domenica, marzo 15, 2009

GIORNI AFRICANI - Riflessioni in forma di diario


Nell’estate del 2004 sono andato in Africa per la prima volta. E per la prima volta ho scritto un diario. Questa è ovviamente la forma breve. Nonostante ciò è piuttosto lungo ma, secondo me, molto bello. Naturalmente sarà bello solo se riuscirò a comunicare l’emozione, sennò è solo un lungo pezzo di riflessioni personali. In forma di diario.
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27 luglio. Non so ancora spiegare, neanche a me stesso, perché sto andando in Africa. Ho alcune motivazioni, in verità, ma forse ne sto cercando altre, che magari troverò soltanto quando sarò là o addirittura quando sarò tornato. E certo non andiamo al villaggio Valtur di Malindi, ammesso che esista; stiamo andando in ben altri villaggi, quelli della missione di Ismani in Tanzania, nel cuore dell’Africa nera. Comunque per il momento siamo su un aereo. Men­tre pranziamo, mi accorgo che stiamo sorvolando il deserto. Penso che in questo momento qualcuno lo sta attraversando su dei camion per raggiungere la costa, libica probabilmente. Magari qualcuno proviene anche dal paese nel quale stiamo andando io e i miei amici. I miei amici sono Roberta, la responsabile del programma di adozioni a distanza, Andrea, Elena, Vicky, Gerlando, Emanuele e Anna Maria.
28 luglio. In mattinata, molto presto, arriviamo a Dar es Salaam, l’ex capitale della Tanzania e sicuramente la città più grande e probabilmente più ricca. L’impatto con la prima città africana è abbastanza forte. Alle 7,00 del mattino c’è già un sacco di gente per strada. La città è grande, trafficata, inquinatissima. Per le strade gruppetti di persone stazionano ai bordi, forse cucinano qualcosa, c’è del fumo, molti camminano speditamente. Ci sono donne con le classiche vesti africane multicolori (le kanga); alcune di loro portano delle cose sulla testa (secchi, ceste, balle) con grande maestria. Attraversiamo delle zone in cui le case sono solo baracche col tetto di lamiera. Siamo osservati con curiosità e per la prima volta sento la parola che sentirò tante altre volte: Mzungu! Vuol dire uomo bianco, più sottilmente, europeo.
30 luglio. Oggi si parte per Ismani. Il viaggio verso la missione dura circa cinque-sei ore ma non è affatto noioso. Per strada ci fermiamo anche in un posto di sosta, subito ribattezzato l’Autogrill, dove mangiamo patate fritte, spiedini di carne e frittata, di patate ovviamente, che il tizio ci incarta grondanti olio in fogli di giornale. Lì mi rendo conto che forse per tutto questo viaggio non devo aspettarmi molto in tema di igiene. Arriviamo a Iringa nel pomeriggio e poi, dopo un’oretta circa di jeep su strada sterrata e malandatissima, a Ismani. In missione veniamo accolti da un canto e una danza di karibu, benvenuto!
31 luglio. Mi sveglio molto presto e vado in chiesa. Metà della chiesa è piena di persone, uomini da una parte, donne dall’altra, più o meno come nei nostri paesi. Si alza un canto, praticamente celestiale, con una seconda voce in registro basso da restarci secchi. Le donne sono tutte avvolte nelle loro kanga coloratissime dalle quali, ogni tanto, sbuca fuori la testolina di un bambinetto piccolissimo. Gli uomini hanno vestiti logori (mi colpisce l’assenza del concetto di moda); da questo punto di vista la differenza tra me e loro è praticamente offensiva. Dopo colazione andiamo in magazzino. È pieno di roba arrivata coi container dall’Italia e dobbiam preparare dei sacchi da portare nei vari villaggi, nel giro che faremo per le adozioni. Mi viene duro pensare che stiamo portando in dono della roba smessa e che dall’altra parte l’accoglieranno come fosse chissà cosa; come mi viene duro pensare, dal quel poco che ho visto, che l’unica cosa che il mondo occidentale fa per loro è proprio questa: mandare container di vestiti smessi e scarpe vecchie.
1° agosto. Oggi è domenica, per cui si va a messa. Non dura meno di due ore! Fanno un canto a ogni pie’ sospinto; ogni tanto entrano gruppetti di bambine danzanti e la musica è fatta di organo, tamburi e tamburelli, in più c’è un tizio che balla con le cavigliere. Mi pare che comunque tutto si svolga in una bella atmosfera di gioia, cosa che certamente manca nelle nostre chiese. Finisco all’estrema destra della chiesa, in un posto pieno di bambini. Li osservo attentamente: sono vestiti spaventosamente. Alcuni non hanno le scarpe e in generale credo che nessuno di loro abbia mai avuto nulla di nuovo. Indossano quello che noi buttiamo, e in più, quello che gli tocca in sorte dal magazzino, per cui si vedono magliette di tutti i tipi (furoreggiano quelle di una parrocchia di Ravanusa), giacchini e completini che qui da noi andavano dieci anni fa. Siccome è domenica, le bambine soprattutto, hanno la roba più bella, non importa se è un giubbotto in pyle e fa un caldo porco; alcune hanno vestitini di tulle e merletti che le nostre bambine non metterebbero più neanche sotto tortura. Qui sono l’ultima frontiera del lusso.
