Come molte altre cose, oggigiorno anche il commercio è molto cambiato. È raro vedere, infatti, dei commercianti che raggiungono i propri clienti fin nelle proprie case o comunque nelle immediate vicinanze. Al contrario, è il cliente che, mosso dalla necessità degli acquisti, si reca al negozio o, sempre più spesso, al centro commerciale. Invece negli anni della nostra infanzia al Sottogas, quartiere popolare di Girgenti, questa era una cosa assolutamente normale. I venditori ambulanti erano molti di più che adesso ed anzi per alcuni di loro l’aprire un negozietto rappresentava un miglioramento della propria condizione e un’emancipazione da decenni di lavoro ‘o straventu.
Il paradigma di questa categoria erano i fruttivendoli, i fruttara o fruttalora. I quali, in groppa a macilenti asinelli, o su più robusti muli, attraversavano lo spazio del quartiere, ripresentandosi quotidianamente, allo stesso orario nello stesso posto, magari sgarrando di una mezz’oretta (Chi fici stamatina u fruttaru, un vinni chiù? Sta vinennu, u ‘ntisi abbanniari!), tuttavia puntuali. Le povere bestie barcollavano e ondeggiavano sotto il peso di due enormi bisacce, e talora anche dello stesso fruttivendolo, fermandosi fin nei cortili più interni de

Le donne che scendevano giù a fare gli acquisti avevano la possibilità di toccare la roba e scegliere la migliore, noncuranti delle lamentele del fruttivendolo; invece sbolognare le porcherie era più facile quando la compravendita avveniva dal balcone o dalla finestra di casa. La donna e l’ambulante si intrattenevano per un po’ sulla merce, ne discutevano, negoziavano; la massaia si lamentava un po’ dei prezzi ma poi ordinava ciò che le serviva e a questo punto si verificava l’azione definitiva: la donna calava ‘u panaru. Metteva i soldi dentro al paniere di vimini, lo faceva scendere fino al livello del suolo e l’uomo ritirava i soldi e vi poneva la merce. In alcuni casi, a causa della diffidenza della donna, il procedimento era più elaborato: essa mandava giù ‘u panaru senza soldi, tirava su la spesa, la controllava e, se era di suo gradimento, la teneva e rimandava giù il paniere con i soldi. Questa operazione normalmente faceva saltare i nervi al venditore il quale biascicava bestemmioni coloritissimi.
La pesa della merce era quanto di più approssimativo
Mentre il fruttivendolo era tenuto in stato d’assedio dalle massaie, noi bambini ci intrattenevamo con l’animale, osservandone le abitudini, esaltandoci quando ragliava, toccandogli il muso carnoso e mucillaginoso o guardandolo mentre espletava i suoi bisogni organici. Una volta uno ci starnutì addosso, tra il divertimento e lo schifo. Infatti, spesso alla fine della vendita, l’ambulante andava via lasciando una scia odorosa di fuméri dietro di sé. A quei tempi era usuale vedere per strada escrementi di animale e ovviamente dalla tipologia del deposito organico – scia o mucchietto – si capiva se l’animale aveva defecato in cammino oppure da fermo. Una volta una signora che abitava nel cortile dell’Ina Casa ci chiese di raccoglierle le sferette di merda di mulo che avrebbe in seguito utilizzato come concime per il suo orticello. Beh, nonostante lo schifo oggettivo dell’operazione, noi ci prestammo a farlo ed anzi trovammo la cosa divertentissima. Io e mio fratello Fabio la ricordiamo spesso con piacere e non siamo affatto pentiti di averlo fatto!
Del ricottaro ho già parlato e, per rimanere in tema di latticini, alla sera, poi, veniva il lattaio. Bussava alla porta e lo trovavamo con le taniche cilindriche di latta poggiate per terra. Ricordo che l’uomo emanava un caratteristico odore di beccume. Infilava una caraffa di metallo dentro il bidone e la tirava su gocciolante di profumatissimo latte di capra che versava nel contenitore di mia nonna. Questo però avveniva a casa di mia nonna, appunto; noi, a casa nostra, compravamo il latte Polenghi Lombardo (il latte Stella, per l’esattezz

