lunedì, luglio 20, 2009

Torno in Africa


Quest’anno vado in Africa. Di nuovo. E sempre alla missione di Ismani, regione di Iringa, altipiano centro-meridionale della Tanzania. E del resto, da quando ci sono andato la prima volta, nel 2004, non passa giorno che io non pensi di tornarci. Ecco qua, di seguito elencate e spiegate, e commentate, alcune delle parole che per un mese sentirò e dirò a Ismani. Fanno parte del quotidiano di quel posto e per un breve periodo, quale può essere un mese, anche del mio. Un quotidiano e un posto certamente molto diversi dai nostri e che spesso stentiamo a credere e a capire. È un piccolo glossario, ovviamente non esaustivo. Magari quegli otto buffoni che di recente hanno fatto quella festicciola a L’Aquila potrebbero impararlo, non è difficile. Certamente dopo smetterebbero di blaterare sull’Africa e su quanto siamo buoni e generosi noi ricchi.

Mzungu – straniero, bianco. Ce lo sentiamo dire spesso, anche nella variante plurale wazungu, quando andiamo in giro. Dai bambini come dagli adulti, a Ismani come a Iringa come a Dar es Salaam. Significa uomo bianco, più sottilmente europeo, non americano, ché quello è maracani. Mzungu in generale non è offensivo, come negro da noi. Il luogo comune dice che il nero ama il bianco alla follia, lo stima, lo riverisce, gli vuole bene, bla bla bla. Non sempre ho visto volti rilassati nei nostri confronti, disponibilità o benevolenza. Spesso sì ma non sempre. Mi chiedo cosa pensano di noi, se ci considerano superiori a loro, come noi bianchi, tutti in fondo in fondo, crediamo di essere.

Shida – problema. Abbiamo ribattezzato così le donne che aspettano per ore e ore davanti alla missione, sotto il sole, per essere ricevute coi loro bambini in collo o per mano. (In realtà, memori della nostra provenienza dal cinico mondo occidentale e grazie anche a una discreta frequentazione del velinato mondo della TV, le abbiamo chiamate shida girls. Siamo un po' stronzi, è vero.) Fanno la fila, o meglio stanno ad aspettare davanti la porta dell’ufficio della missione che qualcuno si accorga di loro e le ascolti. Entrano nell’ufficio, si seggono e si mettono a parlare a voce bassa. Donne giovani, meno giovani, vecchie. Con uno due tre figli, quasi sempre uno dei quali sulle spalle tenuto dalla kanga. Non conosco lo swahili ma so che a un certo punto sentirò quella parola: shida. E infatti dalla voce bassa e roca infine la parola esce, insieme ad altre per me incomprensibili ma che diranno certamente di cibo scarso, di papà morto, di ospedale caro, di farina di mais, di figli senza scarpe. Alcune tirano fuori dei quaderni o dei fogli di carta, scritti da medici di ospedali, in cui si narrano le vicende cliniche dei loro figli o di loro stesse. Penso alle file, agli assembramenti delle shida girls e non mi vengono in mente pensieri positivi. Chi l’ha detta quella stronzata che i poveri hanno sempre il sorriso sulle labbra e il cuore contento? E del resto, perché dovrebbero averlo, perché dovrebbero essere felici? Forse per far contenti noi occidentali ricchi? I poveri non sono così allegri, belli-e-felici-nonostante-tutto come li si vuole dipingere. I poveri sono tristi, scostanti, sporchi, bui e puzzolenti. E del resto perché non dovrebbero esserlo? Nella piccola anticamera dell’ufficio si assembrano le mama, le bibi, i watoto accompagnati tutti da un puzzo a volte irresistibile di vestiti sporchi, di piedi, di igiene al grado zero. O cosa può essere entrare in una stanza di ospedale. E l’oleografia occidentale, magari di chi un giretto da queste parti non se l’è mai fatto, vorrebbe presentarceli come sempre felici. Forse per esorcizzare i sensi di colpa che a volte ci prendono nel pensare che non muoviamo un dito per loro; per dire che anche se ci facciamo i beati cavoli nostri, in fondo loro non stanno così male perché sono sempre allegri e contenti. E allora noi possiamo continuare a fregarcene e guardare Il Grande Fratello. In santa pace.

