martedì, febbraio 24, 2009

Cena con poeti morti

Giacché starò fuori per alcuni giorni, vi lascio con un racconto di Luis Sepulveda, tratto dal suo ultimo libro, La lampada di Aladino. A presto.
***
a Hugo Araya, detto il Selvaggio,
assassinato il 12 settembre 1973 alla Universidad Técnica
dai militari cileni

a Francisco Melo, detto Pancho,
poeta dai versi incendiari. Si suicidò a Santiago nel 1971
e non abbiamo mai saputo perché

a Roberto Contreras Lobos,
detto il Pensionato, poeta della tenerezza.
È morto di tristezza nel 2006


Stavamo cenando da Off Record, l’ultimo ristorante bohémien di Santiago. Si mangia bene, lì, i vini sono fantastici, la cortesia insuperabile e i prezzi onesti. Come sempre, rifiutammo il dolce e ordinammo invece un’altra bottiglia di vino. In fin dei conti si fa con la frutta, mormorò qualcuno, e fummo tutti d’accordo. Allora, come ogni volta che ci ritroviamo – siamo un gruppetto di amici che vivono in Cile o sparsi per il mondo –, un altro chiese se era morto nessuno nel periodo in cui non c’eravamo visti.
Tutti cominciammo a guardare in fondo al bicchiere, cercandovi le parole per riconoscere una delle verità più tristi, quella che ci insegna la cosa peggiore dei cinquant’anni, e cioè che a quell’età cominciano a morirci gli amici.
Gli amici non muoiono e basta: «ci» muoiono, una forza atroce ci mutila della loro compagnia e poi dobbiamo continuare a vivere con quei vuoti nelle ossa.
Ciascuno di noi controllò la sua lista di amicizie e vedendo che tutti erano ancora in piedi sulla vita, alzò gli occhi dal bicchiere e si mise a osservare la serie di fotografie che decorano i muri di Off Record. Scrittori, molti poeti, attrici, attori, altre poetesse e cantautori.
«Io non lo so se ci sono tutti e nemmeno se tutti quelli che ci sono meritano di starci, ma ne mancano tanti» intervenne qualcuno indicando le foto.
«Per esempio?» chiese un altro.
«Che ne so. Per esempio il Selvaggio.»
Allora come sempre riempimmo il bicchiere e cominciammo a parlare del Selvaggio.
Hugo Araya era un tipo altissimo, più di un metro e novanta, sembrava un piedrolari basco, coi capelli neri prematuramente brizzolati che gli arrivavano alle spalle e una barba altrettanto grigia che gli copriva metà petto. Era così il Selvaggio.
Oltre a poeta romantico, attore di commedie e pittore di miniature, quel gigante peloso era un appassionato di arti visive e arrivò a essere il miglior cameraman del canale 9, l’emittente televisiva ribelle dell’Universidad de Chile.
Viveva e dormiva attaccato alla cinepresa, che fu sempre il suo modo migliore di guardare: rivoluzionò addirittura la tecnica per portare i pesanti modelli degli Settanta, perché con una serie di sbarrette da meccano creò un attrezzo che gli permetteva di muoversi con assoluta libertà nelle manifestazioni, senza che la cinepresa lo intralciasse. Così, involontariamente, fu il primo operatore di steadycam della storia.
«Vi va di sentire una storia sul Selvaggio?» domandò un commensale e, come sempre, non aspettò risposta prima di cominciare a raccontare.