3 agosto. In mattinata andiamo al villaggio di Mikong’wi, dal quale iniziamo il nostro giro, e qui visitiamo la scuola e ci intratteniamo coi bambini. Il loro corredo scolastico è costituito da un quaderno e una matita e basta. Penso ai miei alunni con gli zainetti Invicta con dentro penne nere blu rosse verdi, quaderni grandi e piccoli, pennarelli, gomme e matite, colori a cera a spirito e di legno, astucci temperamatite bianchetto diario ma anche evidenziatori forbicine e colla oltre che compassi righe e squadrette. Perché tutta questa differenza? Dopo la messa, facciamo il lavoro delle adozioni. La cosa è piuttosto semplice anche se a lungo andare pesantuccia: il bambino o la bambina già adottati, accompagnati da un familiare, vengono ascoltati su come vanno a scuola, sulla famiglia e tutto il resto; dopodiché si fa loro una foto da mandare alla famiglia adottante e gli si dà il famoso sacchetto con il vestiario e i quaderni. Poche volte i bambini vengono coi propri genitori. Per il semplice fatto che non li hanno. L’AIDS sta decimando la popolazione della Tanzania e in generale dell’Africa, ovviamente nell’indifferenza della comunità occidentale. A Mikong’wi abbiamo 40 bambini e 16 nuove adozioni. Alla fine del lavoro la signora Ernestina ci invita a pranzo. Mangiamo ugali, la polenta bianca e solida di farina di mais, che abbiamo imparato a mangiare facendone palline e intingendole nel brodo di pollo o nella zuppa di fagioli. Alla fine del pranzo ci offrono Coca-Cola, Fanta e Sprite. Eh, sì, perché dimenticavo di dire che qui in Tanzania tutto manca tranne la Coca-Cola. Ce la offrono quasi fosse uno status symbol, una cosa che li avvicina a noi, come a dire “beh, non siamo poi così distanti, anche noi abbiamo la Coca-Cola”. Spesso quando andiamo in giro per villaggi sulle strade polverose e scassate ci capita di incontrare il camion rosso e maestoso della Coca-Cola Company.
4 agosto. Di mattina diamo una mano in magazzino e al sanatorio, per trasferirlo dal vecchio sito al nuovo, una delle casette di questo nuovo quartierino che stanno costruendo con le raccolte per la missione e che si chiamerà Nyumba Yetu, la nostra casa. Con noi c’è Emanuele, un giovanissimo medico napoletano che se potesse curerebbe tutta l’Africa; sono molto colpito dal suo spirito di servizio, dalla sua forza interiore e dal suo entusiasmo. Nel pomeriggio andiamo al villaggio di Kigasi, dove mi sembra se la passino abbastanza male. Mi pare, infatti, di riscontrare alcune differenze tra un villaggio e l’altro. Kigasi mi pare proprio messo male. Ed è qui che penso a tutta l’ipocrisia dell’occidente verso il Terzo Mondo, in particolare mi vengono in mente le riunioni del G8, dove gli otto più grandi buffoni della Terra si riuniscono, blindano intere città, reprimono il dissenso e dicono di voler risolvere i problemi del mondo. Non c’è dubbio: non hanno mai parlato di Kigasi.
6 agosto. Ieri siamo andati a Igula mentre il villaggio di oggi si chiama Usolanga. Vi operano delle missionarie laiche: Maria Ausilia, che ricorda istintivamente Ugo Tognazzi (in suo onore organizziamo una supercazzola prematurata) e Rita, una donnetta canuta di Cuneo che non si riesce a far stare zitta. Hanno messo su un piccolo ospedale di maternità e pediatria dove le donne vanno a partorire o a curare i bambini malati. C’è anche una giovane donna masai con due minuscoli gemellini nati di sette mesi, tutti pelle e ossa. Rita è pessimista sulla loro sopravvivenza.
