dell'esplosione demografica e del deflusso inarrestabile dell'umanità dai paesi dell'infelicità a quelli dell'abbondanza... E invece qui non si tratta né di cultura né di generosità, qui il pensiero si mostra per quel che è: un guanto di lattice, appunto.
Qui ci sono da un lato i corpi tozzi, grassi e forti della Legge, la nostra legge, e dall'altro lato i corpi umiliati e maltrattati dei disperati che non vogliamo in casa nostra e che respingiamo. E nella loro sofferenza c'è un surplus di mistero che non si esprime necessariamente nella magrezza e nelle cicatrici perché - guardateli bene - quei corpi avviliti sono ben più vigorosi dei corpi sformati degli aguzzini che ci rappresentano, degli italiani "brava gente" con il manganello. Sembrano addirittura più sani, certamente sono più vivi.
Dunque ancora una volta è l'occhio l'organo vincente. Ancora una volta scopriamo che la mente ci abitua a non vedere le cose. È infatti facile dire che in casa nostra devono entrare solo quelli che hanno un permesso di lavoro e che ci vuole un legge per facilitare le espulsioni dei clandestini. Grazie alle foto dei reporter di Paris Match ora sappiamo che tutto questo significa una scarponata sulle dita di una mano aggrappata alla murate di un'imbarcazione , o un pugno sui denti o...
A Porta a Porta o a Ballarò si può trovare una motivazione per tutto, si può spiegare ogni cosa. Ma davanti a queste foto ragionare diventa un crampo. Guardate che cosa è la fisicità della politica della dolce e bella Italia: respingere a calci, prendere di peso gli infelici e buttarli fuori dalla Bovienzo che fa servizio da Lampedusa a Tripoli, portarli davanti alle coste libiche e far credere loro che è ancora Italia, trascinarli a terra nudi. E non sono foto di scena, immagini di un film, non sono finzioni. È davvero questa la nostra politica, con un rapporto stretto tra quello che qui stiamo vedendo e quello che qui non si vede. La nave Bovienzo infatti è come le nostre strade di notte dove piccole creature nere si vendono ai camionisti. La Bovienzo è la violenza sulle donne, anche quella che ci viene restituita in forma di stupro. La Bovienzo sono i soprusi e il disprezzo per i miserabili. La Bovienzo sono le ronde razziste e i barboni bruciati. La Bovienzo è l'Italia dei mille divieti e dei mille egoismi. La Bovienzo è l'Italia generosa che è diventata feroce per paura. La Bovienzo è l'Italia che guardando queste foto si riconosce irriconoscibile: ma davvero siamo noi?