Una sera del 1969, dopo esserci rimpinzati di empanadas al circolo Chile rie y canta, il Selvaggio, Roberto Contreras, Pancho Melo e il sottoscritto decidemmo di andare a bere qualcosa in plaza de Armas, anche se quella del bere era solo una scusa per accompagnare il poeta Contreras, perché ci aveva descritto mille volte le meravigliose doti fisiche della sua ultima conquista, una ragazza che serviva al Caffé Marco Polo.
«E il culetto com’è?» gli domandavamo.
«Non siate banali, ma insomma, fratelli, ha uno di quei culetti che se gli danno un microfono, canta» diceva il poeta e gonfiava il petto.
Uscimmo sull’Alameda, arrivammo al paseo Ahumada e scendemmo verso la piazza spaventando la gente con Hugo Araya.
«Attenti, non vi avvicinate, morde!» gridavamo, e più di uno si fece da parte prendendo sul serio l’avvertimento. Il Selvaggio ci metteva del suo lanciando ruggiti da leone asmatico e quando fingeva di attaccare lo trattenevamo strepitando.
«Pancho, svelto, dagli il calmante!» strillavamo io e Contreras.
Il poeta Pancho Melo gli saltava addosso, gli apriva la bocca e ci infilava dentro una delle sua immancabili pasticche di vitamina C, sostanza secondo lui fondamentale per la salute dei bardi.
Poco prima di entrare al Marco Polo, il Selvaggio convocò un consiglio di guerra per strappare al poeta Melo il giuramento, pena un calcio nel culo con i suoi stivali numero quarantotto, di non far nulla, ma proprio nulla, per soffiare la conquista a Roberto.
«Tranquilli. Il cuore è un cacciatore solitario» assicurava conciliante Contreras.
«Lasciate per lo meno che le scriva un sonetto» ribatteva Melo.
Al Marco Polo ci avvicinammo al bancone, chiedemmo delle birre che bevemmo in fretta, perché le meravigliose doti fisiche dalla ragazza non si vedevano da nessuna parte, e ce la svignammo commentando che forse il lungo grembiule bianco che portava era troppo largo.
Lasciammo Roberto lì da solo, stretto alla sua bottiglia di Fanta (l’unica cosa che bevevo per non perdere mai la compostezza da massone), tutto intento a contemplare la sua conquista e a provocarsi starnuti sibaritici con la punta di uno spillone d’argento che portava sempre appuntato sul risvolto della giacca.
«Avete sentito come l’ha salutato? ‘Buonasera, signor Roberto.’ Ma che schifo» disse il Selvaggio.
«Quella femmina è tutto un fuoco, sa maneggiare i codici della seduzione. Quel ‘buonasera’ era una bella promessa di piaceri notturni» spiegò Pancho Melo.
«’Signor Roberto.’ Se una donna mi chiama signor Hugo vado di corsa all’ospedale geriatrico» meditò il Selvaggio.
«Questo dimostra cosa sei, un selvaggio. Roberto ha l’aria di un signore all’antica, dei tempi delle colonie, sarebbe stato bene nei secoli d’oro quando i veri cavalieri erano sempre celibi. Il cavaliere celibe. Che bel titolo per un sonetto da dedicare a Roberto» dichiarò il poeta Melo.
«Che figlio di puttana» esclamammo in coro io e il Selvaggio.
«Questo è vero» ribatté il poeta Melo e cominciò a raccontarci la centesima versione della sua biografia. Scriveva versi molto belli, ma il suo vero talento stava nell’inventarsi ogni sera una biografia diversa. Stavolta saltò fuori che la madre che tutti conoscevamo era in realtà la sua istitutrice nonché madre adottiva, perché suo padre, il conte Melosky, consigliere della famiglia Romanov in esilio, aveva fatto voto di castità e intendeva rispettarlo fin quando l’erede dello zar non fosse tornato sul trono di Russia. Ma la sua vera madre, la contessa, aveva l’abitudine da cacciare il coniuge dall’alcova col pretesto di pregare per la restaurazione della monarchia e, all’alba, quando gli permetteva di farvi ritorno, il conte trovava sempre piume nel letto, piume bianche di un arcangelo che, assicurava la contessa, le faceva visita durante le preghiere.
«Evidentemente erano piume d’oca, poi sono nato io e mi hanno mandato in Cile, il resto è irrilevante» dichiarò.
«Così ti chiami Melosky» disse il Selvaggio, e cominciammo tutti a ridere, finché una piccola tristezza non gelò la nostra allegria.
Su una panchina della piazza c’era un bambino, un ragazzino curvo come un vecchio. Non doveva avere più di dieci anni e piangeva disperato.
«Che ti è successo, signorino?» domandò il Selvaggio.
Tirando su col naso ci raccontò che gli avevano rubato la cassetta degli attrezzi con tutti i guadagni della giornata e non aveva il coraggio di tornare a casa.
Il Selvaggio disse che dovevamo fare qualcosa e chiamò un altro lustrascarpe.
«Amico, prendo a noleggio la tua cassetta per un’ora, con tutto quel che c’è dentro.»
Il lustrascarpe, esagerando il suo successo professionale, spiegò che in un’ora serviva una quindicina di clienti e che ci lasciava gli attrezzi solo per la cifra corrispondente.
Pagammo e il Selvaggio consegnò la cassetta al ragazzino.
«Forza, signorino, facci brillare» ordinò.
«Un momento, io ho i sandali» protestò il poeta Melo.
«Cazzi tuoi, Melosky» ribatté il Selvaggio.
Il ragazzino si asciugò il naso con una manica del maglione, le lacrime col dorso della mano, e con una spazzola diede due colpetti sulla cassetta come a dire che era pronto a servire il primo cliente.
Spazzola, tinta, energici colpi di straccio, lucido, ancora spazzola e infine altri colpi di straccio per far splendere il cuoio e farlo cantare come un canarino. Il Selvaggio con due stivali tirati a specchio lasciò il posto a Melo, ma nonostante la grande attenzione del ragazzino il poeta finì con sandali e piedi impeccabilmente marroni. Poi fu il turno dei miei mocassini e alla fine pagammo.
«Come va adesso, signorino?» domandò il Selvaggio.
Il ragazzino guardò le monete e sul suo volto di non più di dieci anni si disegnò ancora una volta la smorfia della disperazione.
«Tranquillo, abbiamo tempo» lo consolò il Selvaggio e subito cominciammo a pestarci i piedi finché le scarpe non furono irriconoscibili. Il poeta Melo, con la scusa della fragilità dei suoi sandali, evitò i pestoni e preferì strappare una zolla di erba con cui s’infangò i calzari francescani.
Dopo il quarto giro di «lustra e sporca» si aggiunse altra gente, bohémien che uscivano dal Black and White, dal Marco Polo, dal Faisan d’Or, dal Chez Henri. Spiegammo a tutti il problema e, poiché Santiago in quegli anni era così, la clientela si moltiplicò per venti.
Quelle piccole mani sporche di vernice volavano spazzolando, tirando la tinta, il lucido, strusciando con gusto la flanella fino allo splendore finale, e il bambino sorrideva togliendosi i resti di tristezza con la manica.
Passò l’ora convenuta e il padrone della cassetta, abbastanza seccato del successo professionale del collega, reclamò indietro i suoi attrezzi da lavoro.
«Allora, signorino? Abbiamo vinto la battaglia della produzione?» domandò il Selvaggio.
Il ragazzino contò i soldi, annuì e li mise via infilandoli in tutte le tasche.
«Grazie tante, signori» ci disse tendendoci la manina sporca di lucido.
«Si dice: grazie, compagni» lo corresse il Selvaggio.
Tornammo al Marco Polo per sapere di Roberto e lo trovammo gonfio di Fanta. Si preparava a leggerci la sua ultima poesia sulle sventure dell’amore nel mondo gastronomico quando si interruppe indicando stupito le nostre scarpe splendenti e i piedi del poeta Melo di un brillante marrone.
«Che vi è successo?» disse tra effluvi di Fanta.
«Nulla. Ci siamo lucidati l’anima» rispose il Selvaggio.
*
Il vino riempie i bicchieri. Al nostro tavolo di Off Record si sono avvicinati vari clienti per ascoltare la storia. A volte il vino è la manifestazione liquida del silenzio.
«Hugo, il Selvaggio, era fatto così» dice qualcuno.
«No, il Selvaggio è fatto così, perché se li nominiamo e raccontiamo le loro storie, i nostri morti non muoiono» replica un altro.
E i bicchieri di vino si alzano e si toccano con un rumore allegro di campane nella notte fraterna di Santiago.

sabato, febbraio 21, 2009

PLAZA DE MAYO


Plaza de Mayo è la piazza principale di Buenos Aires. Sono stato in Argentina la scorsa estate, in viaggio di nozze. Ovviamente con mia moglie. Ci è molto piaciuta Buenos Aires, soprattutto a me. Plaza de Mayo è il punto di partenza e di arrivo di ogni forma di protesta. Mentre eravamo lì abbiamo visto diverse manifestazioni arrivare in Plaza de Mayo, dove si trova la Casa Rosada (foto), sede della Presidenza della Repubblica argentina. Molti la ricorderanno per aver visto “Evita”, il film con Madonna e Banderas. Attualmente vi soggiorna Cristina Fernandez Kirchner, la Presidenta. In piazza vi sono sempre senzatetto che chiedono una casa, veterani della guerra delle Falkland, o Malvinas (guai a dire Falkland a un argentino), che chiedono un qualche riconoscimento, e varia altra umanità. La piazza è presidiata h 24 da forze dell’ordine e vi è addirittura un’alta transenna perenne.
Ogni giovedì pomeriggio, alle 15,30, in Plaza de Mayo ha luogo una singolare forma di protesta nonviolenta. Le Madres de Plaza de Mayo si ritrovano lì per ricordare i loro figli, scomparsi – desaparecidos – durante la dittatura fascista del generale Videla e altri ingloriosi farabutti del suo rango. 30.000 furono i giovani dissidenti presi, condotti in campi di concentramento, torturati e fatti fuori col metodo dei vuelos: gettati in mare vivi e sotto l'effetto di droghe, da aerei militari. Le madres, ora abuelas, nonne, arrivano col pullmino dell’associazione, o con mezzi propri, scendono e cominciano a girare in silenzio attorno all’obelisco della piazza, portando un simbolico fazzoletto bianco in testa e al collo le foto dei loro figli scomparsi. Sanno bene che i loro figli non torneranno più ma non vogliono perdere l’occasione di chiedere che qualcuno dica loro la verità su quelle morti. Da trent’anni in circolo attorno alla piazza; giri sempre più lenti, data l’età, e con sempre meno madres, che vanno morendo senza sapere il perché della morte della propria figlia ventenne. Seguimos luchando adentro del drama, mi ha detto una di loro. Il dramma di un figlio che trent’anni fa uscì di casa e non vi fece più ritorno. Il dramma di non aver mai saputo nulla di quella scomparsa perché nessuno ha detto loro mai nulla.
Ecco, è questo il contesto della barzelletta di Silvio Berlusconi sui desaparecidos. Peccato che le madres non l’abbiano sentita!

