lunedì, maggio 18, 2009

VOCAZIONI


Io ho un amico che aveva e ha tuttora la vocazione. A farsi prete, naturalmente. Il problema è che lui non è un prete. Si chiama Vittorio, lo conosco fin dai tempi delle Elementari e già da allora manifestava interesse per la cosa. Ricordo che quando andavamo a casa di un qualunque compagno di scuola, finiti i compiti, giocavamo in qualche modo – a casa di uno, ad esempio, si giocava sempre al Gioco dell’Oca –, a casa di Vittorio, invece, una bella santa messa non ce la levava nessuno. Nel senso che lui proponeva a tutti noi di fare una celebrazione eucaristica. E siccome eravamo a casa sua… Lui faceva il parrino mentre a noi toccavano ruoli da comprimario, vuoi il chierichetto, il sagrestano o semplicemente l’assemblea. C’è da dire che era preciso, liturgicamente ineccepibile. Conosceva tutta la messa e non saltava un solo passo. Lui si inventava il salmo responsoriale e noi dovevamo rispondere; si faceva dare delle ostie dal prete della sua parrocchia e ci somministrava l’Eucarestia; prendeva il vino dalla cucina e lo mescolava con sapienza con l’acqua; faceva delle interessanti omelie.
Vittorio frequentava la parrocchia (come noi, del resto) e aveva un’ammirazione smisurata per il suo parroco. Aveva anche la segreta speranza di diventare papa; diceva che Paolo VI era un grande uomo – e sì che io lo trovavo noiosissimo – ma aveva una venerazione per papa Giovanni. Sempre ci diceva che da grande avrebbe fatto il prete e che niente e nessuno gli avrebbe fatto cambiare idea. “Ma non vuoi sposarti e avere figli?”, gli chiedevamo. “Assolutamente no – rispondeva Vittorio – io sono un prete”. Già si sentiva parrino. Una volta ne ho parlato coi miei e mi hanno risposto che non c’era dubbio: la vocazione gli sarebbe passata e avrebbe avuto una vita normale come tutti gli altri.
Non era vero. Lui la vocazione continuò a maturarla; anche da adolescente seguitava a dire che voleva farsi prete. Non andavamo più a scuola assieme e non ci sottoponeva a messe coatte, però la vocazione continuava ad averla. Alla domenica, come niente, si sciroppava tutte le messe della parrocchia. Serviva la messa, leggeva le letture, aveva anche imparato a suonare l’organo. Insomma era il factotum della chiesa. Questo lo portò ad avere i primi scontri con i suoi genitori, che avevano pensato per lui un futuro diverso che non quello di parrino.
Alla fine delle superiori, Vittorio decise di entrare in Seminario ma la sua famiglia ne fu totalmente contraria: doveva fare l’avvocato. Pertanto, non senza malanimo, si iscrisse a Giurisprudenza. Pensava di fare contenti i suoi genitori – per il momento, almeno – poi, quando avrebbe avuto in mano la sua vita, avrebbe preso la decisione per la quale viveva: farsi prete.
Dopo cinque anni e una carriera universitaria non particolarmente brillante, per la felicità della sua famiglia, Vittorio si laureò. Continuava a sentire dentro di sé la chiamata di Dio ma anche stavolta non fu forte abbastanza da imporre ai suoi la sua volontà. Suo padre lo mandò a fare pratica da un avvocato suo amico, che gli avrebbe insegnato il mestiere e lo avrebbe lanciato nella professione forense. Ma non era abbastanza bravo, Vittorio; l’unica legge che gli interessava era quella divina, per cui sin dall’inizio si capì che non avrebbe fatto strada.
Lo capì anche suo padre, che lo costrinse, nonostante le rimostranze del figlio, a tentare la strada del concorso pubblico; come archivista, impiegato alle Poste, negli enti, nei comuni e nelle prefetture di mezza Italia. Il buon Vittorio, nonostante non avesse abbandonato il desiderio di diventare un sacerdote, fece concorsi di ogni genere e attraversò tutta la penisola. Anche le domande di supplenza nelle scuole fece, per insegnare materie giuridiche. Finalmente, ma non per lui, trovò un posto da impiegato all’INPS. La famiglia ne fu molto contenta, Vittorio molto meno: questo allontanava ancora il suo progetto di farsi prete.
Infine iniziò una relazione con Rosa Maria, una ragazza della parrocchia, un po’ grassoccia ma tanto simpatica e buona. La famiglia di Vittorio inizialmente ebbe da ridire anche su questa storia ma alla fine, pensando che era sicuramente meglio così che con un figlio prete, lasciò che gli eventi facessero il loro corso. Lui impiegato, lei articolista, Rosa Maria insistette perché si sposassero. Vittorio per un po’ resistette, forse per tenere ancora accesa quella fiammella della vocazione che mai si era spenta del tutto; alla fine, ormai trentino, capitolò.
Oggi Vittorio conduce una vita normale. I suoi colleghi lo reputano una bravissima persona e lo stimano molto. È padre di tre figli: Gerlando di sedici anni, Antonella di dodici e Andrea, venuto dopo molto tempo, di tre. Ha una casetta in cooperativa a Fontanelle. Accompagna i figli a scuola alla mattina, va a fare la spesa al Di Meglio, va al mare alla IV Traversa e spesso al sabato va a passeggio con la famiglia in Via Atenea.
Ma tutte le domeniche, quando Vittorio porta moglie e figli a Messa, è pervaso da una profonda tristezza.
Perché ho raccontato questa storia? Perché, ecco, io penso a Vittorio tutte le volte che a Girgenti qualcuno tira fuori la stronzata della vocazione turistica della città. Proprio come il mio amico, che aveva tutte le carte in regola per diventare parrino – e in cuor mio penso che sarebbe stato un buon prete –, a Girgenti in potenza non mancava nulla per diventare una città ad economia esclusivamente turistica. Però non lo è diventata e sono certo non lo diventerà mai più.
Proprio come Vittorio, che non sarà mai più un prete.

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