FRANCESCO MERLO
La Repubblica – 15 maggio 2009

lunedì, maggio 18, 2009

VOCAZIONI


Io ho un amico che aveva e ha tuttora la vocazione. A farsi prete, naturalmente. Il problema è che lui non è un prete. Si chiama Vittorio, lo conosco fin dai tempi delle Elementari e già da allora manifestava interesse per la cosa. Ricordo che quando andavamo a casa di un qualunque compagno di scuola, finiti i compiti, giocavamo in qualche modo – a casa di uno, ad esempio, si giocava sempre al Gioco dell’Oca –, a casa di Vittorio, invece, una bella santa messa non ce la levava nessuno. Nel senso che lui proponeva a tutti noi di fare una celebrazione eucaristica. E siccome eravamo a casa sua… Lui faceva il parrino mentre a noi toccavano ruoli da comprimario, vuoi il chierichetto, il sagrestano o semplicemente l’assemblea. C’è da dire che era preciso, liturgicamente ineccepibile. Conosceva tutta la messa e non saltava un solo passo. Lui si inventava il salmo responsoriale e noi dovevamo rispondere; si faceva dare delle ostie dal prete della sua parrocchia e ci somministrava l’Eucarestia; prendeva il vino dalla cucina e lo mescolava con sapienza con l’acqua; faceva delle interessanti omelie.
Vittorio frequentava la parrocchia (come noi, del resto) e aveva un’ammirazione smisurata per il suo parroco. Aveva anche la segreta speranza di diventare papa; diceva che Paolo VI era un grande uomo – e sì che io lo trovavo noiosissimo – ma aveva una venerazione per papa Giovanni. Sempre ci diceva che da grande avrebbe fatto il prete e che niente e nessuno gli avrebbe fatto cambiare idea. “Ma non vuoi sposarti e avere figli?”, gli chiedevamo. “Assolutamente no – rispondeva Vittorio – io sono un prete”. Già si sentiva parrino. Una volta ne ho parlato coi miei e mi hanno risposto che non c’era dubbio: la vocazione gli sarebbe passata e avrebbe avuto una vita normale come tutti gli altri.
Non era vero. Lui la vocazione continuò a maturarla; anche da adolescente seguitava a dire che voleva farsi prete. Non andavamo più a scuola assieme e non ci sottoponeva a messe coatte, però la vocazione continuava ad averla. Alla domenica, come niente, si sciroppava tutte le messe della parrocchia. Serviva la messa, leggeva le letture, aveva anche imparato a suonare l’organo. Insomma era il factotum della chiesa. Questo lo portò ad avere i primi scontri con i suoi genitori, che avevano pensato per lui un futuro diverso che non quello di parrino.
Alla fine delle superiori, Vittorio decise di entrare in Seminario ma la sua famiglia ne fu totalmente contraria: doveva fare l’avvocato. Pertanto, non senza malanimo, si iscrisse a Giurisprudenza. Pensava di fare contenti i suoi genitori – per il momento, almeno – poi, quando avrebbe avuto in mano la sua vita, avrebbe preso la decisione per la quale viveva: farsi prete.