P.S. Vi invito ad ascoltare “Vino del mar” (Venne dal mare), una canzone degli Inti Illimani dedicata a Marta Ugarte, vittima – stavolta cilena – della dittatura fascista di Pinochet. La ragazza fu “fatta volare” in mare ma le onde la riconsegnarono. Morta, naturalmente.
http://www.youtube.com/watch?v=2yyMv-II088.
Per tutti i morti delle dittature di ogni colore.

giovedì, febbraio 19, 2009

BASTA ALBERI A GIRGENTI!





Basta, facciamola finita con questa storia degli eucalipti. Mi son rotto le scatole. Stanotte ho sognato l’assessora Passarello che andava in giro per la città su un’Harley Davidson, con stivaloni e sega circolare; ogni tanto scendeva dalla moto e tagliava un eucalipto. Aveva pure la bandana, aveva. Non si campa più. Perciò ho deciso di saltare la barricata e dichiararmi a favore del taglio indiscriminato (sta’ a vedere chi stabilisce il discrimine) degli eucalipti a Girgenti. Dirò di più. Sono per il taglio di tutti gli alberi della città. Non solo gli eucalipti. Eccheccacchio.
Comincerei coi pini che qua e là infestano il territorio cittadino. Ce n’è un po’ dappertutto, a Bonamorone, a San Leone, sotto i Templi. Proprio con quelli inizierei. Avete presente quel bellissimo viale sotto il Tempio della Concordia? Zzzzzzzzzz…… una bella segatina e chi s’è visto s’è visto. Stesso trattamento riserverei a quelli del viale dei Pini a San Leone, che grazie a questo intervento dovrà cambiare nome. Qualche anno fa qualcuno cercò di farli tagliare perché davano fastidio a quelli delle villette. Intervenne provvidenzialmente un ambientalista nostro concittadino che fece bloccare lo scempio e salvò gli alberi. Lo stesso ambientalista, ora, è favorevole al taglio degli eucalipti. Niente più pigne, quindi, che ti cadono sul cofano della macchina stimolandoti il bestemmione; niente più aghi di pino (e silenzio e funghi), niente asfalto rialzato, rami, cortecce. Zero.
Mentre siamo a San Leone, una visitina a quelle palme – prima che gliela faccia il vermiciattolo del punteruolo rosso – non gliela vogliamo mica fare? Tra l’altro la palma si taglia facilmente. Del resto, non fanno neanche datteri, che ci teniamo a fare.
Gli alberi che mi dispiacerà veder segare sono quelli del Viale, soprattutto quelli di Piazza Cavour, dove andavamo a giocare a calcio quando eravamo piccoli. Ogni tanto il pallone finiva sugli alberi a causa di inopinabili sufuniate e ci toccava arrampicarci, soprattutto su quegli alberi che facevano da pali alla porta. Che bei ricordi. Ma dura lex sed lex. Anche gli alberi di Piazza Cavour – non ho mai saputo come si chiamano – subiranno la terribile legge della sega circolare. Zac! Facciamo le cose serie, noi, mica possiamo lasciarci commuovere da sdolcinati ricordi di gioventù.
Tanto s’è detto sugli eucalipti. Quindi quei boschetti che circondano la città, a partire da dietro il cimitero, via via sino a valle di via Imera per poi riprendere sotto via Santo Stefano, a girare, per andare a finire a Fondacazzo, ebbene: non ne resterà neanche uno stupido ramoscello. L’unico dubbio è se passarli a fiammifero o se, niente niente, chiamare una squadra di spaccalegna con le camicie a scacchi, tipo “Sette spose per sette fratelli”, per allietare le giornate degli agrigentini senza chiffari – e sì che sono tanti.
La fine arriverà anche per i comuni, vili vegetali che popolano le nostre contrade. Il fico d’India e la zabbara subiranno lo sterminio; siepi, macchie e arbusti vari diventeranno un pallido ricordo e finalmente si ripuliranno le strade da tutte le erbacce.
Last but not least, suonerà la tromba del giudizio per ulivi e mandorli della Valle dei Templi. Sissignore! Non incominciate a piagnucolare, eh? Dimostriamoci popolo serio e maturo. Niente sentimentalismi. Dispiacerà anche a me, già lo so, ma è uno sporco lavoro e qualcuno deve pur farlo. La scure della Passarello si poserà anche sui nodosi tronchi dei nostri alberi più sacri. L’ulivo saraceno patirà l’ascia e il mandorlo s’accascerà ai duri colpi dell’accetta. Suo malgrado.

martedì, febbraio 17, 2009

Eluana è morta, Eluana ora vive

È passata più di una settimana dalla morte di Eluana Englaro. Il nostro paese ha dato una pessima prova di sé dimostrando di non essere maturo per affrontare dibattiti di questo tenore. O meglio, il nostro paese è peggiorato, e di molto, dai tempi in cui si discuteva di temi importanti – come il divorzio o l’aborto – con veemenza, sicuro, e magari anche con scorrettezze ma certamente con l’intenzione di imprimere una svolta alla società. Forse è meglio godersi il Festival di San Remo e pensare che anche quest’anno l’Inter vincerà lo scudetto.
Io ho trovato uno scritto di don Paolo Farinella, uno dei miei parrinazzi preferiti. Egli propone un accostamento tra la vicenda di Eluana e il passo del profeta Isaia (cap. 53), che parla degli ultimi giorni di Cristo. È la parte centrale del testo che (forse) leggerete. Non ci posso fare nulla: la Parola di Dio mi commuove sempre; le parole degli uomini (soprattutto di quelli che usano Dio per i loro turpi interessi) molto meno.
(P.S. Non ho idea del perché mezzo post sia venuto arancione. Pazienza.)

***
Eluana è morta, Eluana ora vive (libera parafrasi di Isaia 53)
"Laudato sie, mi signore, per sora nostra morte corporale"

Genova 9 febbraio 2009. Ha preso tutti in contropiede e se n'è andata con un sussulto di dignità, quasi volesse scappare prima che gli avvoltoi del senato, comandati a bacchetta dal loro padrone, decidessero di condannarla all'ergastolo in uno stato di vita che vita non è, perché non umana. Se n'è andata, lontana da suo padre e da sua madre, quasi volesse risparmiargli l'ultima goccia di fiele che essi sorseggiano da diciassette anni. Se n'è andata, approvando le scelte della sua famiglia, l'unica che in questa tragedia fu ed è scevra di interessi e la sola che può vantare gratuità e amore senza ricompensa. Se n'è andata quasi a smentire un pusillanime che non ha esitato a sfregiare la vita e la morte, il Diritto e lo Stato per trarre vantaggi e benefici per sé e la sua bulimia di potere. Se n'è andata per non essere complice del sigillo diabolico tra pagani e devoti, scribi e farisei, che aggiungono pesi sulle spalle degli altri, senza mai muovere un dito per aiutare a portarli.

