lunedì, luglio 06, 2009

SAN CALO'


I nomi tipici della nostra città sono due: Gerlando e Calogero. Gerlando – in siciliano Giullannu, abbreviato Giullà o Giuggiù – e Calogero – normalmente detto Lillo ma talora anche Calò o Luzzu. Gerlando e Calogero sono i nomi dei due patroni della città. E qui c'è da fare un discorsetto a parte, nel senso che il vero patrono di Girgenti è San Gerlando (foto), vescovo francese che, chissà come, arrivò da queste parti. Oddio, qualcuno sa come e perché ci arrivò, fatto sta che diventò vescovo di Girgenti e in seguito – siccome era straniero e noi abbiamo una sorta di predilezione per gli stranieri – divenne pure Santo e patrono. A lui è dedicata la cattedrale, che è bella vero. In passato – ricordo – quando c’era tipo una pioggia forte con lampi e tuoni o si vedeva un incidente o si sentiva passare la sirena si diceva San Giullannu senza ddannu. Si commemora il quindici di febbraio e gli agrigentini non vanno a lavorare. Soltanto che la fortuna non ha molto arriso a San Giullà, perché gli agrigentini gli hanno sempre preferito San Calogero, ovvero San Calò (altra foto), il santo nero, titolare della festa religiosa più importante di Girgenti. Oddio, di religioso la festa di San Calò ha davvero pochino e mi dispiace dirlo perché molti miei concittadini ne sono veramente e sentitamente devoti. O forse è di una religiosità talmente primitiva – detto col dovuto rispetto – che sembra che se ne sia persa la profonda valenza religiosa per lasciar posto a quella popolare o folkloristica. In ogni caso San Calò è un caposaldo della cultura di questa città, basti pensare che è anche entrato nel linguaggio comune degli agrigentini. San Calò è un termine che indica confusione, ressa. Per dire che in un posto c'è molta folla si può dire: c'è San Calò. Inoltre per dire che qualcosa non viene affrontata con la dovuta cura si dice: C’è San Calò ‘n manu ‘e carusi, cioè San Calogero in mano ai ragazzini, la qual cosa evidenzia l’amore degli agrigentini per il loro santo, al quale deve essere dedicata la massima attenzione. C’è anche una bella canzone popolare, molto allegra, che rende omaggio al santo nero e che ne esalta le virtù (San Caloriu di Giurgenti fa li grazii pi’ nenti) o anche le magagne (San Caloriu di Grutti mangia, vivi e sinni futti).
Allora, questa festa si svolge tra la prima e la seconda domenica di luglio quindi vuol dire con un caldo che si muore. E tutto comincia qualche giorno prima con un gruppo di tammurinara (suonatori di tamburi) che attraversano tutta la città e ricordano che si sta avvicinando la festa (Brèbbiti brèbbiti San Calò). Tempo fa assistetti a un improvvisato concerto di tammurinara, sul sagrato della chiesa di San Calò. Il ritmo era frenetico e martellante, sempre uguale, e ricordo che a un certo punto cominciai a sentirmi come staccato dalla realtà del momento, come in una sorta di stato semi ipnotico indotto dal tambureggiare assordante e convulso.
Ma il protagonista assoluto della festa di San Calò è il pane. Molte persone nei giorni precedenti portano dei pani in varie forme, praticamente degli ex-voto; per esempio, uno ha avuto un’operazione al cuore e allora porta un pane a forma di cuore a San Calò, non so se mi spiego. I pani vengono portati alla chiesa, anzi al Santuario, di San Calogero che si trova proprio al centro della città, di fronte alla stazione dei treni. Sulla facciata esterna c’è anche un Ecce Homo che tutti ci passano davanti e si fanno la croce e a volte le spose lasciano il bouquet.
