venerdì, gennaio 30, 2009

Vincono i reazionari, progressisti schiacciati

di don Vitaliano della Sala - il manifesto, 25 gennaio 2009

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Che il Papa abbia accolto la richiesta formulata da mons. Bernard Fellay, Superiore della Fraternità Sacerdotale San Pio X, di rimettere la scomunica in cui erano incorsi i 4 vescovi lefebvriani ordinati illecitamente nel 1988 è, di per sé, una bella notizia, a prescindere dall'essere d'accordo o meno con i seguaci di mons. Marcel Lefebvre. Inutile dire che il sottoscritto non condivide molto con questo gruppo tradizionalista.L'esclusione ha tracciato lungo la storia della Chiesa una scia rossa di sangue e di dolore, mentre si sente sempre più il bisogno di una Chiesa che, come diceva don Tonino Bello, il compianto vescovo di Pax Christi, deve essere capace di realizzare anche al suo interno una «convivialità delle differenze» tra chi la pensa in modo diverso, fatte salve le Verità di fede: solo in una logica dell'inclusività è l'avvenire anche della Chiesa.Riflettere sul tema dell'esclusione nella Chiesa, mi ha fatto ricordare la parabola evangelica del piccolo granello di senape che diventa un albero frondoso, «e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra» (Luca 1, 51-53): paradigma della Chiesa-altra che sempre più cattolici sognano e si impegnano a costruire. Una Chiesa inclusiva, che non emargina, non usa la pesante scure del giudizio su nessuno; una Chiesa degli esclusi e non dell'esclusione, capace di accogliere, di portare tutti nel suo seno.Si sa molto dell'Inquisizione nel medioevo; poco si sa e meno si parla dell'Inquisizione moderna, probabilmente perché solo pochi sono a conoscenza dell'impressionante tuffo nel passato che sono i processi "interni" che le varie Congregazioni vaticane intentano ogni anno contro preti, religiosi e teologi cattolici, in maggioranza progressisti, rei di non aderire, non tanto alle verità di fede e ai dogmi, quanto piuttosto alle mille pieghe delle elaborazioni del magistero pontificio, di cui si vuole ostinatamente ribadire, contro la centralità del Vangelo, la fondamentale importanza.Qualcuno dovrebbe raccogliere i frammenti di storia di tutti i provvedimenti disciplinari, o delle precisazioni dottrinali, emanati dal Vaticano negli ultimi 25 anni contro quei sacerdoti, teologi e religiosi che hanno adottato un approccio molto più ampio e flessibile nel trattare la delicata questione dei rapporti tra annuncio evangelico, strutture religiose, contesti storico-sociali e norme morali. Ne emergerebbe, tra l'altro, la storia del tentativo di difendere la visione della Chiesa come istituzione – gerarchica, autoritaria e centralista – tutta tesa a tradurre il messaggio rivoluzionario del Vangelo in norme morali e giuridiche, e purtroppo i lefebvriani di questa chiesa sono nostalgici e paladini. Provvidenzialmente e malgrado ciò, non si è riusciti a impedire che il cattolicesimo proseguisse quel cammino di rinnovamento iniziato con la seconda metà dello scorso secolo e con il Concilio Vaticano II. Ma non possiamo evitare di porci qualche domanda: come mai si sdoganano solo i gruppi più reazionari, che appoggiano politiche di estrema destra, razziste e xenofobe, che negano l'Olocausto, che ripropongono una immagine di Chiesa slegata dalla gente e nella quale i fedeli laici non valgono nulla, una Chiesa trionfalmente alleata con i potenti, potente essa stessa, mentre al contrario si condannano e si contrastano aspramente i settori progressisti e le Teologie della liberazione?Nella Chiesa c'è chi, come i lefebvriani, può permettersi di criticare e dissentire, addirittura contestare le decisioni non solo del papa, ma di un Concilio, quello Ecumenico Vaticano II. Invece c'è chi per molto meno, per il solo fatto di porsi e porre domande, perché approfondisce scientificamente gli argomenti teologici, perché sceglie di stare dalla parte dei poveri difendendoli, denuncia le ingiustizie e accusa i potenti, viene tacciato di disobbedienza, punito, processato, cacciato: sto parlando delle centinaia di vescovi, preti, suore e laici "progressisti", inquisiti dai tribunali ecclesiastici, colpiti da provvedimenti canonici ed emarginati sotto i pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Nella Chiesa-altra che sognano i "progressisti", i "tradizionalisti" hanno non solo il diritto di esistere ma, anzi, possono essere una ricchezza; temo invece che nella Chiesa che vogliono restaurare i "tradizionalisti" come i lefebvriani, i "progressisti" siano solo un "cancro da rimuovere" a tutti i costi. Per questo il provvedimento a favore dei seguaci di mons. Marcel Lefebvre ha creato in me sconcerto, tristezza e dolore, perché rischia di acuire nel mondo cattolico una sorta di "scisma sommerso" (come scrive Piero Prini nel suo libro con questo titolo). Per fortuna il futuro del cristianesimo, nelle singole comunità e nel mondo, non è affidato solamente alla quantità di documenti stampati a Roma.


martedì, gennaio 27, 2009

PER NON DIMENTICARE


L’UOMO DI MONACO - I Nomadi

E guardai, scrutai, quel vecchio a Monaco
quel sorriso, quella birra quante cose poi pensai,

la mia mente a una folla di sguardi fissati
dietro a quei fili spinati.

E lo spiai, scrutai, divise immaginai,
di uno che marciò, l'Europa calpestò,
la mia mente a una folla di sguardi spietati
fuori da quei fili spinati.