E' cresciuta come un virgulto sorridente davanti a Dio e come una radice nella terra arida degli avvoltoi. Non aveva apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lei diletto, perché in coma irreversibile. Disprezzata dal potere e dal fanatismo fu denudata ed esposta su pubblica piazza, quando l'uomo senza ritegno e senza valore, celiò sulla sua capacità di partorire. Donna dei dolori che ben conobbe il patire da oltre diciassette anni, Eluana ora sta davanti a noi invisibile, ma presente, promessa di vita oltre la soglia della morte, che come sorella viene ad abbracciarla per trapiantarla nell'Eden della dignità. Disprezzata dagli scribi e dai farisei, sempre contemporanei, non volle far parte del coro dei suoi difensori per partito preso perché schiavi dei loro astratti principi, e non sanno cosa sia libertà di decidere secondo coscienza, in nome di chi disse che lei è comunque e sempre superiore al sabato. Gli urlatori in difesa della vita, costi quel che costi, sono lefebvriani allo stato puro perché vogliono imporre Dio anche a chi ha scelto di non credere: come quelli sarebbero capaci di uccidere chi non si converte. Eluana è stata trafitta dalla superba protervia che cerca ragione a forza di urla; schiacciata dalla impura indecenza, ora entra nella vita che la morte annuncia e rivela, principio di risurrezione.

Chi ha ballato sulla sua tomba prima ancora che morisse ha avuto anche l'impudenza di gridare "assassino" e "boia" al mite babbo, l'unico che l'ha amata senza riserve, con il coraggio di lasciarsi generare dalla figlia che lui aveva generato e anche perduto. Finalmente ora può restituirla alla dignità della morte che è l'unico modo per ridarle la vita.
Nel turbinio di questo mondo pazzo e folle, Eluana, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; come agnello condotta al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca. Eluana è morta. Silenzio. Sipario.

(Nota. Intanto si sentono le rane gracidare forte, ma in diminuendo, fino al silenzio totale. Si spengono le luci in dissolvenza e il buio raddoppia il SILENZIO che tutti ascoltano senza profferire parola).

Altissimu onnipotente bon signore,tue so le laude, la gloria e l'honore et onne benedictione.
Laudato si, mi signore, per sora nostra morte corporale,da la quale nullu homo vivente pò skappare.
(San Francesco d'Assisi, Cantico delle creature, vv. 1-2; 28-29; sec. XIII)

di Paolo Farinella, prete

lunedì, febbraio 16, 2009

Que pasò hoy?


Picchiatori fascisti in azione a Roma. Per rappresaglia contro gli stupratori del parco della Caffarella, alcuni giovani squadristi – semplicemente una ronda, di quelle tanto in voga oggigiorno e legalizzate dal governo – hanno assaltato un kebab house e se la sono presa con un gruppo di romeni che con lo stupro ovviamente non c’entravano nulla. Bisogna dire che i fascisti hanno agito con senso di responsabilità e impegno. Come sempre, del resto. Al grido di A regà, famo ‘e cose serie, hanno prima chiesto la nazionalità ai picchiandi e poi, accertatisi che fossero romeni, li hanno legnati. Mi pare serietà, questa. Il governo può stare tranquillo perché ha messo la nostra difesa in mani sicure.
Per cui, pare si vada verso la calendarizzazione dei raid. E del resto una ronda mica può andare così a casaccio, no? Ad esempio, oggi cos’è, lunedì? Bene, oggi si picchiano tunisini, peruviani e senegalesi. Domani è martedì? Ecuadoriani, marocchini e polacchi. E così via. I romeni sempre. Così tu – fai conto, immigrato cingalese – sai che quel giorno non tocca a te e stai tranquillo. Metti che vai al kebab house o in pizzeria, arriva la squadraccia, sai che basta dire la nazionalità e nessuno ti fa niente. Magari ritorni il giorno dopo, che tocca a te. Questa è organizzazione.


Il Ministro delle Finanze del Giappone si è fatto vedere ubriaco al G7 e tutti sono scandalizzati. In Giappone, ovviamente. Il premier nipponico è furioso perché dice che il suo ministro ha fatto – lui, e fatto fare al paese – una bruttissima figura. Mentre l’opposizione – in Giappone esiste – dice che è imbarazzante il messaggio che il ministro ciucco ha inviato al mondo intero. Naturalmente si parla di dimissioni del buon Shoichi Nakagawa, il ministro dello scandalo. Il quale si difende dicendo che aveva preso dei farmaci e allora sembrava ubriaco ma in realtà era solo intontito. Ma quali farmaci, era brillo forte.
Però, amici dagli occhi a mandorla, orsù, si è solo fatto un bicchiere. Vabbe’, magari due, ma riprendetevi dallo shock e guardate cosa succede qui da noi. Aprite gli occhi, per l’amor del cielo, quelle graziose fessure che avete in viso, e osservate come ci si comporta da queste parti. Imparate cosa significa fare figure di merda internazionali. Ci vuol ben altro che due dita di Grignolino.
E che sarà stato? Saranno andati a cena, chessò, ai Castelli e una volta là, che fai? Col lardo di Colonnata o la porchetta di Ariccia che ci butti, l’acqua minerale? Il vino, ci vuole. E bevi il primo, bevi il secondo, poi fai conto che il nostro premier, si mette a cantare – e daje de tacco e daje de punta, e quant’è bbona la sora Assunta – quello è un simpatico che uguali non ce n’è, si sa. Insomma, ritorni alla convention che sei un po’ alticcio, no?
Su, amici dalle belle macchine fotografiche, che attraversate a frotte le nostre città d’arte, gli uomini coi calzoni color crema e le donne coi foulard verdi. Vi vediamo, sapete? E vi amiamo. La conosciamo la vostra purezza d’animo, però, su!, non potete pretendere che il povero Nakagawa non si faccia una boccia con gli amici. Su, perdonatelo. No, perché si comincia così, a essere troppo esigenti – coi piccoli scandaletti da tasso etilico – e si finisce col chiedere che il capo del governo sia una persona onesta. Ma andiamo! Sayonara, ragazzi!