Le cose che racconterò adesso sono reminiscenze di parecchi anni fa ovvero l’unica volta che ho veramente assistito alla festa. Intanto c'è da dire che il giorno della festa, alle sette di mattina che tu ancora dormi e non te l’aspetti, sparano un bel po’ di colpi di cannone, ti svegli di soprassalto e rischi che ti viene un infarto e ti togli per sempre dalle balle. Comunque. Torno al racconto, allora, mentre c’era la messa si sente un urlo disumano di Ebbiva San Calò, che – giuro – praticamente mi si sono drizzati i capelli sulla testa (e sì che allora ce li avevo) mentre tra la gente, anzi, qualcuno rispondeva pure Ebbiva San Calò. Di queste urla agghiaccianti se ne sono sentite fino alla fine della messa, tanto che in alcuni momenti il parrino faticava ad andare avanti. Alla fine della funzione si cominciò a preparare la statua del Santo per la processione e ricordo che un tizio salì sulla statua, che è messa lì in fondo all’altare maggiore della chiesa, e armeggiò un po’ con la faccia nera di San Calò, non capivo bene cosa facesse. A proposito, il bello di questo Santo è che non si hanno neanche notizie certe sulla sua vita; si dice che era un eremita, qualcuno dice che erano sette fratelli neri e qualcun altro addirittura che potrebbe non essere mai esistito. Comunque, mentre ‘sto tizio smanettava sull’altare col Santo, i tamburi suonavano furiosamente e le persone fuori gridavano come pazzi: E chiamamu a cu n’aiuta – Ebbiva San Calò. E allora dopo un po’ calano la statua dal suo posto, le fanno percorrere la chiesa e la sistemano sulla vara, cioè sul piedistallo. Poi vi inseriscono due lunghe pertiche e così il simulacro è pronto per la processione. Ora, io penso che la statua più il piedistallo più le pertiche peseranno un vero castigo di dio per cui è necessario che ci siano decine di persone che, magari alternandosi, percorrano tutto il tragitto della processione che peraltro è bello lungo. E infatti ci sono, perché esiste una confraternita, i Devoti Portatori di San Calogero, i quali nei giorni della festa indossano una casacca bianca e in testa una sorta di bandana colorata. Pittoreschi davvero. Con tutto il rispetto – ed è veramente tanto – i portatori appartengono perlopiù alle fasce popolari della città per cui, proprio a volerlo dire, non è che siano dei gran raffinati! Sicché, non appena la statua di San Calò mette il naso fuori dalla chiesa si cominciano a sentire fior di bestemmioni che il povero Gesù Cristo e la povera madonnina fanno su e giù. E quale sarebbe il perché di tanta foga? Richiamare la banda. E qui devo introdurre un altro protagonista della festa di San Calò, la musica appunto. Ma non un repertorio di pezzi da banda o marcette o brani da processione, bensì un solo brano: la Zingarella – che se ci fosse un supporto sonoro io ve la potrei pure canticchiare perché è veramente troppo bella. Nel Gattopardo, il romanzo di Tomasi di Lampedusa, l’autore riporta che quando il Principe Salina arriva con la famiglia a Donnafugata per passare le vacanze, viene accolto dalla banda, che intona la Zingarella. Pare sia lo stesso pezzo anche se, ad onor del vero, nel film di Visconti il pezzo suonato dalla banda non è lo stesso della processione di San Calò. Ma a me piace pensare che abbia sbagliato Visconti.
Chiunque assista alla festa di San Calò – vuoi alla processione vuoi a tutto quanto il periodo di festa – non può fare a meno di notare che alcune donne sono scalze. Fanno il cosiddetto viaggiu ‘n piduni. Le donne scalze sono presenti nelle processioni più importanti di Girgenti e cioè quella di San Calò e quella del venerdì Santo. È un voto che queste signore fanno per chiedere una grazia particolare a San Calogero o a Gesù Crocifisso o all’Addolorata. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, le donne indossano calzini, preferibilmente blu. Non c’è dubbio che sia una prova di fede che non ha bisogno di commenti.