Lo guardai nel fondo dei suoi occhi
lo fissai insistendo sempre più
per vedere se c'era colpa o paura,
perché?, per quale ragione?

E guarda, scrutai, niente poi notai
solo rughe sul viso, dal tempo seminate,
non aveva artigli, tremavan le sue mani
come quelle di mio padre.

Lo guardai nel fondo dei suoi occhi
lo fissai insistendo sempre più
per vedere se c'era colpa o paura,
perché?, per quale ragione?

Ritornai poi, ancora a Monaco
lo cercai, ma ormai, lui non era più,
la mia mente, quella folla, quelle mani
tra un volo di gabbiani
la mia mente, quella folla, quelle mani
tra un volo di gabbiani.


lunedì, gennaio 26, 2009

C’E’ DEL MARCIO IN BRASILE


Io boicotto il Brasile. Ne sono sempre più convinto. Hanno fatto arrabbiare ‘Gnazio La Russa (che è uno che non si arrabbia quasi mai) e io questo non lo perdono a nessuno. Bisogna prendere dei seri provvedimenti contro questo brutto paese. Intanto quello di manifestare davanti al cinema dove si proietta Natale a Rio mi sembra una prima, seria iniziativa, già portata avanti con successo dai giovani di Alleanza Nazionale. Peccato che la cosa abbia fatto storcere il naso a molti fini cinefili. «Non è giusto danneggiare un film di culto per una bega del genere» – sostengono molti di quelli che di cinema ne capiscono assai.
Ma cos’è successo? Pare che il Brasile abbia una legge organica sul diritto di asilo – l’Italia non ce l’ha, giova ricordarlo – e ogni tanto, quando gli capita di applicarla, lo fa. Questa volta è capitato nei confronti, o meglio a beneficio, di Cesare Battisti, un terrorista rosso, condannato per quattro omicidi ai tempi degli “anni di piombo”, il quale, dopo una lunga latitanza in Francia, aveva riparato in Brasile ma era stato arrestato. Qualche giorno fa, gli è stato concesso lo status di rifugiato politico, grazie anche – pare – ai buoni auspici di Carlà Brunì e quindi all’intervento di Sarkozy, presso il governo carioca. Non dirò una sola parola a favore di Battisti, è ovvio, però mi pare semplicemente un caso di applicazione di una legge e quindi di rispetto di diritti. Se il Brasile avesse adottato il provvedimento, facciamo conto, a favore di dissidenti cubani, oggi tutti loderebbero il Brasile.
E invece? Tutti incazzati e via a chi la spara più grossa. Non potendomi defilare dal dibattito socio-politico, come sempre molto interessante e edificante, abbozzo anch’io delle proposte che vanno tutte nella direzione del boicottaggio al Brasile.
- Sospensione di tutti i luoghi comuni sul Brasile. Sia vietato con effetto immediato dire che il Brasile è il paese dell’allegria, tutti sempre allegri e felici, ballano la samba, toda joya toda beleza, sanno tutti giocare a calcio e hanno la saudade. E il Carnevale. In fondo se ci pensiamo, i brasiliani sono dei musoni scostanti e antipatici; quando ballano sono impacciati e legnosi che nemmeno Pinocchio; col pallone sono delle scarpe e quando escono dal loro paese non ci vogliono più tornare. E la sagra dello gnocco fritto o la Smarronata di Savigno non hanno mica nulla da invidiare al Carnevale di Rio. Basta pensarci.
- Alienare tutti i calciatori brasiliani, presenti e passati. Il Milan venda subito Kakà, e non allo sceicco arabo ma anche allo Sporting Bagnacavallo, va bene lo stesso. Via anche Adriano, Ronaldinho, Ronaldo… ah, quello se ne è già andato. Anche perché al prezzo di un brasiliano ci prendi quattro rumeni, due messicani, tre camerunesi, e uno di Trinidad and Tobago. E anche due greci. Vietato anche ricordare le punizioni di Zico, la straordinaria eleganza di Falcao e persino le danze intorno alla bandierina di Juary.
- Boicottare tutta la musica brasiliana. Del resto, voglio dire, non mi pare che sia tutta ‘sto granché. Vinicius de Moraes o Antonio Carlos Jobim me li chiamate artisti? Caetano Veloso sarebbe un cantante? No, dico, Gilberto Gil o Chico Buarque me li paragoni a Mino Reitano o Gigi Finizio? O Mariano Apicella? Ma andiamo. E che dire di quella samba, quei balli, quelle movenze sconce, quelle ballerine scollacciate. Che dire, eh?
- Va vietato tassativamente il trenino di Capodanno (foto), quello che scatta subito dopo il brindisi al ritmo di Pèpè-pèpè-pèpè pèpè-pèpè-pèpè, meu amigo Charlie Brown, A E I O U Ipsilon, Brigitte Bardot Bardot, etc…
- Infine la madre di tutte le ritorsioni: boicottare il Cacao Meravigliao.

Ops, dimenticavo, e se riuscissimo anche a vietare il turismo sessuale verso il Brasile?

domenica, gennaio 25, 2009

HO VISTO...

