martedì, febbraio 24, 2009

Cena con poeti morti

Giacché starò fuori per alcuni giorni, vi lascio con un racconto di Luis Sepulveda, tratto dal suo ultimo libro, La lampada di Aladino. A presto.
***
a Hugo Araya, detto il Selvaggio,
assassinato il 12 settembre 1973 alla Universidad Técnica
dai militari cileni

a Francisco Melo, detto Pancho,
poeta dai versi incendiari. Si suicidò a Santiago nel 1971
e non abbiamo mai saputo perché

a Roberto Contreras Lobos,
detto il Pensionato, poeta della tenerezza.
È morto di tristezza nel 2006


Stavamo cenando da Off Record, l’ultimo ristorante bohémien di Santiago. Si mangia bene, lì, i vini sono fantastici, la cortesia insuperabile e i prezzi onesti. Come sempre, rifiutammo il dolce e ordinammo invece un’altra bottiglia di vino. In fin dei conti si fa con la frutta, mormorò qualcuno, e fummo tutti d’accordo. Allora, come ogni volta che ci ritroviamo – siamo un gruppetto di amici che vivono in Cile o sparsi per il mondo –, un altro chiese se era morto nessuno nel periodo in cui non c’eravamo visti.
Tutti cominciammo a guardare in fondo al bicchiere, cercandovi le parole per riconoscere una delle verità più tristi, quella che ci insegna la cosa peggiore dei cinquant’anni, e cioè che a quell’età cominciano a morirci gli amici.
Gli amici non muoiono e basta: «ci» muoiono, una forza atroce ci mutila della loro compagnia e poi dobbiamo continuare a vivere con quei vuoti nelle ossa.
Ciascuno di noi controllò la sua lista di amicizie e vedendo che tutti erano ancora in piedi sulla vita, alzò gli occhi dal bicchiere e si mise a osservare la serie di fotografie che decorano i muri di Off Record. Scrittori, molti poeti, attrici, attori, altre poetesse e cantautori.
«Io non lo so se ci sono tutti e nemmeno se tutti quelli che ci sono meritano di starci, ma ne mancano tanti» intervenne qualcuno indicando le foto.
«Per esempio?» chiese un altro.
«Che ne so. Per esempio il Selvaggio.»
Allora come sempre riempimmo il bicchiere e cominciammo a parlare del Selvaggio.
Hugo Araya era un tipo altissimo, più di un metro e novanta, sembrava un piedrolari basco, coi capelli neri prematuramente brizzolati che gli arrivavano alle spalle e una barba altrettanto grigia che gli copriva metà petto. Era così il Selvaggio.
Oltre a poeta romantico, attore di commedie e pittore di miniature, quel gigante peloso era un appassionato di arti visive e arrivò a essere il miglior cameraman del canale 9, l’emittente televisiva ribelle dell’Universidad de Chile.
Viveva e dormiva attaccato alla cinepresa, che fu sempre il suo modo migliore di guardare: rivoluzionò addirittura la tecnica per portare i pesanti modelli degli Settanta, perché con una serie di sbarrette da meccano creò un attrezzo che gli permetteva di muoversi con assoluta libertà nelle manifestazioni, senza che la cinepresa lo intralciasse. Così, involontariamente, fu il primo operatore di steadycam della storia.
«Vi va di sentire una storia sul Selvaggio?» domandò un commensale e, come sempre, non aspettò risposta prima di cominciare a raccontare.