Dopo cinque anni e una carriera universitaria non particolarmente brillante, per la felicità della sua famiglia, Vittorio si laureò. Continuava a sentire dentro di sé la chiamata di Dio ma anche stavolta non fu forte abbastanza da imporre ai suoi la sua volontà. Suo padre lo mandò a fare pratica da un avvocato suo amico, che gli avrebbe insegnato il mestiere e lo avrebbe lanciato nella professione forense. Ma non era abbastanza bravo, Vittorio; l’unica legge che gli interessava era quella divina, per cui sin dall’inizio si capì che non avrebbe fatto strada.
Lo capì anche suo padre, che lo costrinse, nonostante le rimostranze del figlio, a tentare la strada del concorso pubblico; come archivista, impiegato alle Poste, negli enti, nei comuni e nelle prefetture di mezza Italia. Il buon Vittorio, nonostante non avesse abbandonato il desiderio di diventare un sacerdote, fece concorsi di ogni genere e attraversò tutta la penisola. Anche le domande di supplenza nelle scuole fece, per insegnare materie giuridiche. Finalmente, ma non per lui, trovò un posto da impiegato all’INPS. La famiglia ne fu molto contenta, Vittorio molto meno: questo allontanava ancora il suo progetto di farsi prete.
Infine iniziò una relazione con Rosa Maria, una ragazza della parrocchia, un po’ grassoccia ma tanto simpatica e buona. La famiglia di Vittorio inizialmente ebbe da ridire anche su questa storia ma alla fine, pensando che era sicuramente meglio così che con un figlio prete, lasciò che gli eventi facessero il loro corso. Lui impiegato, lei articolista, Rosa Maria insistette perché si sposassero. Vittorio per un po’ resistette, forse per tenere ancora accesa quella fiammella della vocazione che mai si era spenta del tutto; alla fine, ormai trentino, capitolò.
Oggi Vittorio conduce una vita normale. I suoi colleghi lo reputano una bravissima persona e lo stimano molto. È padre di tre figli: Gerlando di sedici anni, Antonella di dodici e Andrea, venuto dopo molto tempo, di tre. Ha una casetta in cooperativa a Fontanelle. Accompagna i figli a scuola alla mattina, va a fare la spesa al Di Meglio, va al mare alla IV Traversa e spesso al sabato va a passeggio con la famiglia in Via Atenea.
Ma tutte le domeniche, quando Vittorio porta moglie e figli a Messa, è pervaso da una profonda tristezza.
Perché ho raccontato questa storia? Perché, ecco, io penso a Vittorio tutte le volte che a Girgenti qualcuno tira fuori la stronzata della vocazione turistica della città. Proprio come il mio amico, che aveva tutte le carte in regola per diventare parrino – e in cuor mio penso che sarebbe stato un buon prete –, a Girgenti in potenza non mancava nulla per diventare una città ad economia esclusivamente turistica. Però non lo è diventata e sono certo non lo diventerà mai più.
Proprio come Vittorio, che non sarà mai più un prete.