"Ho visto l'avvicendarsi di molti presidenti ma mai un quadro come quello di martedì, con 4 milioni di occhi al cielo fissati sull'elicottero che partiva. Tutti volevano essere matematicamente certi che Geoge W. Bush se ne fosse andato"


(Maureen Dowd, New YorkTimes)

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Non è meravigliosa? Buona domenica.

sabato, gennaio 24, 2009

LE DIECI PEGGIORI MULTINAZIONALI DEL 2008


di Gennaro Carotenuto (13 gennaio 2009)

Lavorano e fanno danni dall’America latina all’Africa e in tutti i continenti. Hanno commesso crimini contro l’umanità come quello di Bophal (la Union Carbide) o contro l’ambiente (la Exxon Valdez) o fatto da cassaforte a dittatori sanguinari come Augusto Pinochet (la Riggs) o usano i paramilitari per ammazzare i sindacalisti (Chiquita e Coca-Cola in Colombia). Quasi tutte trattano i lavoratori come cleenex e in queste ore la General Motors ne sta licenziando a migliaia in Brasile. Sono le multinazionali (foto) che, nonostan
te la crisi del neoliberismo, continuano ad avere più potere degli Stati dove operano. La “Multinational monitor” (MM) ha scelto le dieci peggiori corporazioni del 2008. Sono otto statunitensi, una svizzera e una cinese. Una finanziaria, tre alimentari, quattro energetiche, una del tabacco e una farmaceutica. Adesso che con la crisi del neoliberismo il sistema implode e le multinazionali diventano ancora più cattive. Secondo l’agenzia nel 2008 le corporazioni hanno dominato il mondo come mai avevano fatto in vent’anni. L’intero rapporto può essere letto con i dettagli compagnia per compagnia a questo indirizzo. Per MM con lo scoppiare nel 2008 della crisi economica, le multinazionali hanno amplificato tutti i loro comportamenti negativi, dall’uso della corruzione politica, alla deregolamentazione, all’uso del lavoro precario e nero, alla volontà di guadagnare con politiche di rapina e a breve termine, alla finanziarizzazione dei loro profitti che hanno sempre meno a che vedere con l’economia reale, al passare sulla testa della società dove operano mettendo il profitto al primo posto ma socializzando le perdite ed esternalizzando i costi, economici, umani, sociali. La MM non fa una classifica tra le prime dieci, si limita a elencarle in ordine alfabetico e a spiegarne dettagliatamente i comportamenti. E’ significativo però che ad aprire la lista sotto il significativo titolo di un vecchio successo dei Dire Straits, “money for nothing”, sia una finanziaria, già assicurazione, la AIG, la American International Group, che nei suoi metodi è il paradigma dei cattivi comportamenti che hanno causato la crisi economica. Seguono le alimentari, la Dole, inquinatrice, antisindacale e che in pochi anni ha eliminato i due terzi della sua forza lavoro, pagando in alcuni paesi poco più di un Euro al giorno di stipendio. La Imperial Sugar, una specie di Marghera dello zucchero con una lunga lista nera di lavoratori che hanno contratto gravi patologie o sono stati vittime di incidenti sul lavoro. Solo in quello del 7 febbraio 2008, a Savannah, in Georgia, negli Stati Uniti, morirono 14 operai. La Cargill, il gigante delle multinazionali alimentari è accusata di aver contribuito a creare la situazione più paradossale di tutte: 30 anni fa il terzo mondo esportava cibo, adesso il 70% è importatore netto. E’ la globalizzazione per la quale paesi africani alimentarmente autosufficienti o quasi, come il Ghana, oggi dipendono dagli alti e bassi dei mercati sia per esportare che per importare, non riuscendo a produrre più del 20% del loro fabbisogno di riso. Poi ci sono le compagnie energetiche, la Chevron, la Constellation Energy che spinge sul nucleare, la cinese CNPC, accusata di aver fomentato la crisi in Darfur, la General electric, antisindacale e inquinante, sia negli Stati Uniti che in Brasile. C’è inoltre l’onnipresente Philip Morris, imperterrita nel vendere cancro ai polmoni, sono 5 milioni l’anno i morti, sempre più nel Sud del mondo. E infine la farmaceutica svizzera Roche, rampante nell’affare del secolo: l’AIDS. Ce n’è per tutti i gusti, i colpi di coda di un neoliberismo in crisi fanno ancora più male.