domenica, febbraio 15, 2009

VORREI LA PELLE NERA


Vita dura per gli immigrati in Italia. Soprattutto adesso che dal governo razzista e xenofobo – ma con solide radici cristiane! – arriva l’ordine di essere cattivi con i clandestini. Il problema è: se tu non sei clandestino, come fanno i poliziotti o le ronde padane o i ragazzotti fascisti a sapere che non lo sei? Mica ti chiedono il permesso di soggiorno. Ti picchiano lo stesso, no?, è chiaro, magari solo perché hai la pelle ben pigmentata. Del resto la pelle scura ormai è segno di clandestinità. O di abbronzatura, se sei presidente degli Stati Uniti. Ma se oltre a non essere clandestino, non sei neanche immigrato ma semplicemente un italiano dalla pelle scura, che si fa? Se lo deve essere chiesto quel giovane lampedusano che qualche sera fa si è visto assestare una bella manganellata da un poliziotto che l’aveva scambiato per un immigrato clandestino in fuga. E invece il poveretto stava solo andandosene a casa sua.
Scena: è sera, in una via di Lampedusa, fuori paese, nella zona del Centro di Permanenza Temporanea dove vengono detenuti i migranti, un giovane dal volto scuro cammina per i fatti suoi. È un ragazzo lampedusano. A un tratto viene avvicinato da uno o più poliziotti. Un agente, giacché due più due fa quattro, deduce che è un clandestino in fuga dal centro, e ricordandosi delle parole del ministro Roberto Maroni (foto), ma anche di avere un bel manganello a sua disposizione, cosa fa?, scattìa una bella randellata sulle spalle del povero malcapitato. Lussazione alla spalla. Il giorno seguente, il ragazzo viene portato in ospedale a Palermo, in elisoccorso.
Verrebbe da ridere se non ci fosse da piangere. È proprio vero: non si può più uscire di casa tranquilli.

sabato, febbraio 14, 2009

VIGNETTINA

Buon weekend, stavolta con una vignettina del grande Vauro, quella che ha fatto arrabbiare, e di molto, Maurizio Gasparri. Il cerebroleso capogruppo dei senatori del PdL (Popolo dei Leccaculo) - "ha la fissità tipica dell'ottuso", avrebbe detto Flaiano - ha chiamato "sciacallo" il grande vignettista toscano. Beato lui! Vauro, voglio dire. Amerei sentirmi insultare da Gasparri, e non per masochismo ma perché se ti insulta Gasparri, vuol dire che hai detto una cosa intelligente. E lui non l'ha capita.





giovedì, febbraio 12, 2009

BARZELLETTINA


Un giorno la Santissima Trinità decise di prendersi tre giorni di vacanza e si accordarono per passarli sulla terra. Si misero d'accordo sul dove andare.

Il primo giorno decise Dio. Lui scelse di andare sul monte Sinai e Gesù e lo Spirito Santo gli chiesero perché. "Perché voglio rivedere il luogo dove mi sono manifestato a Mosè nel viaggio verso la terra promessa. E così andarono.

Il secondo giorno fu il turno di Gesù e questi scelse il pozzo di Giacobbe. Dio e lo Spirito Santo gli chiesero perché e Gesù rispose: "Perché quel luogo mi ricorda l'incontro con la Samaritana". E così andarono.

Il terzo giorno venne il turno dello Spirito Santo. Dio e Gesù gli chiesero dove volesse andare e lo Spirito Santo rispose: "Vorrei andare al Vaticano". "Al vaticano?" risposero Dio e Gesù. "E perché vuoi andare lì?" insistettero i due.

"PERCHE' NON CI SONO MAI STATO" rispose lo Spirito Santo.

***
Tratta dal blog di don Franco Barbero: http://donfrancobarbero.blogspot.com

domenica, febbraio 08, 2009

IL MISTERO DELL’EUCALIPTO SEGATO

L’eucalipto (Eucalyptus, della famiglia delle Myrtaceae) è un albero che cresce in Australia, tant’è vero che il koala si nutre delle sue foglie. Chi non ci crede può cercarlo in qualunque enciclopedia, comprese I mondi dell’uomo e Universo. Forse c’è anche su I quindici. In Australia, l’eucalipto è una bestia di 150 metri, in Italia invece si mantiene sui 25. Nel nostro paese è diffuso al centro e al sud e, in particolare, all’isola d’Elba. Oltracciò, la città di Girgenti ne è infestata. Vi sono boschi interi che la circondano e anche in centro città ci sono parecchi esemplari. Ma com’è capitato che il dannato eucalipto sia venuto a finire qua? Pare, da voci non ufficiali ma certamente attendibili, che l’albero sia stato portato dalle nostre parti ai tempi del Fascismo, in seguito alla meritoria opera, del meritorio Duce, di bonifica dei territori paludosi. Mi sono documentato sull’eucalipto e ho scoperto che il legno viene utilizzato come legna da ardere, per fabbricare la carta e in altri campi, tipo la floricoltura. E non finisce qui. L’eucalipto contiene dei principi attivi nelle foglie, e questi vengono utilizzati per eliminare le secrezioni bronchiali, per la febbre e per l’asma, oltre che per le infiammazioni dell’apparato urogenitale e intestinale. C’è un certo Moggi – non quello della Juventus, credo – che ha scritto un visibilio di libri sull’eucalipto ma io non ne ho letto neanche uno. Però mi sono informato su Wikipedia ed è per questo che ho scritto ‘ste cose.
Ma perché, allora, Todaro ci sta rompendo i cabbasisi con la storia dell’eucalipto? Perché, come avevo detto, Girgenti è piena piena di eucalipti. È un albero oggettivamente brutto, spiace dirlo; e si vede – diciamo la verità – si vede che con il resto del paesaggio non c’entra una gioiosa minchia. Però c’è. E fa tutte le cose che normalmente fanno gli alberi: ombra, fresco, lurdíe, etc… A proposito, dimenticavo di parlare dei malanni che possono colpire questa pianta. Le foglie, colpite dal mal del piombo, assumono un colore argenteo e cadono. Funghi provocano il mal del colletto nelle giovani piante
; altri parassiti causano la deformazione e la caduta delle giovani foglie, nutrendosi della linfa dei giovani germogli (copiato paro paro da un altro sito).
Anche a Girgenti il povero eucalipto è malato, ma la malattia, molto rara, delle nostre piante è l’assessore al verde pubblico (e a qualche altra cosa), Rosalda Passarello, che, non si sa perché, sta facendo spianare tutti i luoghi dove abbondavano gli alberi lasciando degli enormi tronconi mozzati. Si iniziò qualche tempo fa con un bel filare in piena Valle dei Templi (non so se mi spiego); il mese scorso a Bonamorone furono tagliati una ventina di esemplari (foto); poi fu la volta del Villaggio Peruzzo; un paio di giorni fa è toccato a Fontanelle. Girgenti, che di suo non è una città che si indigna per le cose sbagliate ma semplicemente se ne frega, stavolta si sta incazzando, anche perché le motivazioni non convincono. Ci sono comitati, si scrivono lettere e articoli di giornale, se ne parla nei blog, si fanno gruppi su Facebook per cercare di capire il perché di tanto accanimento sul povero albero che, ancorché fascista, mischino, non fa del male a nessuno.
L’assessore è vago, anzi vaga. E le motivazioni si sprecano. Vanno dai motivi di malattia delle piante a ipotetici problemi di sicurezza degli automobilisti. Dicono che la ditta si è offerta di tagliarli gratuitamente ma a patto che le si desse in cambio la legna. Quindi non gratuitamente, perché se poi la ditta si vende la legna, quanto ci guadagna? È lei che ha fatto un favore a noi o noi a lei? E poi, c’è una convenzione, un contratto, una minchiata? Si parla di una perizia tecnica che ne consiglia l’abbattimento. Ok, dov’è questa perizia? Nessuno l’ha mai vista. I cittadini vorrebbero sapere come mai la sega non si placa ma nessuno dà risposte convincenti. E in fondo anche a me piacerebbe conoscere le motivazioni di questo scempio. Perché oggettivamente è uno scempio. I luoghi dei massacri degli alberi fanno veramente pena. Non capisco se è per un problema ideologico (non vogliamo alberi fascisti!) o piuttosto geo-botanico con venature razziste (non vogliamo alberi non autoctoni, che vengono a togliere lavoro ai nostri alberi!).
Ogni tanto interviene qualcuno. L’assessore ha dato le approssimate spiegazioni che ho già detto. Legambiente ha dimostrato disinteresse sulla cosa – non gliene frega una mazza – anzi, proprio ad essere precisi, pare apprezzare l’operato dell’assessore. Il segretario del PD ha chiesto conto e ragione ma gli si è risposto che lui dovrebbe pensare ai problemi del suo partito. C’entra qualcosa col taglio degli eucalipti? C’è anche qualcuno che è d’accordo col taglio degli alberi.
Insomma, questa città non finisce mai di stupirci. E chissà domani quali poveri eucalipti verranno segati.
Non sarà che l’assessore teme un’invasione di koala?