venerdì, maggio 15, 2009

DON PAOLINO



Piazza Purgatorio si trova a metà di Via Atenea, la strada principale di Girgenti, ed è una piazza molto importante, sulla quale mi soffermerò per almeno tre motivi. Il primo è che c’è la chiesa di san Lorenzo o del Purgatorio, naturalmente. Nella foto si vede bene, ha due scalinate, opposte, che si incontrano davanti al portone e davanti c’è la piazza in questione. In realtà adesso non è più aperta al culto ma dentro si può ancora visitare, l’hanno data in mano a una cooperativa di picciotti che ci fanno mostre, concerti e varie camurrie (sempre meglio di happening). Ebbene, in questa chiesa ci sono delle statue in stile barocco troppo belle, fatte da un certo Serpotta, che aveva una scuola a Palermo ed era bravo forte perché si era inventato uno stile personale; ovvero lui faceva le statue di stucco ma le lavorava con una tecnica tale da farle sembrare di marmo. Uno va lì e dice: “Guarda che belle statue di marmo”, e invece no, sono di stucco.
L’altro motivo è che a sinistra della chiesa c’è uno degli ingressi degli ipogei, che sono dei cunicoli sotterranei che attraversano tutta la città e vanno a sbucare ai templi e credo che in tempi remoti li usassero anche come acquedotto. Se poi uno pensa che gli antichi riuscivano a fare arrivare l’acqua nelle case mentre noi no… Roba da restarci secchi, intanto è così.
Ma il motivo principale che personalmente mi lega a Piazza Purgatorio è che lì c’era il salone di don Paolino, il barbiere dove mio padre ci portava da bambini a tagliarci i capelli. Don Paolino era un uomo calvo, prestante nell’aspetto, sempre sorridente e comunista. Assolutamente comunista. Parlava lungamente di politica con mio padre e io non ne capivo una mazza; gli diceva che quando acchianavano (salivano al potere) i comunisti a lui gli nazionalizzavano il salone e gli davano lo stipendio. E aveva questa barberia in un locale con l’ingresso a colonne, che anni fa è stato abbattuto, che dava sulla piazza. Il locale che era sotterraneo – per cui per entrare bisognava scendere delle scale – e prendeva luce (oltre che dall’elettricità) da spesse mattonelle di vetro che erano, e tuttora sono, parte della pavimentazione della piazza.
Don Paolino teneva anche un diurno e a volte la gente andava lì a farsi la doccia, cosa che mi faceva un senso pazzesco. Mi chiedevo il perché la gente non se ne stesse a casa sua a farsi la doccia, come facevamo noi – quando veniva l’acqua. C’erano le piastrelle bianche e nere alle pareti e le classiche poltrone da barbiere, quelle girevoli con una leva laterale per abbassare e alzare lo schienale e il poggiapiedi in ferro lucido dove c’era scritto – con un bel lavoretto a traforo – Fratelli Scuderi Catania. Sulla mensola aveva tutto il necessario per tagliare i capelli e fare un servizio completo: pettini, forbici, flaconi; le boccette di alluminio: una per la cipria (con pompetta rossa) e una per la lozione (senza pompetta); la spazzola per tirar via i capelli dalla nuca e quella per spazzolare i vestiti a fine taglio; la macchinetta per tagliare i capelli a zero. Teneva anche il necessaire per la barba: il pennello, il catino per la schiuma e il rasoio a mano, che usava anche per rasare i peli superflui dalla nuca e al quale, prima di usarlo, rifaceva il filo sulla fettuccia di cuoio attaccata al muro. C’era uno strano odore nel salone di don Paolino, odore di barbiere.
Per noi bambini aveva anche un seggiolone a forma di Topolino e ancora ricordo di quando sedevo lì. Mio padre mi comprava un torroncino al Bar Gambrinus, dolce che particolarmente amavo soprattutto per il ripieno di cucuzzata. E io mangiando piano piano il dolce mi facevo tagliare docilmente i capelli. Ricordo ancora che don Paolino diceva a mio padre che io ero democristiano, perché stavo tranquillo e buono solo quando mangiavo. Verso la fine del taglio avevo in mano una cosa di pasta frolla, glassa, cucuzzata e capelli, che continuavo a mangiare mentre don Paolino – che da comunista qual era avrebbe dovuto mangiarseli i bambini e invece aveva una gran pazienza – mi diceva di girarmi, stare fermo, alzare la testa e impartiva ordini che io pensavo fossero una specie di liturgia. Mi abbassava la testa, me la alzava dal mento, me la girava di lato, me la inclinava. Vabbé sia anche chiaro che quando don Paolino ci tagliava i capelli spesso ci sbinghiava; aveva una forbice dentata che era un raffinatissimo strumento di tortura, li asportava i capelli, più che tagliarli; ma ne aveva anche una non dentata e molto affilata che poi era quella che preferivamo. A volta ci tirava involontariamente i capelli o dava un colpo di pettine più forte o, per soprammercato, ci infilzava la forbice nella carne tenera della testa e il dolore era terrificante. Alla fine avevamo il cuoio capelluto in fiamme e il cranio tumefatto. Non lo faceva apposta, è ovvio, e in ogni caso, tolto questo, in generale da don Paolino si andava volentieri.
Un giorno di qualche anno fa, mentre ero in macchina, girandomi ho visto un manifesto funebre, sono sceso e ho letto, triste, che era morto don Paolino.
Arrivederci don Paolino, barbiere comunista, vissuto nella speranza che i compagni gli nazionalizzassero il salone. Ma i comunisti in Italia, purtroppo, non sono mai acchianati.