venerdì, gennaio 23, 2009

LA PASTA CON LA RICOTTA


Oggi mia moglie mi ha fatto la pasta con la ricotta. A me piace molto sebbene abbia un effetto collaterale, alla fin fine neanche tanto sgradito: mi fa ricordare che la pasta con la ricotta ce la faceva mia nonna, a me e ai miei fratelli. Il ricordo mi scaraventa indietro – d’ufficio, tra l’altro – di trenta-trentacinque anni, rendendomi anche consapevole del fatto di essere ormai un signore adulto, col giro di boa forse già passato.
Girgenti, fine anni ’60-primi ’70. Per tutti e cinque gli anni delle elementari, siamo andati a scuola a mesi alterni. Non un mese sì e uno no – magari – ma un mese di mattina e uno di pomeriggio. Ora, quando eravamo di mattina ci andavamo da casa nostra normalmente; invece quando eravamo di pomeriggio la cosa era anche più divertente, perché di mattina andavamo da nostra nonna, che viveva con una sorella signorina, e lì passavamo la mattinata. In linea di massima facevamo i compiti, giocavamo – in casa o fuori, in cortile –, facevamo disperare le due povere donne, etc… Poi a mezzogiorno scattava l’ora x: pasta con la ricotta e fettina di carne.
Nel frattempo dalla radio, che era sempre accesa, ascoltavamo Hit Parade di Lelio Luttazzi (nella foto con Walter Chiari). Ricordo che iniziava la trasmissione urlando: “Lelio Luttazzi presenta: Hiiit Paraaade”, e ricordo di aver sentito lì per la prima volta pezzi tipo Piccola Ketty dei Pooh, Acqua azzurra acqua chiara di Battisti, Piccolo grande amore di Baglioni o La riva bianca la riva nera, che forse la cantava una certa Rosanna Fratello. Poi una volta sentii dire che Lelio Luttazzi era stato invischiato in una storiaccia, forse di droga o qualcosa di simile, e io ci sono rimasto troppo male, perché Luttazzi mi era simpatico. Naturalmente mi dichiarai innocentista. Oppure c’era La Corrida, dilettanti allo sbaraglio presentati da Corrado, trasmissione culto, di cui le due anziane donne erano ghiotte più che d’ogni altra. E tra tutti i concorrenti, alcuni dei quali scarsissimi, mi ricordo perfettamente di un rumorista sardo che mi fece scassare dal ridere e poi provai a fare il rumorista sardo ma facevo abbastanza cagare. Comunque dicevo che la radio era sempre accesa e infatti ricordo il Giornale radio, il Gazzettino di Sicilia, i dibattiti pallosissimi di cui non capivamo una bella minghia, il segnale orario, un uccellino che fischiava ad orari precisi, i drammoni con donne piagnucolose, etc… Poi ci vestivamo da scuola, col grembiule nero e il fiocco blu, cartella di pelo di cavallino, la nonna ci pettinava e andavamo. Lei ci seguiva dalla finestra per tutta la via Callicratide finché non ci vedeva sparire.
Ma questo pezzo doveva parlare della pasta con la ricotta, no? Va bene.
A quel tempo c’erano (ne è rimasto qualcuno) i venditori ambulanti, quelli che passavano fin sotto casa per vendere la merce. Questo, il venditore di ricotta, ‘u ricuttaru, benché un po’ più saltuario degli altri, era di gran lunga il più atteso. La sua vanniata (grido di richiamo) a sfumare – ‘A ricòòòò… – udita in lontananza, metteva in subbuglio la masnada di ragazzini della quale facevamo parte anch’io e i miei fratelli. Chiamavamo subito nostra nonna e le chiedevamo di comprarci una bella cavagna di ricotta (a testa, naturalmente). E la nonna molto spesso ci accontentava. L’acquisto avveniva così. L’uomo veniva chiamato da lontano, col nome del prodotto (si pensi che il netturbino era chiamato Munnizza!): “Ricotta, vinissi ‘ccà, a quant’è ‘na cavagna?” La domanda era oziosa visto che aveva sempre lo stesso prezzo. A proposito, l’unità di misura della ricotta era appunto la cavagna, che consisteva in un cilindro di cannuccia intrecciato, con un’estremità aperta ed una chiusa, all’interno del quale si annidava il succulento latticino. L’estremità aperta veniva chiusa da una foglia di fico tenuta salda da un filo di giummarra. L’uomo tirava via la foglia, assestava un colpo col palmo della mano all’estremità chiusa e così il prodotto veniva adagiato, direi coricato, sul piatto che nel frattempo la massaia aveva portato giù. La cavagna, inoltre, era sia il contenitore che il prodotto stesso. Il formato più grande era la vascedda. La ricotta veniva mangiata con la pasta, attuppateddi o cavatuna, i formati corti. Era un azzardo usare gli spaghetti ma qualche volta l’esperimento fu fatto. E riuscì lo stesso. Non tutto il quantitativo di ricotta riusciva ad arrivare alla fine, al momento, cioè, di ricevere la pasta. Infatti la tentazione era talmente forte che spesso la si diminuiva a forchettate, per cui poi ci si doveva accontentare di una quantità minore. La cavagna veniva schiacciata con la forchetta dentro il piatto, magari con un po’ di acqua di cottura e alla fine ne veniva fuori una cremina che me la sogno la notte, che veniva amalgamata con la pasta. E vidi chi mangi. I più arditi mettono il formaggio grattugiato, per me è un insulto al candore della ricotta.
Oppure la mangiavamo col pane, dentro la mafaldina (foto). Era uno spuntino di metà mattinata, bello sostanzioso, peraltro. Ma la ricotta raggiungeva la perfezione solo in un modo: appena comprata, possibilmente ancora tiepida, con lo zucchero, pestata con la forchetta più o meno finemente. La qual cosa per noi non poteva minimamente essere comparata alla più fine pasticceria.

