venerdì, gennaio 23, 2009

LA PASTA CON LA RICOTTA


Oggi mia moglie mi ha fatto la pasta con la ricotta. A me piace molto sebbene abbia un effetto collaterale, alla fin fine neanche tanto sgradito: mi fa ricordare che la pasta con la ricotta ce la faceva mia nonna, a me e ai miei fratelli. Il ricordo mi scaraventa indietro – d’ufficio, tra l’altro – di trenta-trentacinque anni, rendendomi anche consapevole del fatto di essere ormai un signore adulto, col giro di boa forse già passato.
Girgenti, fine anni ’60-primi ’70. Per tutti e cinque gli anni delle elementari, siamo andati a scuola a mesi alterni. Non un mese sì e uno no – magari – ma un mese di mattina e uno di pomeriggio. Ora, quando eravamo di mattina ci andavamo da casa nostra normalmente; invece quando eravamo di pomeriggio la cosa era anche più divertente, perché di mattina andavamo da nostra nonna, che viveva con una sorella signorina, e lì passavamo la mattinata. In linea di massima facevamo i compiti, giocavamo – in casa o fuori, in cortile –, facevamo disperare le due povere donne, etc… Poi a mezzogiorno scattava l’ora x: pasta con la ricotta e fettina di carne.
Nel frattempo dalla radio, che era sempre accesa, ascoltavamo Hit Parade di Lelio Luttazzi (nella foto con Walter Chiari). Ricordo che iniziava la trasmissione urlando: “Lelio Luttazzi presenta: Hiiit Paraaade”, e ricordo di aver sentito lì per la prima volta pezzi tipo Piccola Ketty dei Pooh, Acqua azzurra acqua chiara di Battisti, Piccolo grande amore di Baglioni o La riva bianca la riva nera, che forse la cantava una certa Rosanna Fratello. Poi una volta sentii dire che Lelio Luttazzi era stato invischiato in una storiaccia, forse di droga o qualcosa di simile, e io ci sono rimasto troppo male, perché Luttazzi mi era simpatico. Naturalmente mi dichiarai innocentista. Oppure c’era La Corrida, dilettanti allo sbaraglio presentati da Corrado, trasmissione culto, di cui le due anziane donne erano ghiotte più che d’ogni altra. E tra tutti i concorrenti, alcuni dei quali scarsissimi, mi ricordo perfettamente di un rumorista sardo che mi fece scassare dal ridere e poi provai a fare il rumorista sardo ma facevo abbastanza cagare. Comunque dicevo che la radio era sempre accesa e infatti ricordo il Giornale radio, il Gazzettino di Sicilia, i dibattiti pallosissimi di cui non capivamo una bella minghia, il segnale orario, un uccellino che fischiava ad orari precisi, i drammoni con donne piagnucolose, etc… Poi ci vestivamo da scuola, col grembiule nero e il fiocco blu, cartella di pelo di cavallino, la nonna ci pettinava e andavamo. Lei ci seguiva dalla finestra per tutta la via Callicratide finché non ci vedeva sparire.
Ma questo pezzo doveva parlare della pasta con la ricotta, no? Va bene.
A quel tempo c’erano (ne è rimasto qualcuno) i venditori ambulanti, quelli che passavano fin sotto casa per vendere la merce. Questo, il venditore di ricotta, ‘u ricuttaru, benché un po’ più saltuario degli altri, era di gran lunga il più atteso. La sua vanniata (grido di richiamo) a sfumare – ‘A ricòòòò… – udita in lontananza, metteva in subbuglio la masnada di ragazzini della quale facevamo parte anch’io e i miei fratelli. Chiamavamo subito nostra nonna e le chiedevamo di comprarci una bella cavagna di ricotta (a testa, naturalmente). E la nonna molto spesso ci accontentava. L’acquisto avveniva così. L’uomo veniva chiamato da lontano, col nome del prodotto (si pensi che il netturbino era chiamato Munnizza!): “Ricotta, vinissi ‘ccà, a quant’è ‘na cavagna?” La domanda era oziosa visto che aveva sempre lo stesso prezzo. A proposito, l’unità di misura della ricotta era appunto la cavagna, che consisteva in un cilindro di cannuccia intrecciato, con un’estremità aperta ed una chiusa, all’interno del quale si annidava il succulento latticino. L’estremità aperta veniva chiusa da una foglia di fico tenuta salda da un filo di giummarra. L’uomo tirava via la foglia, assestava un colpo col palmo della mano all’estremità chiusa e così il prodotto veniva adagiato, direi coricato, sul piatto che nel frattempo la massaia aveva portato giù. La cavagna, inoltre, era sia il contenitore che il prodotto stesso. Il formato più grande era la vascedda. La ricotta veniva mangiata con la pasta, attuppateddi o cavatuna, i formati corti. Era un azzardo usare gli spaghetti ma qualche volta l’esperimento fu fatto. E riuscì lo stesso. Non tutto il quantitativo di ricotta riusciva ad arrivare alla fine, al momento, cioè, di ricevere la pasta. Infatti la tentazione era talmente forte che spesso la si diminuiva a forchettate, per cui poi ci si doveva accontentare di una quantità minore. La cavagna veniva schiacciata con la forchetta dentro il piatto, magari con un po’ di acqua di cottura e alla fine ne veniva fuori una cremina che me la sogno la notte, che veniva amalgamata con la pasta. E vidi chi mangi. I più arditi mettono il formaggio grattugiato, per me è un insulto al candore della ricotta.
Oppure la mangiavamo col pane, dentro la mafaldina (foto). Era uno spuntino di metà mattinata, bello sostanzioso, peraltro. Ma la ricotta raggiungeva la perfezione solo in un modo: appena comprata, possibilmente ancora tiepida, con lo zucchero, pestata con la forchetta più o meno finemente. La qual cosa per noi non poteva minimamente essere comparata alla più fine pasticceria.

6 commenti:

Coq Baroque ha detto...

Incredibile. Proprio stasera avevo deciso di fare pasta con la ricotta. Ora che ti ho letto, desisto, non verra' mai come 'lhai descritta tu :-((

Anonimo ha detto...

Altrettanto incredibile: io la pasta con la ricotta ce l'ho domani a pranzo!!! Comunque tutto quello che hai scritto corrisponde, anche dalle mie parti era (e a volte è) così, preciso preciso.

Alberto Todaro ha detto...

Ma no, baroque, boiadiungiudacane, te ne prego. Mangiati la tua bella pastuzza con la ricotta. Guarda Pippo, per esempio, non ci pensa neppure a NON mangiarsi la sua stupida pasta con la ricotta.
E mi fa sempre piacere che mi vieni a trovare nel blog.

Anonimo ha detto...

'Sgraziato!
Comunque credo fosse Iva Zanicchi a cantare "La riva bianca, la riva nera"

Anonimo ha detto...

no, no, era proprio Rosanna Fratello...
a quando la mirabile descrizione dell'arrotino e delle sue faville?

Eleonora Maddi ha detto...

Incredibile Alberto! E' un'emozione dolce ricordare. I sapori possono più di altri sensi teletrasportarci nelle cucine di nonne, madri e zie dove il calore che pervadeva, noi bambini inconsapevoli,era dato dalla loro silenziosa cura. Mi viene in mente una frase del Dalai Lama letta da poco:'all'amore e al cibo abbandonati completamente'. Dopo ciò che hai scritto dovresti leggere il libro di Annamaria Tedesco, fra pochi giorni in libreria, "CUCINAMI", Castelvecchi editore. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensi. Un saluto,