giovedì, maggio 07, 2009

LA SPIRITUALITA’ DELLA SIGNORA SILVANA

Ho ascoltato in radio in questi giorni un’intervista a Silvana Giacobini. Chi non conosce la Giacobini! Onnipresente nei salotti televisivi – da Porta a Porta a Quelli che il calcio passando per L’isola dei famosi – la bionda direttrice del settimanale patinato Diva & donna (no, dico!), organo ufficiale del gossip nazionale, rispondeva a domande sulla sua folgorante carriera. Parlava del lavoro duro, naturalmente, della capacità personale e di altri ingredienti che costruiscono il successo, fino a soffermarsi… sull’aiuto di Dio. Sì, dell’Onnipotente in persona. Ha detto di aver avuto una grossa mano da parte del Signore e mi ha colpito la sua insistenza su questo tasto. Voleva a tutti i costi che l’intervistatrice fosse conscia del fatto che il suo successo ha anche una marcata matrice divina. Come non crederle? Sarò sincero: ho trovato la cosa un po’ tirata per i capelli. Yahweh che si interessa di cronaca rosa? Il Dio dei nostri Padri che si appassiona ai rotocalchi patinati? Il Signore degli Eserciti che si intrippa col gossip? Per cui, spinto dalla curiosità e dalla ricerca del sacro che è in ognuno di noi, compro – al modico prezzo di € 1,30 – Diva & donna, il settimanale di cui la Giacobini è direttrice (l’avevo già detto, vero?). “Finalmente troverò del cibo per la mia anima – pensavo –, che so, un po’ di esegesi biblica. Saperne qualcosina in più sulle Sacre Scritture non ha mai fatto un filo di danno. A nessuno. Del resto, se Dio ha aiutato lei a portare avanti con coraggio e perseveranza Diva & donna, vuoi che non aiuti me a trovare parole di vita?”
Sicché apro il giornale, il nr. 17 del 28 aprile 2009, e a pagina 18 (ma non prima di un’imperdibile intervista a Renato Schifani) mi imbatto nell’ipotizzata liaison tra Simona Ventura e Francesco Facchinetti, avvenuta negli studi di X Factor. Foto impietose ritraggono Simona che civetta col figlio di Dodi e il titolo – Il gioco delle tentazioni – è galeotto alquanto. A pagina 24, una risollevata Mara Venier confida a Paola Perego le sue paure sul set de La fattoria, in Brasile, e le dice: Cara Paola, così ho vinto la mia sfida. “Non è ancora il momento – penso – ma confido molto”, e intanto una sorta di presenza divina aleggia tra le pagine del giornale. Salto Kim Rossi Stuart e Cesara Buonamici (ripromettendomi di ritornarci su) e cerco la presenza dell’Altissimo qualche pagina più in là. Ma trovo Carmen Di Pietro. Carmen Di Pietro? L’ex porno star? Cosa ci farà una come lei su un giornale sacro? Ci sono. È la storia di Maria Maddalena, la peccatrice che incontra il Signore. Invece no, l’articolo parla del debutto della figlioletta della Di Pietro, Carmelina, in non so che trasmissione. Leggo un po’ distrattamente, devo ammetterlo, ero andato a cercare il Signore e finora ho trovato solo signore. Vado avanti un po’ deluso ma non scoraggiato. La mia perseveranza viene ripagata. Leggo: Ho avuto un’esperienza di pre-morte. Finalmente! Vittorio Marcelli, concorrente del Grande Fratello 2009 racconta una brutta disavventura avuta come surfista… Basta, sono amareggiato. Dov’è il Signore che ha guidato Israele nel deserto (foto) e ha aiutato la Giacobini? Salto Enrico Vanzina come Castelnuovo la staccionata e mi imbatto in Giovanni Rana. È simpatico, sì, ma non è ancora il buon Dio. Sono molto sconsolato ma vado avanti. A pagina 114 c’è l’inchiesta – alé, ci siamo, penso – che si intitola… Siamo Barbie ma oltre alle gambe c’è di più. Che cosa? Pensavo citassero Isaia o il libro dei Maccabei e invece qui si cita solo Jo Squillo! Che dolore. Non me la sento neppure di leggere le storie segrete del Grande Fratello, la speranza è ai minimi. Sfoglio ormai distrattamente e non trovo stimoli per andare avanti. Qualcuno mi sa spiegare cosa c’entra Dio con Diva & donna? Una risposta deve pur esserci. Su, datemela, così posso tornare gioiosamente a leggere – a pag. 159 – il grande successo di Giorgio Mastrota.