mercoledì, gennaio 21, 2009

ASTROLOGI IN TV


Mentre tutti i leader del mondo vanno a Washington ad accogliere Barack Obama, il nostro premier va in Sardegna. E del resto, non accontentandosi del ruolo di comprimario, è dovuto per forza andare lì. D’altra parte, stava pensando a che tipo di scherzo fare a Obama – pensava di andare in giro palpeggiando le femmine travestito da Pietro Gambadilegno – quando gli è stato detto che a causa delle eccezionali misure di sicurezza, se ne sarebbe dovuto stare bello seduto al suo posto. E da Nuoro, vero ombelico del mondo, ha attaccato la Tv di stato – la Rai, va’ – definendola “non degna di un paese civile”. Ora dico, per carità, lungi da me il pensiero di difendere la Rai, ma minchia… Dice che lo attaccano sempre, non come nelle sue tre educatissime reti, dove dicono sempre quello che vuole lui. Dice che è sempre nel mirino e questo non va mica bene. Non siamo certo in un qualunque paese democratico, noi, dove i capi di stato e di governo vengono sbeffeggiati, anche pesantemente, senza che accada nulla. Pare che alla Rai ci sia qualcuno che si permetta persino di esprimere opinioni personali. Perciò dice che non è degna di un paese civile – che ne so, magari il Nicaragua ai tempi di Somoza.
E c’ha ragione, c’ha. Lo dico anch’io: la Rai non è degna di un paese civile. Del resto, chi meglio di lui può dirlo. L’uomo che ha portato in Italia una TV di alta qualità, degna di un paese civile. Programmi come Colpo grosso, Il Grande Fratello, Uomini e donne (di Maria De Filippi) hanno dato a questo paese quell’in più di civiltà che certamente gli mancava. L’uomo che possiede Rete 4, la televisione abusiva che dovrebbe stare sul satellite e invece sta in mezzo alle nostre palle. Beh, però se non ci fosse, ci priveremmo dell’irresistibile show quotidiano di Emilio Fede, bisogna pensarci bene prima di fare le cose, eh? E di Studio aperto? Il tg – vabbe’, forse tg è parola grossa – al quale se togliessero le notizie di gossip e gli smutandamenti, si ridurrebbe alle due sigle, di apertura e di chiusura. Fa bene a lamentarsi, Silvio. Dice (cito testualmente) che c’è la «volontà di colpire chi si impegna allo stremo per il bene del Paese anche fra gli esponenti della sinistra che si impegnano per questo; una volontà che non si vede in nessuna tv nazionale di nessun paese civile al mondo». Se è per questo anche un premier come lui non si vede in nessun paese civile al mondo. «L'altra sera c'era addirittura un’astrologa che mi attaccava» – lamenta Silvio. E chi sarebbe l’astrologa? Margherita Hack, astrofisica e divulgatrice scientifica tra le più quotate al mondo. Giustamente Silvio, che temo non conosca la differenza, pensava: “Fai l’astrologa? Bene, fatti il tuo bell’oroscopino e non ci rompere le balle. Cazzo attacchi le persone”. Vabbe’ la Hack non è una gnocca – benché siano gusti, eh? – bisogna ammetterlo, quindi non può né fare la velina né mirare ad alcun ministero della Repubblica, ma chiamarla astrologa... La stessa gaffe fece Luca Giurato – ci muoviamo tra titani della cultura – qualche tempo fa, il quale, presentandola in collegamento da vattelappesca, la definì astrologa. Si sentì una voce, con pesante accento toscano, dall’altro capo del collegamento: "So’ astrofisiha!"

domenica, gennaio 18, 2009

KAKA’, FACCI SOGNARE


E mentre in Israele la guerra continua a fare morti e feriti, anche tra i bambini (ma tutti rigorosamente di Hamas), uno sceicco arabo, un certo Mansour – proprietario del Manchester City, parente povero dell’omonimo United – propone a Ricardo Izecson dos Santos Leite, detto Kakà, calciatore del Milan, un contratto multimilionario. Si parla di 120 milioni di euro da versare alla società e 15 milioni netti a stagione da devolvere alla saccoccia del giocatore. Il Milan, come il suo proprietario, del resto, non è particolarmente attratto dalle sirene del denaro, no? E invece sì. Infatti, pur facendo delle facce da circostanza finto dispiaciute, si sta preparando a lasciar andare in Inghilterra il brasiliano e a ricevere questa vagonata di soldi con la quale far respirare le casse della società, che a detta degli informati, non stiano messe benissimo. Male che vada il progetto non va in porto e il Milan continua a essere indebitato, il presidente Berlusconi potrà sempre farsi fare una bella leggina apposita “salva Milan”. Il lodo Galliani, che ne so. Si potrebbe dire che le squadre di calcio di proprietà delle quattro più alte cariche dello Stato riceveranno un tot annuo, bello grosso, dalle casse dell’erario. Sì, sì, il lodo Galliani. Non farebbe certamente più schifo del lodo Alfano, no?
Nel frattempo i tifosi, incavolatissimi, chiedono a gran voce che il giocatore rimanga al Milan, perché dicono che le bandiere non si vendono e Kakà sarebbe una bandiera. Hanno inscenato delle manifestazioni sotto la sede della società rossonera per convincere i dirigenti a resistere alle lusinghe del vile denaro e tenersi Ricardo. Domani ci sarà la manifestazione che Kakà, la sua famiglia, il suo procuratore e i dirigenti del Milan faranno sotto casa dei tifosi invitandoli a farsi i cazzi loro.
Per finire, è perfettamente inutile che si faccia del buonismo sul fatto che mentre a uno si danno un pozzo di soldi per dare pedate a un pallone, in ogni parte del mondo c’è gente che muore di fame. È inutile dire che, secondo The Sun, la somma che lo sceicco vuol sganciare equivale al prodotto interno lordo del Gambia. Perché… Appunto, è inutile.
Perciò Kakà, il calciatore sul quale si sono fatte più battute pecorecce (“Ho bisogno di... Kakà”, “Non posso vivere senza... Kakà” e altre amenità del genere), dalla prossima settimana con ogni probabilità non apparterrà solo a Gesù, come egli stesso dichiara, ma anche allo sceicco Mansour. Con buona pace di Gesù e delle sue strane idee sulla giustizia e l’uguaglianza.

sabato, gennaio 17, 2009

VIGNETTINA

Sono stato “fuori” per un po’. Veramente ho avuto l’ADSL fuori combattimento. Per cui per alcuni giorni niente blog, niente e-mail, niente giornali on line, niente Facebook. Vabbe’, sono sopravvissuto.
Allora buon weekend con una bella vignettina di Mauro Biani. Sempre leggero, eh, Mauro?


lunedì, gennaio 12, 2009

BONAMORONE


Seconda puntata della saga dell’acqua a Girgenti.