8 agosto. Ieri il villaggio di Chamndindi è venuto in missione per le adozioni, stamattina, invece, si va a Ikengeza. Alla sera, mentre stiamo in missione becco Emanuele e Andrea che parlano di una cosa alla quale penso da alcuni giorni, e che mi spaventa un po’. E cioè del fatto che a lungo andare ci abituiamo alle cose che stiamo vedendo; la miseria più nera, il bisogno, la siccità, la malattia rischiano di diventare ai nostri occhi, cose normali, già viste. E se da una parte questa sorta di spirito di sopravvivenza ci aiuta a superare situazioni difficili, dall’altra ci fa rischiare di considerare come normale questa realtà durissima e in qualche modo di perderne il contatto e il senso della gravità. E del resto, se i primi giorni trovavo terrificante vedere bambini scalzi, adesso, dopo una settimana quasi non ci faccio più caso, eppure sono gli stessi bambini di prima. È, appunto, lo spirito di sopravvivenza o una patina di più vile cinismo?
9 agosto. Nel pomeriggio vengono in missione i villaggi di Ivangwa e Khiorogota. Stamattina ho ricevuto un messaggio al telefonino che diceva che ad Agrigento c’è una nuova emergenza immigrati. Stanno cercando disperatamente dei posti dove ospitare qualche decina di persone che da giorni dormono alla stazione. Pare sia cosa abbastanza seria e mi dispiace non esserci anch’io. La sera, a cena, il sarto Fabian e mama Samueli la dottoressa, vestiti in costume tipico, ci fanno dono di due polli e di farina di mais per ringraziarci del lavoro che stiamo facendo per loro. Sono commosso e sopraffatto dalla loro semplicità e generosità.
10 agosto. In mattinata prepariamo sacchetti in magazzino, di pomeriggio andiamo al villaggio di Iguluba dove, dopo la messa, facciamo la solita storia delle adozioni. Ogni bambino è portatore di una storia tragica, che parla di padre o madre o entrambi i genitori morti, perlopiù a causa dell’AIDS; di nonne o zie o talora vicine di casa che si prendono cura di loro e di altri 4-5 fratellini; di mamme andate via e mai più tornate e delle quali non si sa più nulla, etc… A volte è il bambino stesso a non presentarsi e alla nostra richiesta di dove sia, qualcuno ci risponde “he died”, è morto. Quelli che vengono sono vestiti in maniera terrificante, a volte al limite del ridicolo (se a qualcuno di loro la lotteria dell’abito usato ha concesso in sorte un pigiamino, quelli vanno in giro in pigiama, non si scappa!). In loro però riconosco dei segni, gli stessi che ritrovo nei bambini italiani. Sono allegri, scherzano, ci guardano e ridacchiano tra di loro, ci prendono in giro. Questo mi dà speranza: sono bambini normali. Sono bambini.
18 agosto. Ieri pomeriggio abbiam fatto le adozioni del villaggio di Ngano. Oggi mattinata libera, per modo di dire visto che c’è da dare una mano a Elena e Andrea in magazzino, e di pomeriggio adozioni del villaggio di Uhominyi. Oggi sono un po’ triste perché a casa c’è il battesimo di mia nipote, Sofia. Mio fratello avrebbe voluto che il padrino fossi io. Vorrei trovarmi a casa, almeno per oggi, con la mia famiglia e i miei nipoti e dir loro della fortuna che hanno avuto.
19 agosto. Si prevede un’altra giornata pesante visto che oggi dobbiamo andare in due villaggi: Nyang’olo e Kibaoni. Nel primo ci fanno un’accoglienza splendida. C’è un coro di ragazzine che canta canzoni di benvenuto. Anche le adozioni vanno molto bene. Roberta è bravissima, tutto fila senza intoppi e alla fine ci sono degli altri canti e balli di ringraziamento. Non c’è dubbio: mi unisco al ballo! Il canto si svolge così: il coro intona il ringraziamento, fai conto alla Madonna, poi il capocoro dice qualcosa tipo “i vestiti”, e tutti “grazie per i vestiti”; poi “il sapone”, e tutti “grazie per il sapone; “i quaderni”, “grazie per i quaderni” e così via. Non so se mi spiego, un intero villaggio ci ringrazia per dei pidocchiosissimi vestiti usati. Così va il mondo. Poi ci invitano a pranzo e ci danno la Coca-Cola. Meno male!
20 agosto. Stamattina andiamo a Makadupa. Il villaggio è veramente messo male; si trova in mezzo ai baobab e ha una minuscola chiesetta di fango. Prima di cominciare vengo assediato da un gruppo di bambini che mi stanno addosso per vedere il telefonino, col quale sto armeggiando; mi sembra di essere un marziano. Quando lo faccio vedere ai miei alunni, praticamente mi mortifico: tirano fuori cellulari supertecnologici con macchina fotografica, suonerie polifoniche e tutto il resto. A Makadupa c’è una ragazzina di dodici-tredici anni alla quale il destino ha giocato uno scherzettino niente male. Praticamente cammina poggiando non sulla pianta del piede ma sul collo. Non è facile da capire, anch’io ci ho messo un po’, poi mi sono accorto che aveva i piedi completamente capovolti. Tuttavia camminava abbastanza bene, per quanto si aiutasse con un bastone. In Italia l’avrebbero operata da piccola e le avrebbero dato un’infanzia normale. Ma qui non siamo in Italia, qui siamo in Africa.