Bibi – nonna. Spesso rimane l’ultima persona nella vita dei bambini di Ismani. Muoiono i padri, le madri, gli zii; i fratelli maggiori se ne vanno per i fatti loro e i poveri bambini restano con le nonne, le bibi. Che si prendono cura di loro con amore, senza dubbio, ma senza il vigore che può avere una persona giovane. Arrivano alla missione per i
l colloquio dell’adozione a distanza e stanno ore e ore sedute per terra, scalze o con delle vecchie scarpe da ginnastica, con le loro kanga lise e aspettano con pazienza il loro turno. Poi ci sentono chiamare l’appello e quando sentono il nome del nipote, rispondono Nipo, c’è. Sembrano persone rassegnate. Non ho mai visto piangere una bibi. Neanche quando parla della mamma, morta, del bambino che accompagna, e che magari era sua figlia. Le bibi non piangono neanche quando ci vengono a dire di adottare un altro nipote, visto che quello che era adottato in precedenza è morto di malaria due mesi prima. Neanche quando descrivono le atmosfere di totale povertà nelle quali vivono e nelle quali gli tocca portare avanti la propria e l’altrui esistenza. Mi chiedo se le bibi sanno che al di fuori di Ismani esiste un altro mondo, e che quel mondo in molti casi è diverso dal loro. Non dico migliore, diverso.
Qualche anno fa, nel viaggio di ritorno abbiamo portato con noi un bambino con la sua bibi. Bambino nato con una malformazione ai genitali e che per soprammercato ha perduto entrambi i genitori. La bibi è venuta diverse volte in missione a piedi da Chamndindi, un villaggio piuttosto lontano, chiedendo di aiutare in qualche modo il nipote. Alla fine abbiamo deciso di portarli a Dar es Salaam per far visitare il bimbo in ospedale e poi vedere il da farsi. A Dar, la donna è stata alloggiata al piano inferiore della casa dove risiedevamo anche noi. A sera, quando già quasi tutti erano a dormire, notiamo che la luce della camera di bibi e nipote era ancora accesa. Non c’erano persiane sicché, mossi da semplice curiosità, dalla necessità di non farci i cavoli nostri, ci avviciniamo per cercare di capire il motivo per cui non fossero ancora a letto. E invece scopriamo che i due dormivano già, e della grossa. Poi abbiamo fatto mente locale: la bibi non aveva spento la luce perché non conosce la luce, quella elettrica quanto meno, non sa che c’è un interruttore che la accende e la spegne. Lei non sa cosa sia un interruttore. Per lei la luce è quella che viene al mattino e che va via al tramonto la sera e che nessun interruttore può accendere o spegnere.
Che poi anche la vecchiaia a Ismani è un concetto relativo, come la vita, la morte, il dolore. Una donna si professava ormai vecchia assai; diceva di essere incapace di prendersi cura dei nipoti, perchè troppo in età avanzata. Alle insistite richieste di rivelarci l’età disse di avere 55 anni.

Alikufa – è morto. È quello che ogni tanto ci sentiamo dire quando chiamiamo i bambini delle adozioni. Ne esiste un’altra versione: alifariki. Ed è quello che non vorremmo mai sentirci dire. Alikufa, dice qualcuno, magari la stessa mamma o la bibi. A volte lo accompagnano con dei gesti sconsolati delle mani, ci guardano e parlano di quella morte come se ci dicessero, non so, che c’è stato un temporale, un furto di polli o comunque qualcosa che poteva capitare e così sia. Trovo molto fatalismo in questo atteggiamento e non so se ammirarlo o incazzarmene. Un bambino muore di AIDS o di malaria o per una bronchite incarognita e la bibi guardandoti, col breve muovere delle mani dice Alikufa, come dicesse: “Vabbe’, pazienza, e che ci vogliamo fare?” E si scopre che in quella casa non è neanche il primo bambino che muore. Da noi, quando in una casa muore un bambino, i genitori ne hanno la vita sconvolta per sempre. Non si riprendono più. Lì invece c’è una visione totalmente diversa della morte e della sofferenza. Sembra che la morte faccia parte della vita, sembra che ne sia solo un episodio. E penso che forse questo è l’atteggiamento giusto per guardare la morte e probabilmente per non temerla.

Maji – acqua. A Ismani non c’è l’acqua. In quasi ogni villaggio c’è il pozzo al quale tutti si riforniscono. Spesso è distante qualche chilometro. L’acqua vanno a prenderla l
e mamme o le bibi o le stesse bambine, col plastik moja, il secchio di plastica, in bilico sulla testa. All’andata va bene ma al ritorno, col secchio da venti litri sulla testa, facile facile non deve essere, nonostante l’abitudine. Quando vedo le bambine col secchio in testa non posso fare a mano di pensare alle mie alunnette di Favara, coi loro jeans a vita bassa e le magliettine risicate che lasciano scoperto l’ombelico, coi loro zainetti Seven o le loro pochette Prima Classe, con le loro scarpe Nike e le felpe Baci e Abbracci. E penso che va bene che loro abbiano tutte queste cose ma perché non anche le bambine di Ismani? Vanno e vengono coi secchi d’acqua sulla testa.
Certo, chiamare acqua quella roba liquida giallina, marroncina o verdina è piuttosto azzardato ma tant’è. È acqua. Che va bollita, ribollita e filtrata perché possa essere buona da bere. Non sarà mai buona da bere. Ogni volta che chiediamo ai bambini adottati notizie sulla loro salute, un mucchio di volte ci sentiamo dire che hanno problemi di tumbo, stomaco.

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