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Quando l’acqua finiva bisognava andare a riempire le taniche, che noi abbiamo sempre chiamato bidoni o bidoncini, alla fontana di Bonamorone (simile a quella della foto). Sono sempre stato del parere che il vero simbolo di Girgenti non debba essere il tempio, uno qualsiasi, bensì la fontana, o fontanella, di Bonamorone. Chi di noi agrigentini non è mai andato a riempire i bidoni a Bonamorone? Non c’era il rischio che non ci fosse nessuno, alla fontana. Vi trovavamo sempre un drappello, più o meno nutrito, dipendeva dai periodi dell’anno, di altri cittadini, deidratati come noi. L’acqua veniva presa per un duplice scopo: berla o usarla per l’igiene personale e le faccende di casa. Non per il bucato ovviamente, ché per quello bisognava aspettare che venisse l’acqua nei giorni prestabiliti. Dal destino o dal fontaniere.
Per quel che riguarda l’acqua potabile, poi il problema è stato risolto perché a un certo momento cominciò ad arrivare leggermente inquinata, quel poco che è bastato per convincerci tutti quanti a comprare l’acqua bell’e imbottigliata. Che poi guarda caso, quando si dice la combinazione, cominciarono a vendere acqua minerale di tutti i tipi e di tutte le marche e c’è stata gente che c’ha fatto pure dei bei soldini. Comunque.
Allora stavo dicendo appunto della fontanella di Bonamorone, che per noi agrigentini è un posto mitico visto che tutti siam passati prima o poi da lì. Io ci andavo da bambino con mio padre e i miei fratelli. Ci abbiamo passato dei bei pomeriggi, in particolare d’estate ma, alla bisogna, anche in altre stagioni, a fare la fila per riempire i nostri bidoncini. Che poi detta così sembra che fossero piccoli piccoli ma in realtà avevamo pure quelli da venticinque litri che all’andata erano belli leggeri ma al ritorno, pieni d’acqua, per portarli ti dovevi scarenare. Noi eravamo sempre contenti di andare a Bonamorone, perché giocavamo e ci ammazzavamo di risate. Forse mio padre lo era un po’ meno perché in fondo il grosso del lavoro alla fin fine toccava a lui. Ci divertivamo perché in effetti la fontanella di Bonamorone era un posto divertentissimo.
In realtà, più che una fontana, quella di Bonamorone è un abbeveratoio. La fontana vera e propria è così fatta: il fronte è un arco alto, a tutto sesto, con un catino che raccoglie l’acqua che viene fuori da due cannelle; un buchetto porta l’acqua residua alla gebbia, la vasca, bella grande, dietro l’arco. Nella gebbia c’era sempre un bel po’ di acqua fitusa a ristagnare; acqua piena di fanghi, muschi, lippo e mucillagini varie. Tutt’attorno era un rigoglio di moschitte, zanzare e insetti da laboratorio di biologia. A volte vi era anche qualche raganella e in generale un visibilio di tignusi, le lucertole. Era pieno di fango e se scivolavi erano cazzi, perché ci si faceva stare uno schifio. Ogni tanto arrivava un viddanu, un contadino, che abbeverava il mulo, che noi osservavamo con la curiosità dell’etologo. Andandosene via, il mulo, per soprammercato, lasciava una bella cacata. A Girgenti, negli anni della mia prima giovinezza, le cacate di mulo erano parte dell’arredo urbano. Mi mancano molto.
A Bonamorone c’era sempre di quella gente che litigava per il posto nella fila e ogni tanto volava pure qualche parola grossa. Prontamente gli altri si premuravano a sedare gli animi al grido di ”Amunì, nenti c’è”. C’era chi chiedeva il permesso di riempire solo un bidoncino e quando il permesso gli veniva accordato ne tirava fuori degli altri, con disappunto degli astanti. Chi gridava e si lamentava dei politici che li avevano presi in giro – salvo poi a scoprire che erano proprio quelli per i quali loro avevano votato ma giuravano e spergiuravano che quella era l’ultima volta – e perciò tutto veniva come sempre e come dappertutto buttato in politica. Con gran dispendio di energie vocali. Nel frattempo le due cannelle della fontanella, solo due, continuavano a elargire acqua a centinaia di cittadini assetati. Ogni tanto c’erano persino di quei vecchietti che arrivavano lì arrancando coi reumatismi e i bidoncini e, per la verità, venivano fatti passare avanti.
Beh, in fondo la fontanella di Bonamorone ha cavato fuori dai guai, seppur momentaneamente, uno sacco di cristiani, per questo noi tutti dovremmo esserle grati ed elevarla a monumento di vita cittadina e addirittura simbolo della nostra città nel mondo, perché è stata la gioia di tutti gli agrigentini, dei grandi come dei piccoli, dei poveri come dei ricchi… No, forse dei ricchi no. Ora che ci penso non ho mai visto un agrigentino ricco a Bonamorone. Sì, è vero, anche perché è sempre girata la leggenda che mentre i quartieri popolari pativano la sete, nelle zone della cosiddetta Girgenti-bene l’acqua non è mai mancata. Bah, chissà se è vero.
La fontana di Bonamorone è stata fuori uso per diversi anni, anche perché la situazione idrica era migliorata, e per migliorata intendo dire che l’acqua arrivava ogni tre-quattro giorni, situazione che per noi è una molto prossima al paradiso. In molti palazzi sono state costruite le vasche sotterranee, per cui il contesto non era più come negli anni ’70, quelli ai quali io mi riferisco. Da qualche tempo invece la situazione si è rifatta drammatica, la condotta che porta l’acqua è praticamente uno scolapasta, per cui giocoforza i turni sono stati allungati, e di molto, costringendo molti agrigentini a tornare a Bonamorone.
Tempo fa, ai tempi del mitico Piazza, il sindaco, e dico il sindaco, fece riaprire la fontanella di Bonamorone. Ora io dico che queste cose possono succedere solo a Girgenti. Però mi chiedo: se tu sei il sindaco di una città dove manca l’acqua e non sei stato capace, tu i tuoi predecessori e tutta la tua ghenga politica, di fare una bella minchia per risolvere o quanto meno attenuare questa situazione, vabbé che fai riaprire la fontanella che consentirà ai tuoi concittadini di fare la fila per riempire i bidoncini sotto il pico del sole a quaranta gradi, ma almeno stai zitto, fai finta di niente, no? Non te ne vantare. E invece no, siccome le facce ce l’hanno di bronzo – per non dire di culo – il giorno in cui hanno riaperto la fontanella di Bonamorone hanno chiamato giornali e televisioni e hanno fatto la solenne inaugurazione. Si sono fatti fare servizi, interviste; hanno ripreso il primo bidone riempito, hanno rilasciato dichiarazioni, “Abbiamo restituito questa struttura alla città!”, etc… E noi alla televisione abbiamo visto il penoso spettacolo di una giunta comunale che stappava lo spumante per la riapertura della fontanella di Bonamorone!