Una sera del 1969, dopo esserci rimpinzati di empanadas al circolo Chile rie y canta, il Selvaggio, Roberto Contreras, Pancho Melo e il sottoscritto decidemmo di andare a bere qualcosa in plaza de Armas, anche se quella del bere era solo una scusa per accompagnare il poeta Contreras, perché ci aveva descritto mille volte le meravigliose doti fisiche della sua ultima conquista, una ragazza che serviva al Caffé Marco Polo.
«E il culetto com’è?» gli domandavamo.
«Non siate banali, ma insomma, fratelli, ha uno di quei culetti che se gli danno un microfono, canta» diceva il poeta e gonfiava il petto.
Uscimmo sull’Alameda, arrivammo al paseo Ahumada e scendemmo verso la piazza spaventando la gente con Hugo Araya.
«Attenti, non vi avvicinate, morde!» gridavamo, e più di uno si fece da parte prendendo sul serio l’avvertimento. Il Selvaggio ci metteva del suo lanciando ruggiti da leone asmatico e quando fingeva di attaccare lo trattenevamo strepitando.
«Pancho, svelto, dagli il calmante!» strillavamo io e Contreras.
Il poeta Pancho Melo gli saltava addosso, gli apriva la bocca e ci infilava dentro una delle sua immancabili pasticche di vitamina C, sostanza secondo lui fondamentale per la salute dei bardi.
Poco prima di entrare al Marco Polo, il Selvaggio convocò un consiglio di guerra per strappare al poeta Melo il giuramento, pena un calcio nel culo con i suoi stivali numero quarantotto, di non far nulla, ma proprio nulla, per soffiare la conquista a Roberto.
«Tranquilli. Il cuore è un cacciatore solitario» assicurava conciliante Contreras.
«Lasciate per lo meno che le scriva un sonetto» ribatteva Melo.
Al Marco Polo ci avvicinammo al bancone, chiedemmo delle birre che bevemmo in fretta, perché le meravigliose doti fisiche dalla ragazza non si vedevano da nessuna parte, e ce la svignammo commentando che forse il lungo grembiule bianco che portava era troppo largo.
Lasciammo Roberto lì da solo, stretto alla sua bottiglia di Fanta (l’unica cosa che bevevo per non perdere mai la compostezza da massone), tutto intento a contemplare la sua conquista e a provocarsi starnuti sibaritici con la punta di uno spillone d’argento che portava sempre appuntato sul risvolto della giacca.
«Avete sentito come l’ha salutato? ‘Buonasera, signor Roberto.’ Ma che schifo» disse il Selvaggio.
«Quella femmina è tutto un fuoco, sa maneggiare i codici della seduzione. Quel ‘buonasera’ era una bella promessa di piaceri notturni» spiegò Pancho Melo.
«’Signor Roberto.’ Se una donna mi chiama signor Hugo vado di corsa all’ospedale geriatrico» meditò il Selvaggio.
«Questo dimostra cosa sei, un selvaggio. Roberto ha l’aria di un signore all’antica, dei tempi delle colonie, sarebbe stato bene nei secoli d’oro quando i veri cavalieri erano sempre celibi. Il cavaliere celibe. Che bel titolo per un sonetto da dedicare a Roberto» dichiarò il poeta Melo.
«Che figlio di puttana» esclamammo in coro io e il Selvaggio.
«Questo è vero» ribatté il poeta Melo e cominciò a raccontarci la centesima versione della sua biografia. Scriveva versi molto belli, ma il suo vero talento stava nell’inventarsi ogni sera una biografia diversa. Stavolta saltò fuori che la madre che tutti conoscevamo era in realtà la sua istitutrice nonché madre adottiva, perché suo padre, il conte Melosky, consigliere della famiglia Romanov in esilio, aveva fatto voto di castità e intendeva rispettarlo fin quando l’erede dello zar non fosse tornato sul trono di Russia. Ma la sua vera madre, la contessa, aveva l’abitudine da cacciare il coniuge dall’alcova col pretesto di pregare per la restaurazione della monarchia e, all’alba, quando gli permetteva di farvi ritorno, il conte trovava sempre piume nel letto, piume bianche di un arcangelo che, assicurava la contessa, le faceva visita durante le preghiere.
«Evidentemente erano piume d’oca, poi sono nato io e mi hanno mandato in Cile, il resto è irrilevante» dichiarò.