Passa l’arrotino, ammola forbici e cortelli! L’arrotino, appunto, era uno di quei mestieri che solleticavano di più la nostra fantasia e questo era il suo modo di abbanniari. Andava in giro con la sua straordinaria biciclettina che aveva la sola ruota davanti e una forcella dietro. Veniva bloccato dalle massaie che dai balconi gli intimavano lo stop e al momento di lavorare poggiava la forcella al suolo, prendeva posto sul sellino e cominciava a pedalare. La pedalata azionava una teoria di catene e ingranaggi che mettevano in moto una mola circolare. L’uomo poi poggiava il coltello sulla pietra rotante e lì il momento magico… dalla pietra schizzava fuori un fiume di scintille multicolore. Molte si spegnevano subito ma alcune arrivavano fino a terra mentre noi avremmo passato delle ore fissi a guardare quella magia. Infine, tornavamo a casa e provavamo i coltelli appena riaffilati, tagliando cose che naturalmente non dovevamo tagliare (pezzi di pane, stoffe, dita etc…).
Sporadicamente passavano anche il riparatore di cucine a gas e un venditore di biancheria il cui grido era un cantilenante Maglie e mutande di lana! Arrivava ogni tanto, credo nel periodo autunnale, era una sorta di apparizione con quei cartoni, e come veniva se ne andava. Credo se la passasse piuttosto male. Un altro venditore era quello delle uova (gridava Ova avemu) e un altro ancora quello del sale (5 pacchi di sale 1000 lire) che a volte, e francamente me ne sfugge il nesso, ven

Ma gli ambulanti che davvero catturavano la nostra più viva curiosità erano i marocchini che per primi arrivarono all’inizio degli anni ’70 e vendevano esclusivamente tappeti, di pessima fattura, ma che per noi potevano tranquillamente essere i tappeti volanti delle Mille e una notte. Molti li ricorderanno ancora, erano uomini di mezza età, alcuni già anzianotti, che vestivano ancora all’orientale, con caftani e fez e parlavano un italiano terrificante. Per noi erano come la reincarnazione di Alì Babà in persona e li avvicinavamo più che altro per sentirli parlare e per la curiosità di trovarci di fronte a persone oggettivamente diverse da noi. Li toccavamo, scimmiottavamo la lingua araba, gli stringevamo la mano, gli davamo delle pacche ed eravamo contenti quando la volta successiva dimostravano di ricordarsi di noi. Gridavano Tapééé, vendevano tappeti orrendi con scene di harem ottomani o di pavoni che fanno la ruota ma anche di cacce alla volpe inglesi o di corride spagnole. A quel tempo l’Italia non era ancora stata investita dai flussi migratori dei lavoratori stranieri, per cui queste persone suscitavano molta curiosità.
Infine, quello che è veramente scomparso dalla circolazione è il netturbino a domicilio. C’era un signore, lo ricordo ancora, piuttosto alto, ben piazzato, stempiato, che saliva fino a casa con un sacco di juta e dei guantoni bisunti e veniva a prendere l’immondizia. La quale non veniva messa dentro a dei sacchetti di plastica come si fa adesso, ma direttamente dal secchio veniva buttata dentro il sacco dello spazzino. Nei periodi di Natale e Pasqua il netturbino chiedeva i boni festi, cioè un obolo supplementare in occasione delle festività. Da piccolo pensavo che quello fosse il mestiere peggiore del mondo.
3 commenti:
Mi pare lecito ricordare che anche l'operatore ecologico gridava la sua merce: "muuuunizzaaaaa"....
A quei tempi il "political correct" non era ancora stato inventato....
Ah, tinne pacchi...
E il prototipo del munnizzaro a domicilio era tal Matteo dai capelli rossissimi e foltissimi a mo' di scopa di ggiummarra ben ritta sul capo e dalle sopracciglia a tendina, ispide e ingeneranti terrore nei più piccoli. "A munnizzaaaaa!" e tutti noi scappavamo al grido di "Matteo, c'è!".
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