venerdì, gennaio 09, 2009

CLIMA E COCAINA

Io prendo per buone le dichiarazioni della cantante inglese Lily Allen (foto), la quale sostiene che la cocaina non fa male.
Piano piano. Lei dice che sniffare cocaina “non ha controindicazioni”. Diciamo che in linea di principio sarei contrario a questa affermazione, fatto sta che lei la sostanzia con l’esperienza. “Conosco tantissime persone che ne fanno uso almeno tre volte a settimana senza ripercussioni sulla loro vita lavorativa e privata” – continua la cantante britannica a me ignota – per cui: “Spero che la gente smetta di fare del sensazionalismo su questo argomento”. Il Giornale – sempre stato di ottime letture, io –, organo ufficiale della famiglia Berlusconi, scrive un articolaccio su questa storia, che di per sé non sarebbe neanche troppo grave (le affermazioni di una showgirl), se non si temesse per la possibilità che l’effetto emulazione possa avere soprattutto sui più giovani. Però diciamo che in fondo, la brava Lily esprime un concetto molto semplice: se io conosco persone che pippano a 3.000 e non ne risentono, allora vuol dire che il diavolo non è poi così brutto come lo si dipinge, ‘sta cocaina non deve fare così male come dicono, no? Come quando muore il tizio novantenne che ha fumato per tutta la vita e noi pensiamo: ma il fumo non faceva male? Come quando gli scienziati dicono che siamo tutti in pericolo a causa del surriscaldamento del pianeta e dei cambiamenti climatici causati dalle emissioni di anidride carbonica, poi viene un’ondata di freddo come in questi giorni e ti viene da dire: “Staminchia, ma non dovevamo morire di caldo?” Il Giornale, sempre lui, pertanto, con la stessa stringente logica di Lily Allen, esattamente nella stessa giornata di ieri, fa un’operazione del genere. Che è quella di partire da un dato di fatto (il freddo becco di questo giorni) per sconfessare un’intera comunità scientifica e arrivare all’esaltazione del Capo (“e qui è doveroso dirlo: puntando i piedi, mettendosi «fuori dall’Europa», rifiutandosi di sottostare ai diktat degli ayatollah ambientalisti, Silvio Berlusconi vide più lontano di tutti i Sarkozy e le Merkel e gli Zapatero messi insieme. Chapeau.”, sic).
Per cui – e il sillogismo è chiaro anche senza scomodare Aristotele:
- gli scienziati dicono che c’è il surriscaldamento
- fa un freddo bestia
- gli scienziati sono dei coglioni.
Ma anche:
- gli amici di Lily Allen assumono cocaina
- gli amici di Lily Allen non stanno poi così male
- la cocaina non fa male.
Vallo a smontare!