«Così ti chiami Melosky» disse il Selvaggio, e cominciammo tutti a ridere, finché una piccola tristezza non gelò la nostra allegria.
Su una panchina della piazza c’era un bambino, un ragazzino curvo come un vecchio. Non doveva avere più di dieci anni e piangeva disperato.
«Che ti è successo, signorino?» domandò il Selvaggio.
Tirando su col naso ci raccontò che gli avevano rubato la cassetta degli attrezzi con tutti i guadagni della giornata e non aveva il coraggio di tornare a casa.
Il Selvaggio disse che dovevamo fare qualcosa e chiamò un altro lustrascarpe.
«Amico, prendo a noleggio la tua cassetta per un’ora, con tutto quel che c’è dentro.»
Il lustrascarpe, esagerando il suo successo professionale, spiegò che in un’ora serviva una quindicina di clienti e che ci lasciava gli attrezzi solo per la cifra corrispondente.
Pagammo e il Selvaggio consegnò la cassetta al ragazzino.
«Forza, signorino, facci brillare» ordinò.
«Un momento, io ho i sandali» protestò il poeta Melo.
«Cazzi tuoi, Melosky» ribatté il Selvaggio.
Il ragazzino si asciugò il naso con una manica del maglione, le lacrime col dorso della mano, e con una spazzola diede due colpetti sulla cassetta come a dire che era pronto a servire il primo cliente.
Spazzola, tinta, energici colpi di straccio, lucido, ancora spazzola e infine altri colpi di straccio per far splendere il cuoio e farlo cantare come un canarino. Il Selvaggio con due stivali tirati a specchio lasciò il posto a Melo, ma nonostante la grande attenzione del ragazzino il poeta finì con sandali e piedi impeccabilmente marroni. Poi fu il turno dei miei mocassini e alla fine pagammo.
«Come va adesso, signorino?» domandò il Selvaggio.
Il ragazzino guardò le monete e sul suo volto di non più di dieci anni si disegnò ancora una volta la smorfia della disperazione.
«Tranquillo, abbiamo tempo» lo consolò il Selvaggio e subito cominciammo a pestarci i piedi finché le scarpe non furono irriconoscibili. Il poeta Melo, con la scusa della fragilità dei suoi sandali, evitò i pestoni e preferì strappare una zolla di erba con cui s’infangò i calzari francescani.
Dopo il quarto giro di «lustra e sporca» si aggiunse altra gente, bohémien che uscivano dal Black and White, dal Marco Polo, dal Faisan d’Or, dal Chez Henri. Spiegammo a tutti il problema e, poiché Santiago in quegli anni era così, la clientela si moltiplicò per venti.
Quelle piccole mani sporche di vernice volavano spazzolando, tirando la tinta, il lucido, strusciando con gusto la flanella fino allo splendore finale, e il bambino sorrideva togliendosi i resti di tristezza con la manica.
Passò l’ora convenuta e il padrone della cassetta, abbastanza seccato del successo professionale del collega, reclamò indietro i suoi attrezzi da lavoro.
«Allora, signorino? Abbiamo vinto la battaglia della produzione?» domandò il Selvaggio.
Il ragazzino contò i soldi, annuì e li mise via infilandoli in tutte le tasche.
«Grazie tante, signori» ci disse tendendoci la manina sporca di lucido.
«Si dice: grazie, compagni» lo corresse il Selvaggio.
Tornammo al Marco Polo per sapere di Roberto e lo trovammo gonfio di Fanta. Si preparava a leggerci la sua ultima poesia sulle sventure dell’amore nel mondo gastronomico quando si interruppe indicando stupito le nostre scarpe splendenti e i piedi del poeta Melo di un brillante marrone.
«Che vi è successo?» disse tra effluvi di Fanta.
«Nulla. Ci siamo lucidati l’anima» rispose il Selvaggio.
*
Il vino riempie i bicchieri. Al nostro tavolo di Off Record si sono avvicinati vari clienti per ascoltare la storia. A volte il vino è la manifestazione liquida del silenzio.
«Hugo, il Selvaggio, era fatto così» dice qualcuno.
«No, il Selvaggio è fatto così, perché se li nominiamo e raccontiamo le loro storie, i nostri morti non muoiono» replica un altro.
E i bicchieri di vino si alzano e si toccano con un rumore allegro di campane nella notte fraterna di Santiago.

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