domenica, maggio 03, 2009

CE LA SO! - Viaggetto semiserio nella parlata agrigentina


Il sottotitolo non tragga nessuno in inganno. Non voglio rifare la tesi di laurea di Luigi Pirandello né avere alcuna pretesa scientifica. Tant’è vero che si tratta di un viaggetto, una gitarella, una specie di scampagnata. Visiteremo i luoghi linguistici agrigentini, cioè tanti (non tutti, certo) di quei modi di dire, verbi, frasi, singole parole che a Girgenti vengono pronunziate con leggerezza, senza pensarci due volte, ormai legittimate dal tempo e dall’uso ma che magari all’orecchio di un non agrigentino possono sembrare strane, quando non sono decisamente sbagliate. (Le espressioni incriminate sono in grassetto.)
Comincerei da un verbo, il verbo dei verbi, il termine che ci permetterà di riconoscerci come agrigentini quando un giorno saremo tutti in Paradiso: è il verbo sapercela! L’agrigentino non è capace di fare qualcosa, egli più semplicemente ce la sa. “Ce la sai, bellomè? – Prima ce la sapevo. – Ora non ce la so più. – Se ce la sapessi, che fa, non te lo farei?”
E sempre rimanendo in ambito verbale è nota la propensione che abbiamo nel considerare transitivi alcuni verbi intransitivi. E quindi può capitare di sentire qualcuno che chieda alla propria madre: “Scendimi le chiavi che devo uscire la macchina dal garage. Devo prendere delle cose, che le devo salire a casa” (non prima di aver entrato la macchina nuovamente in garage). Una volta una mia amica che era appena tornata da un viaggio, scese le valigie dall’auto (tante, vi assicuro), e guardandomi fa: ”Sàlimele!”. Tutti noi usiamo questi verbi in questo modo. Tempo fa un cronista siciliano del TG5 commentando una rapina disse che il malvivente aveva uscito la pistola; l’episodio fu riportato dopo qualche giorno da Striscia la Notizia nella categoria “strafalcioni dei giornalisti”.
C’è poi il caso di quei participi usati un po’ così: “Vuoi comprate le patatine?” chiede il papà premuroso al figlioletto; “Hai tutti i pantaloni scesi” gli fa eco la mamma; “Si deve fare una piovuta!”, chi di noi non l’ha mai detto guardando un cielo di piombo (del resto se c’è la grandinata e la nevicata, anche la piovuta reclama il suo bel posticino tra le precipitazioni atmosferiche, no?).
Poi c’è una serie di situazioni linguistiche che riguardano l’andare al mare, pardon, l’andare a mare. Intanto a mare si ci va (e non “ci si va”) in macchina e si porta la tovaglia, cioè il telo (questa cosa mi fa secco!). Se si vuol fare una passeggiata si va spiaggia spiaggia e se magari si è in comitiva si possono anche tirare le foto. E poi c’è sempre qualcuno che a un certo punto chiede “Com’è l’acqua?”, ottenendo come risposta, invariabilmente: “Bella!”.
Ed è proprio al mare che l’estate scorsa ho assistito al seguente scambio di battute. Accanto alla mia tovaglia (eh eh!) c’era una famigliola, simpatica ma non troppo, con dei bambini che frignando chiedevano il gelato. “Potete stare freschi”, abbozzò lì per lì la mamma, “mangiatevi invece i mottini (le merendine) che vi ho portato”. Ma le proteste crescevano di intensità, i bambini facevano l’inferno, per cui dopo un timido temporeggiamento (“Ho solo soldi sani”), la poveretta, alla quale nel frattempo era venuta la pena, capitolò. “Mi state facendo uscire pazza”, disse avviandosi mestamente verso il chiosco dei gelati. Ma al ritorno fu lei a prendere in mano la situazione: accusò i figli di averle fatto fare mala figura con le persone, e che quindi le era caduta la faccia a terra. “Da domani in poi se dovete fare così ci muoviamo a casa” accusava (eh sì, perché a Girgenti, il verbo muoversi esprime anche immobilità). “Con voi non ci posso combattere più”, proclamò ultimativa, “mi state facendo cadere malata”. E per finire: “Guardate, avete tutte le mani sporche” (vi assicuro, avevano solo due mani ciascuno, come tutti) “e ora pulitevi il muso che ce l’avete marrò”. Era, infatti, un gelato al cioccolatto.