sabato, febbraio 07, 2009

venerdì, febbraio 06, 2009

UNA BUONA NOTIZIA


“Chi se lo fosse mai creso”, diceva molto tempo fa un mio caro amico per esprimere meraviglia e stupore. Ed è la stessa cosa che ho pensato quando nella mia casella di posta elettronica ho trovato un comunicato che informava dell’apertura a Girgenti di un circolo Arcigay. Sono estremamente felice che anche in questa città, sebbene con una trentina di anni di ritardo, si dia inizio ad un’esperienza aggregativa del genere. Nella nostra città, per motivi che non sempre riesco a comprendere, la diversità (ammesso che di diversità si tratti) è sempre stata vista con compassione o con indifferenza o casomai con fastidio. Era ora che i gay, che esistono anche a Girgenti nonostante si faccia finta di niente, decidessero di uscire allo scoperto e manifestarsi in libertà. Sono certamente curioso di vedere le facce e sentire le opinioni degli agrigentini che “contano”.
Per cui plaudo all’iniziativa e spero in un rinascimento della nostra città. Lo spero. Ma non ci credo.

giovedì, febbraio 05, 2009

MESTIERI


Come molte altre cose, oggigiorno anche il commercio è molto cambiato. È raro vedere, infatti, dei commercianti che raggiungono i propri clienti fin nelle proprie case o comunque nelle immediate vicinanze. Al contrario, è il cliente che, mosso dalla necessità degli acquisti, si reca al negozio o, sempre più spesso, al centro commerciale. Invece negli anni della nostra infanzia al Sottogas, quartiere popolare di Girgenti, questa era una cosa assolutamente normale. I venditori ambulanti erano molti di più che adesso ed anzi per alcuni di loro l’aprire un negozietto rappresentava un miglioramento della propria condizione e un’emancipazione da decenni di lavoro ‘o straventu.
Il paradigma di questa categoria erano i fruttivendoli, i fruttara o fruttalora. I quali, in groppa a macilenti asinelli, o su più robusti muli, attraversavano lo spazio del quartiere, ripresentandosi quotidianamente, allo stesso orario nello stesso posto, magari sgarrando di una mezz’oretta (Chi fici stamatina u fruttaru, un vinni chiù? Sta vinennu, u ‘ntisi abbanniari!), tuttavia puntuali. Le povere bestie barcollavano e ondeggiavano sotto il peso di due enormi bisacce, e talora anche dello stesso fruttivendolo, fermandosi fin nei cortili più interni della città. L’avvento dell’Ape Piaggio, ’a lapa (foto), che in poco tempo sostituì tutti gli animali, fu una iattura per molte delle massaie del tempo (quelle dei cortili, cioè) che dovettero spostarsi e andare esse stesse incontro al venditore sulla via principale. Il loro arrivo era scandito dalla vanniata, le grida che informavano sulla mercanzia del giorno (Puma, piracoscia, milanciani avemu!) e a volte ne decantavano la bontà ('A marsigliana ch’è bella! Comu u villutu, persica!). La compravendita avveniva sul luogo della sosta o addirittura dal balcone. In entrambi i casi, il povero venditore veniva vessato dalle donne con ogni sorta di domanda relativa ai prezzi della frutta e della verdura; ed era una polifonia di Ccééé! e di Scasciu!, di lamentele o (più rari) complimenti sui prodotti del giorno prima e di informazioni sui prodotti della giornata (era necessario sapere se l’arancia era brasiliana, partuallu o maniglia). Spesso il tempo verbale usato in questi scambi era l’imperfetto e il sostantivo singolare: A quant’era ‘a cirasa, ah? Minni dava du chila? Le massaie chiedevano come fossero le arance, le banane, i piriazzola, i pircoca e la risposta era: Speciali, anche se spesso erano delle vere e proprie schifezze, oppure ‘Nternazzionali, come se l’internazionalità aggiungesse qualità al prodotto.
Le donne che scendevano giù a fare gli acquisti avevano la possibilità di toccare la roba e scegliere la migliore, noncuranti delle lamentele del fruttivendolo; invece sbolognare le porcherie era più facile quando la compravendita avveniva dal balcone o dalla finestra di casa. La donna e l’ambulante si intrattenevano per un po’ sulla merce, ne discutevano, negoziavano; la massaia si lamentava un po’ dei prezzi ma poi ordinava ciò che le serviva e a questo punto si verificava l’azione definitiva: la donna calava ‘u panaru. Metteva i soldi dentro al paniere di vimini, lo faceva scendere fino al livello del suolo e l’uomo ritirava i soldi e vi poneva la merce. In alcuni casi, a causa della diffidenza della donna, il procedimento era più elaborato: essa mandava giù ‘u panaru senza soldi, tirava su la spesa, la controllava e, se era di suo gradimento, la teneva e rimandava giù il paniere con i soldi. Questa operazione normalmente faceva saltare i nervi al venditore il quale biascicava bestemmioni coloritissimi.
La pesa della merce era quanto di più approssimativo fosse dato di vedere. Il commerciante era munito di una stadera a un piatto (foto), con in cima un gancio, e un’asta graduata orizzontale sulla quale scorreva un bulbo, credo di bronzo, che serviva da contrappeso. Sicché, l’uomo metteva ‘u coppu con la frutta dentro il piatto della vilanza, afferrava il gancio col pollice e con movimento rapidissimo faceva scorrere il peso sull’asta graduata per una frazione di secondo. A quel punto la merce era bell’e pesata, tra le rimostranze, inascoltate, delle donne, perché ovviamente questo tipo di pesatura, come dicevo molto approssimativa, favoriva di gran lunga il commerciante, che riusciva a grattare diversi etti.
Mentre il fruttivendolo era tenuto in stato d’assedio dalle massaie, noi bambini ci intrattenevamo con l’animale, osservandone le abitudini, esaltandoci quando ragliava, toccandogli il muso carnoso e mucillaginoso o guardandolo mentre espletava i suoi bisogni organici. Una volta uno ci starnutì addosso, tra il divertimento e lo schifo. Infatti, spesso alla fine della vendita, l’ambulante andava via lasciando una scia odorosa di fuméri dietro di sé. A quei tempi era usuale vedere per strada escrementi di animale e ovviamente dalla tipologia del deposito organico – scia o mucchietto – si capiva se l’animale aveva defecato in cammino oppure da fermo. Una volta una signora che abitava nel cortile dell’Ina Casa ci chiese di raccoglierle le sferette di merda di mulo che avrebbe in seguito utilizzato come concime per il suo orticello. Beh, nonostante lo schifo oggettivo dell’operazione, noi ci prestammo a farlo ed anzi trovammo la cosa divertentissima. Io e mio fratello Fabio la ricordiamo spesso con piacere e non siamo affatto pentiti di averlo fatto!