21 agosto. Di mattina viene il villaggio di Mangawe, di pomeriggio Ndolela. E di quest’ultimo villaggio era un bambino di circa tre anni. Mentre andava via, Roberta ci ha detto che aveva perso la mamma sette giorni prima. L’ho guardato mentre si allontanava con un ragazzo, probabilmente un vicino di casa, che era venuto con lui perché nessuno aveva potuto accompagnarlo. Credo non lo dimenticherò mai più.
23 agosto. Dopo pranzo andiamo a Mkungugu. Lì c’era, tra gli altri, una bambina di un paio di anni che vive con la bisnonna. Quelli delle generazioni di mezzo erano tutti morti. Che cura può avere una bisnonna ultraottantenne di una bimba di due anni?
24 agosto. Oggi alla missione viene il villaggio di Lugolola per le adozioni. Mi sconvolge sempre vedere questi gruppi di persone, perlopiù donne e bambini, seduti a terra per delle ore, aspettando un sussidio che viene loro solo dalla buona volontà dei singoli e non certo da quella dei governi degli stati ricchi. Alla fine delle adozioni, seduto su uno sgabello cercando di rilassarmi comunico una riflessione a Karolo, uno dei seminaristi della missione. “Pensa un po’ – gli dico – pensa se il costo di una sola delle bombe che giornalmente vengono sganciate sulle città dell’Iraq venisse usato per sfamare la gente. Credo si riuscirebbe a sfamare il villaggio di Lugolola per almeno un anno, no?” Mi guarda in maniera compiaciuta, quasi avesse davvero trovato il modo per sfamare Lugolola. Lui a questo non ci aveva mai pensato eppure come riflessione, lo ammetto, non mi sembrava un granché.
25 agosto. Oggi facciamo i villaggi di Mkulula e Nyakavangala e finiamo il giro attraverso le vite devastate dei tanti bambini della missione di Ismani: vite vissute al ritmo della miseria, della precarietà, della malattia e della morte. L’ho già detto ma mi colpisce questa cosa che raramente un bambino ha entrambi i genitori vivi, quando capita ce lo comunichiamo come fosse cosa rara. E difatti lo è. L’AIDS sta ammazzando un popolo e sta lasciando soli milioni di bambini, il tutto sotto lo sguardo finto commosso dell’Occidente, al quale appartengo, che guarda dalla finestra questa scena di morte e devastazione e non si decide a porre fine al massacro.
26 agosto. Oggi è l’ultimo giorno alla missione, domani si parte, per cui la giornata dovrebbe trascorrere tra lavoretti di routine e preparazione di valige. C’è anche il tempo per un filo di bucato (tanto, per quanto lavi, le cose rimangono sempre gialline). In tarda mattinata andiamo alla Secondary School di Ismani. Di insegnanti neanche l’ombra, per cui ci intratteniamo con dei ragazzi di una classe ai quali non è sembrato vero di fare una pausa. Uno di loro a un certo punto, mi chiede a bruciapelo “come mai voi che siete di un paese ricco venite in un paese povero come questo; cosa potete fare per noi?” La domanda mi mette profondamente in crisi, anzi mi fa sentire una vera merda. Difatti, cosa possiamo fare per loro? Questa è una delle cose che sto capendo da questo viaggio in Africa: per quanto tu faccia qualcosa per loro, hai come l’impressione di non aver fatto nulla. C’è talmente tanto da fare che tutto quello che fai è molto simile a zero. Nulla cambia e tutto rimane come prima. La sensazione di impotenza mi lacera. Alla sera, a cena riceviamo il saluto di tutti e il loro ringraziamento. Credo dovrei essere io a ringraziare loro
31 agosto. Dopo qualche giorno a Dar es Salaam, oggi ripartiamo per l’Italia. Dall’aereo rivedo il deserto. Credo di aver capito, adesso, cosa spinge i migranti a partire da casa propria e tentare questo viaggio terrificante nel deserto; credo di aver capito cosa li spinge a saltare su un barcone e affrontare il Mediterraneo. Certo, è il bisogno di fuggire da condizioni di vita inumane. Ma quello che non capisco è perché al loro arrivo in Italia tutto quello che troveranno sarà un comodo CPT o un veloce aereo che li riporterà in Libia. Ma questa è un’altra storia.

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