Laddove dappertutto il facchino è il portabagagli delle stazioni, ad Agrigento è la persona maleducata. Tempo fa andai a Roma in pullman. All’arrivo, al piazzale della stazione Tiburtina, ci fu la solita ressa per prendere i bagagli. Un passeggero, lamentandosene con l’autista si sentì rispondere: “Caro signore, io sono un autista, non sono un facchino”. E il signore si profuse in scuse assicurandogli che non voleva assolutamente dire che era un facchino. Oppure un mio caro amico, tempo fa, dovendo spiegare a un’amica del Nord il significato della parola vastaso (stesso significato), la tradusse con… facchino.
Un altro amico, trovandosi al ristorante a Rimini chiese tre scioppetti di birra, gettando nel panico la cameriera. Lo scioppetto è la bottiglia piccola, quella da 33 cl. La donna, temporeggiò un po’ nelle cucine, dopodiché tornò dicendo che non li aveva. Si sentì rispondere: “Vabbé, allora mi porti uno scioppone”.
Da ittari vuci (gridare, urlare), l’agrigentino tira fuori buttare voci. Una sera d’estate di qualche anno fa andammo a vedere “Questa sera si recita a soggetto” una bella commedia di Luigi Pirandello – nostro concittadino –, in cui alcuni attori, confusi tra gli spettatori interagiscono con i colleghi sul palcoscenico e ovviamente sono costretti ad alzare la voce. Un nostro amico si trovò seduto di fianco ad un’attrice esterna che pertanto passò tutto il primo atto a urlare. All’inizio del secondo atto, alla ripresa dei posti, ‘sto mio amico, che, vi giuro, non aveva capito niente della situazione e pensava che l’attrice fosse semplicemente una pazza scatenata, la guarda e le fa: “Ma lei non è quella che poco fa buttava voci?” “…” (Pausa di sconcerto dell’attrice) “E ne deve buttare ancora?”
Alcune espressioni orbitano nel mondo dei rapporti sociali e del sentimento: “Mi fai simpatia”; “mi sono fatto fidanzato, sai, con quella che mi faceva sangue” (lì per lì penseresti a una bistecca); “sei zita o lasciata?”, si informa, premurosa (e forse speranzosa), l’amica del cuore; “ci siamo lasciati ma mi sta uscendo il senso”, risponde, la povera delusa. Quando non si ha alcuna intenzione di andare a trovare un amico, normalmente gli si dice: “Uno di questi giorni avvicino!”. Per indicare la frequenza assidua con cui si fa qualcosa, si dice che si fa ogni due e tre. “Mio nipote si è fatto tanto” dice la zia orgogliosa segnando nell’aria con una mano la probabile altezza del bimbo, “e poi, è un bambino intelligentissimo, non perché è mio nipote!” (e perché, se no?). Si esprime soddisfazione con: “Mi è venuto il cuore”, che cardiologicamente parlando deve essere uno sproposito; e poi “Non fare lo sperto”, ovvero il furbastro. “Vedi che ti dico?” (senti, casomai!); “Quello che mi dici mi stranizza”, e la meraviglia si dipinge sul suo volto attonito. “Ti cucino?”, chiede la moglie al marito mentre qualcuno può pensare che ‘sta donna prenda il coniuge e lo ficchi in pentola. “Ho calato la pasta” (da dove?), “Mi sono mangiato il panino e mi sono bevuto la Coca-Cola” (meno male che ha aggiunto il panino e la Coca-Cola!); “Ho fatto tutte cose”.
Straordinari sono anche “avere di bisogno”, “salirsene” e ”scendersene”, “l’utile e il divertevole”, “prendere una scaffa” (una buca per strada), “portare la macchina” (nel senso di guidarla), “camminare in auto, (non si camminava solo a piedi?), “per sì e per no”, “niente ci fa!”, “la vuoi una ciunga? (chewing-gum) – dammene mettà”. I giorni della settimana sono, inspiegabilmente, luneddì, marteddì, etc… Personalmente amo molto anche i raddoppiamenti: “Giusto giusto!”, “a quando a quando”, “solo solo”, “piedi piedi”, “vedersela pietre pietre”, “andarsene muro muro”, “sono arrivato ora ora”, “l’ho appena comprata, è nuova nuova”, “il cinema è pieno pieno”; e le esclamazioni: ‘Nzumma!, Cèèè!, Mischino!, Camurrìa!, !, Moru!, Gnà!, Gnà chi!, Gnà comu! e Gnà !, il conclusivo Va’!, l’arcaico Scasciu!, per finire con Maria!, citato anche da Tomasi di Lampedusa nel “Gattopardo”.
Naturalmente, questo scritto non ha alcuno scopo canzonatorio nei confronti di nessuno: è stato soltanto il volersi soffermare (per sorriderne un po’) su un aspetto della vita della nostra città che è quello del parlare. In fondo, ha che parliamo così da una vita, cose giuste!