Del ricottaro ho già parlato e, per rimanere in tema di latticini, alla sera, poi, veniva il lattaio. Bussava alla porta e lo trovavamo con le taniche cilindriche di latta poggiate per terra. Ricordo che l’uomo emanava un caratteristico odore di beccume. Infilava una caraffa di metallo dentro il bidone e la tirava su gocciolante di profumatissimo latte di capra che versava nel contenitore di mia nonna. Questo però avveniva a casa di mia nonna, appunto; noi, a casa nostra, compravamo il latte Polenghi Lombardo (il latte Stella, per l’esattezza). E pensavamo fosse anche migliore!
Passa l’arrotino, ammola forbici e cortelli! L’arrotino, appunto, era uno di quei mestieri che solleticavano di più la nostra fantasia e questo era il suo modo di abbanniari. Andava in giro con la sua straordinaria biciclettina che aveva la sola ruota davanti e una forcella dietro. Veniva bloccato dalle massaie che dai balconi gli intimavano lo stop e al momento di lavorare poggiava la forcella al suolo, prendeva posto sul sellino e cominciava a pedalare. La pedalata azionava una teoria di catene e ingranaggi che mettevano in moto una mola circolare. L’uomo poi poggiava il coltello sulla pietra rotante e lì il momento magico… dalla pietra schizzava fuori un fiume di scintille multicolore. Molte si spegnevano subito ma alcune arrivavano fino a terra mentre noi avremmo passato delle ore fissi a guardare quella magia. Infine, tornavamo a casa e provavamo i coltelli appena riaffilati, tagliando cose che naturalmente non dovevamo tagliare (pezzi di pane, stoffe, dita etc…).
Sporadicamente passavano anche il riparatore di cucine a gas e un venditore di biancheria il cui grido era un cantilenante Maglie e mutande di lana! Arrivava ogni tanto, credo nel periodo autunnale, era una sorta di apparizione con quei cartoni, e come veniva se ne andava. Credo se la passasse piuttosto male. Un altro venditore era quello delle uova (gridava Ova avemu) e un altro ancora quello del sale (5 pacchi di sale 1000 lire) che a volte, e francamente me ne sfugge il nesso, vendeva sale e patate (nuove). E poi passava anche il tipo con un furgoncino pieno fino all’inverosimile di prodotti per la casa. Vendeva cati e cannavazzi (il mocio è scoperta recente), bagnere e cannate ma soprattutto detersivi. Aveva l’Aiax, il Dash e il Dixan, l'Ava, il Vim, il Lip e il Kop, il Nuovo All, l’Omo e il Bravo e l’immancabile, mitico Spic & Span.
Ma gli ambulanti che davvero catturavano la nostra più viva curiosità erano i marocchini che per primi arrivarono all’inizio degli anni ’70 e vendevano esclusivamente tappeti, di pessima fattura, ma che per noi potevano tranquillamente essere i tappeti volanti delle Mille e una notte. Molti li ricorderanno ancora, erano uomini di mezza età, alcuni già anzianotti, che vestivano ancora all’orientale, con caftani e fez e parlavano un italiano terrificante. Per noi erano come la reincarnazione di Alì Babà in persona e li avvicinavamo più che altro per sentirli parlare e per la curiosità di trovarci di fronte a persone oggettivamente diverse da noi. Li toccavamo, scimmiottavamo la lingua araba, gli stringevamo la mano, gli davamo delle pacche ed eravamo contenti quando la volta successiva dimostravano di ricordarsi di noi. Gridavano Tapééé, vendevano tappeti orrendi con scene di harem ottomani o di pavoni che fanno la ruota ma anche di cacce alla volpe inglesi o di corride spagnole. A quel tempo l’Italia non era ancora stata investita dai flussi migratori dei lavoratori stranieri, per cui queste persone suscitavano molta curiosità.
Infine, quello che è veramente scomparso dalla circolazione è il netturbino a domicilio. C’era un signore, lo ricordo ancora, piuttosto alto, ben piazzato, stempiato, che saliva fino a casa con un sacco di juta e dei guantoni bisunti e veniva a prendere l’immondizia. La quale non veniva messa dentro a dei sacchetti di plastica come si fa adesso, ma direttamente dal secchio veniva buttata dentro il sacco dello spazzino. Nei periodi di Natale e Pasqua il netturbino chiedeva i boni festi, cioè un obolo supplementare in occasione delle festività. Da piccolo pensavo che quello fosse il mestiere peggiore del mondo.

martedì, febbraio 03, 2009

L'indice di padre Rocco Siffredi


di Michele Serra

I provvedimenti del Vaticano per un ritorno in grande stile della Chiesa della tradizione. Messa in latino, nuovi santi e una nuova lista di tutte le pratiche sessuali proibite

Dopo il ritorno all'ovile dei vescovi lefebvriani, che hanno festeggiato con un rogo di ringraziamento, il Vaticano sta preparando le prossime mosse per un ritorno in grande stile alla tradizione della Chiesa, finalmente uscita dalle pastoie moderniste del Novecento.

Messa. Il ripristino della messa in latino è solo un primo passo. Accanto al latino orale verrà reintrodotto anche lo scritto: ogni fedele dovrà portare in chiesa due quinterni di fogli a righe e trascrivere tutta la messa. Dovrà essere in latino anche la predica, e per aumentare la fascinazione misteriosa della liturgia antica il sacerdote dovrà pronunciare le frasi al contrario e a bassissima voce. Importante anche la celebrazione in chiese senza luce elettrica e riscaldamento: la luce oscillante delle torce, i gemiti delle vecchie assiderate e il lugubre rintocco delle campane a morto saranno la degna cornice del rito. Prevista anche la sostituzione dei piccioni attorno al campanile con stormi di pipistrelli.

Vaticano E. C. Un nuovo concilio è in fase di preparazione: il Vaticano Errata Corrige, che sostituisce il precedente. Una speciale commissione, formata dal duca di Vandea e dal vescovo di Guantanamo, entrambi a cavallo, ha stabilito che le priorità spirituali assolutamente irrinunciabili sono due: il riarmo delle guardie svizzere, che saranno munite di micidiali alabarde al fosforo, e la riconquista dello Stato Pontificio grazie a un accordo privato con Francesco Rutelli, che sarà nominato, per ricompensa, Gran Piroliere Commendevole Aggiunto del Sacro Ordine Mariano della Gran Croce di Spagna e Portogallo, associazione con sede a Fregene.