Per cui, tornando alla festa, a questo punto la situazione è la seguente: San Calò si trova sul sagrato della chiesa in attesa di iniziare la processione, i devoti portatori con urla belluine lo prendono in spalla, i tamburi suonano ritmi da sciamani; San Calò ondeggia pericolosamente, la banda suona la Zingarella e la gente grida e si scalmana. E qui ritorna il protagonista: il pane. Infatti dai balconi la gente piglia e comincia a tirare i panuzzi di San Calò. Il panuzzo di San Calò è una vera meraviglia: una cupoletta di pane di non più di 50 grammi, aromatizzato con semi di finocchio. Viene prodotto solo in prossimità della festa. Perché si tira il pane? Perché si racconta che quando il vecchio Calogero era vivo ci fu una peste o qualcosa del genere; per cui l’uomo di Dio andava in giro casa per casa a cercare qualcosa per alleviare le pene dei poveri malati. Ora, siccome la gente si cacava un sacco del contagio, non apriva la porta, pertanto al buon Calogero buttavano il pane dalle finestre. Ed ecco perché tuttora, non appena la statua di San Calò esce dalla chiesa, e per tutto il tragitto della processione, dalle finestre le persone rovesciano sul Santo migliaia di panini, del peso complessivo di diversi quintali, in ricordo di quell’episodio.
Dopo un po’ di attesa sul sagrato – voci, urla, caldo, sudore, spinte, tamburi a palla e Zingarella a manetta – San Calò si avvia verso via Atenea. La situazione è sempre di grande confusione, la gente chiama il Santo, ne invoca l’aiuto; lui intanto procede barcollando e tu dici: Stavolta cade. Ma ovviamente, sfuggendo a qualunque regola di fisica, non cade. Ogni tanto si ferma e le persone a turno salgono sulla statua per baciarlo e per impregnare dei fazzoletti col sudore di San Calò (che invece più laicamente è la sputazza delle persone che lo baciano). La banda suona e la gente urla; sulla statua, quando è ferma, due o tre energumeni aiutano i fedeli a salire. Oppure dalla folla prendono i bambini porti dai genitori – anche bimbi piccolissimi, lattanti – e li avvicinano alla faccia nera di San Calò per fargliela baciare. E si vedono ‘ste povere creature assolutamente terrorizzate, tirate su per un braccio, in lacrime di disperazione, costrette a fare una cosa che non si sognerebbero mai di fare. Intanto – la Zingarella come colonna sonora e il pane che continua a venir giù dai balconi (senza contare che se un panino ti colpisce dal terzo-quarto piano ti sbinghia) – la statua di San Calò si arrampica per le viuzze del centro storico di Girgenti.
Nel frattempo tra i devoti portatori cominciano a girare delle gran bottiglie di vino – vino di tavernazza, ovviamente – per cui dopo un po’ di tragitto, tra l’eccitazione, la musica, la fede e il vino, il devoto portatore è bello paro paro e mi hanno detto che ogni anno a un certo punto della processione scoppiano delle belle scazzottate. Anzi, pare che ci sia un punto al centro storico dove si fa una sorta di scazzottata rituale, ogni anno sempre allo stesso posto. Io quell’anno lasciai la processione a un certo punto, prima della sacra rissa, dopo aver baciato il Santo e urlato un paio di Ebbiva San Calò per dovere di firma. Alla fine della processione popolare, ne inizia un’altra – questa più compostamente religiosa – che riporta San Calò in chiesa su un camioncino, coi parrini e la gente che prega e canta inni sacri; niente Zingarella, niente pane dai balconi, niente devoti portatori, niente vino, niente bestemmie, niente urla, niente cazzotti. Alla fine della processione, a tarda sera, si fanno i fuochi d’artificio con la maschiata finale. Poi la statua viene riportata in chiesa e così finisce la festa di San Calò.


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