Nuovi santi. Previste le beatificazioni di don Julio Manisco, martire della guerra di Spagna (morì d'infarto mentre cercava di strangolare un soldato repubblicano che opponeva resistenza). Di padre Nanuk, l'eroico sacerdote esquimese che, alla deriva su un minuscolo iceberg con un feroce orso bianco, continuò a recitare il rosario per sette giorni ininterrotti fino al suicidio dell'orso. E di suor Gelinda Wehrmacht, l'energica missionaria tedesca che guariva i lebbrosi a sberle. Verrà introdotta anche la nuova figura del Santo per Rappresaglia: personalità musulmane, ebree, buddiste e atee verranno nominate Santo della Chiesa Cattolica per puro scorno, e contro la loro volontà.

Etica sessuale. Va a ruba l'enorme volume (curato da padre Siffredi, Responsabile Pontificio per la Sorveglianza delle Mucose) nel quale si elencano tutte le pratiche sessuali vietate. Pare che molte delle posizioni proibite dalla Chiesa non siano mai state messe in pratica, e neppure immaginate, da alcun essere umano. Questo rende eccitantissima la lettura. Oltre all'Indice, il libro contiene, per la prima volta, anche Pollice, Medio, Anulare e Mignolo, con accurate descrizioni dei possibili usi.

Aborto. Quando comincia la vita? Il momento del concepimento, fin qui individuato dalla Chiesa nella fusione tra ovulo e spermatozoo, verrà decisamente anticipato. Si pensa alla prima stretta di mano tra i due genitori, o addirittura al primo invito a cena di lui a lei.

Cappelli. La già imponente serie di copricapo di Papa Ratzinger, con la sua nomina a Papa Re, dovrà arricchirsi di almeno un nuovo modello, già sfoggiato dai papi Borgia. Si tratta del gigantesco Elmo della Vittoria, 40 chilogrammi di peso, tutto in acciaio, a forma di cupola di San Pietro e con minuscoli pentoloni di olio bollente sospesi in cima per difendersi dagli assedianti.

New Entry. Dopo monsignor Lefebvre, si pensa di riabilitare anche don Nikita Pogrom, il sacerdote russo inventore del cosiddetto negazionismo totale. Sostiene che non solo la Shoah non è mai esistita, ma neanche gli ebrei.


da L'Espresso 29 gennaio 2009

lunedì, febbraio 02, 2009

TIRA UNA SCARPA ANCHE TU



Un giovane universitario inglese ha lanciato una calzatura al premier cinese Wen Jiabao. Se è per questo una scarpettina al cinese gliela lancerei anch’io, vista la situazione che mantengono in patria e fuori rispetto ai diritti umani. Vabbe’, però visto che è diventata una moda, tanto vale che anche noi giochiamo a tirare scarpe, no? Bene, ferma restando l’ammirazione che ho per Muntazer al-Zaidi, il protolanciatore – a proposito, che fine ha fatto? – a questo punto facciamo tirassegno anche noi. È un giochino che può fare chiunque: non costa nulla e dà delle gran belle soddisfazioni. Dici il nome dello scarpato e il motivo che ti ha spinto a prenderlo come bersaglio. Volendo, si può anche dire il tipo di scarpa che gli lanci. Allora, comincio io?
· Scarpone da montagna per Roberto Maroni, il ministro razzista degli Interni. Dice che con i clandestini vuol essere cattivo. Non gli bastava essere stronzo?
· Doposci o pinne da mare per il ministro Frattini. Del resto, quando la situazione si fa critica lui è sempre in vacanza, no?
· Ciabattina di Prada per Maria Stella Gelmini. Per la riforma (riforma?) della scuola che ha varato meriterebbe ben altro ma lei è una donna, e io un gentiluomo vecchio stampo: non posso tirarle una scarpazza. Quindi Prada. E poi, vuoi mettere il glamour? Pensa che figura al Consiglio dei Ministri!
· Pantofola in raso rosso per Benedetto XVI. Intanto perché la devono finire col fatto che il papa non può essere contestato – Gesù fu contestato e molto altro – e poi perché sta riportando la Chiesa al Medioevo. E francamente non se ne sentiva il bisogno.
· Pioggia di scarpe di ogni tipo per gli stupratori di Guidonia e i piromani di Nettuno. E con loro tutti quelli che fanno violenza sui deboli. Scarpe, e tante, sui pedofili, i violentatori e coloro che maltrattano le donne; gli sfruttatori della prostituzione e i trafficanti di esseri umani; i mercanti di organi e gli spacciatori di droga; quelli che vanno in giro a cercare barboni, handicappati e immigrati per la supremazia della razza e mostrare “chi è che comanda in quel posto”. In quel posto andateci voi, brutti pezzi di merda.

CIAO, GIUSEPPE


È morto Giuseppe Gatì e io sto morendo di tristezza. Giuseppe era il ragazzo che qualche settimana fa ha contestato Sgarbi, venuto a Girgenti a mostrare tutta la sua spocchia davanti a una platea genuflessa. Da quel pubblico compiacente si è alzata la voce franca di Giuseppe Gatì, un picciotto di Campobello di Licata, che ha detto un paio di verità, che ovviamente nell’Italia berlusconiana del 2009 non sono piaciute a molti. Sono piaciute a molti altri, però, fra i quali anch’io. Allora scrissi un pezzo sul blog (*) e gli manifestai la mia stima sul suo sito (§).
L’altro ieri Giuseppe Gatì, improvvisamente e tragicamente se n’è andato. Ha toccato un filo elettrico scoperto ed è stato sbalzato di alcuni metri. È morto sul colpo. Un’altra morte sul lavoro che ci lascia basiti. Non voglio – anche perché non posso – collegare la morte di Giuseppe all’episodio della contestazione a Sgarbi, benché in quella sede il ragazzo fosse stato minacciato da qualche araldo del leccaculismo militante. Però, ovviamente, le due cose – immagino – sono scollegate tra di loro. Anche perché se così non fosse, saremmo davvero in pericolo.
Se n’è andato un bravo ragazzo, uno che difendeva la sua terra dagli assalti dei prepotenti. Tanti giovani scappano dalla Sicilia, a decine, a centinaia, a migliaia – lui purtroppo per sempre. Un altro figlio di questa terra, se n’è andato. Come gli altri che fuggono lontano dalla mancanza di lavoro e dal malaffare; dalla mafia e dalla mafiosità; lontano da “non ti preoccupare”, da “questa è cosa mia” e da “qui c’è il sole e il mare”; lontano dalla politica vicina ai malandrini di Cosa Nostra e al Cuore Immacolato di Maria.
E siamo sempre più soli.
Ciao, Giuseppe.

(*)
http://oltregirgenti.blogspot.com/2009/01/uno-sgarbo-sgarbi.html
(§)
http://www.lamiaterraladifendo.it