***
P.S. La cocaina fa malissimo. Non fate minchiate!

giovedì, gennaio 08, 2009

CERVELLI IN FUGA


Una piaga dell’Italia è la fuga dei cervelli. Il cervello di Fabio Cannavaro, ad esempio, è fuggito a Madrid un paio d’anni fa, insieme al suo proprietario, che era stato ingaggiato dal Real. Poco male, vien da dire; il problema è che dal suo dorato rifugio iberico, il cervello di Cannavaro ne ha sparata una. E bella grossa. Parlando con Alfonso Signorini, il patinato direttore di Chi, rotocalco per i palati intellettuali più esigenti, il calciatore nostro connazionale così pontifica: “Per il cinema italiano spero che Gomorra (il film di Matteo Garrone tratto dal best seller di Roberto Saviano, nota mia) vinca l’Oscar. Ma non penso che gioverà all’immagine dell’Italia nel mondo. Abbiamo già tante etichette negative”. Minchia! Però se ci rifletti un po’, il buon Cannavaro e il suo cervello non hanno tutti i torti. Abbiamo troppe etichette negative. Vero è, picciò. Ad esempio, pensa a quanto deve soffrire quel povero (povero?) ragazzo emigrato al pensiero che l’Italia è il paese con la classe politica più delinquente d’Europa – e forse uno dei primi al mondo. E giustamente si angustia per quanto questa cosa ci fa ridere dietro da tutto il mondo. Quale paese, infatti, ha un capo del governo con lo stesso curriculum del nostro? E un parlamento così zeppo di inquisiti – persino di condannati – come il nostro? Ha ragione ad affliggersi quando pensa a queste cose. Ma lo sapete cosa gli ha detto un suo compagno di squadra? Gli ha detto: “Italiano? Mafioso”. Ma chi è stato questo monellaccio, che lo incaprettiamo.
O forse il ragazzo, nella sua sconfinata sensibilità, si riferisce al ritardo pazzesco che l’Italia ha su tutti gli altri paesi d’Europa in tema di diritti civili. Sì, forse pensa a questa cosa, che ci rende invisi agli occhi delle opinioni pubbliche di tutto il mondo. Sui diritti civili dei gay, per esempio, o delle coppie di fatto. Poverino, Cannavaro. Sentite cosa dice a proposito del premier spagnolo Zapatero: “La Spagna sta bene, ha investito nel rinnovamento delle grandi città. I matrimoni gay? Mmmh, su quello, forse, sono più italiano...". Bravo Fabietto, goal! Così ci piaci, italiano fino al midollo.
No, no, ci sono. Fabiuccio è amareggiato, ma veramente, per il fatto che l’Italia è al vertice internazionale per l’export di armi nel mondo. Lui lo sa che molti dei fucili prodotti in Italia alimentano le guerre di tutto il mondo; lo sa, eccome, che tanti di quei fucili finiranno in mano ai cosiddetti bambini soldato; minchia se lo sa che tanti bambini nel mondo perdono mani, gambe, occhi, perché finiscono su mine antiuomo prodotte in Italia.
Ora, con tutte queste etichette negative cha ha l’Italia, cosa volete che gliene fotta a Fabio Cannavaro se vinciamo un premio Oscar quale miglior film straniero?

martedì, gennaio 06, 2009

VINNI L’ACQUA



Sì, perché quello dell’acqua è sempre stato ed è il problema più grande della nostra città. Non che sia l’unico, sia chiaro, ma certo è il più grave. Riuscite a pensare a una città dove non ci sia l’aria? E una dove non ci sia la luce? Scommetto di no. E una dove non ci sia l’acqua? Neppure, eh? E invece no, quella c’è, si chiama Girgenti – o come molti dicono, Agrigento – ed è una città dell’Italia meridionale. Una città invasa da turisti per un lungo tratto dell’anno; fa parte dell’Europa e c'è nato un grande scrittore; è una città dove si usa l’euro, gli uomini e le donne alla mattina vanno a lavorare e i ragazzi a scuola; i treni e i pullman arrivano e ripartono; c’è la luce, il gas e il telefono; qualcuno conosce l’inglese ecc… ecc… Quindi è apparentemente una città normale.
Eppure è una città da sempre alle prese con questa grottesca situazione della mancanza dell’acqua, tema caro ai suoi politici che l’hanno sempre usato come ariete nelle campagne elettorali: “Entro un anno avrete l’acqua tutti i giorni, potrete aprire i vostri rubinetti senza più problemi”. Sì, perché a Girgenti è impensabile poter aprire il rubinetto in maniera normale: il rubinetto va aperto a filo. Se penso a quanti ci hanno promesso di portarci l’acqua nel corso di questi decenni, a quanti ci hanno detto che di lì a qualche mese non avremmo più avuto questo problema, io li ringrazio perché non l’hanno fatto perché a quest’ora saremmo costretti a camminare per strada con la maschera e il boccaglio per quanta acqua ci sarebbe.
Ora, fermo restando il fatto che spesso c’è la siccità, che a volte non piove per anni e tutte ‘ste manfrine, ma davvero in questi decenni non è stato possibile portare l’acqua in questa città? Davvero il nostro destino è quello di rimanere tappati in casa ad aspettare l’acqua come si aspetta un parente che arriva dall’America; ad aspettare il turno di distribuzione perché si possa fare una doccia, dare una pulitina alla casa, fare il bucato, tirare allegramente lo sciacquone, annaffiare le piante?
Perché, a Girgenti bisogna stare in casa ad aspettare l’acqua? E certo. I turni di distribuzione vanno dai tre-quattro fino ai dieci-quindici giorni nei periodi particolarmente disgraziati, soprattutto quelli estivi. Perché tra l’altro la minchiata è proprio questa: che quando hai più bisogno dell’acqua, proprio allora ne arriva meno. Per cui, il giorno in cui ti tocca la distribuzione dell’acqua, devi restare a casa.
Chi dà l’acqua a Girgenti? Immagino dipenda dall’ineffabile ufficio idrico del Comune ma operativamente il datore d’acqua era, ed è, il fontaniere. Ogni tanto, passando per le vie, si vede un uomo con un attrezzo di ferro a forma di T in mano, intento a svitare qualcosa dentro un buco nell’asfalto, dal quale era stato rimosso un minuscolo tombino rotondo. Quello è il fontaniere, croce e delizia dalle massaia, colui dal quale dipende la storia immediata della famiglia agrigentino. Quando il fontaniere svita, viene l’acqua; quando avvita, l’acqua finisce.
Allora, adesso vi racconto cosa accade in una famiglia di Girgenti nel periodo tra una venuta d’acqua e un’altra. E che nessuno pensi che io stia facendo dell’umorismo. Intanto partiamo, appunto, dal momento in cui l’acqua arriva e si riempiono i recipienti sul tetto del palazzo o delle case antiche del centro storico. Chiunque viene a Girgenti potrà notare infatti che su tutti i tetti vi sono i recipienti blu per l’acqua – e qualcuno ha ancora quelli di eternit, ormai da anni fuori legge. Allora, dicevo, arriva l’acqua e la famiglia è in subbuglio: ci si lava, si lava la casa, si riempiono i bidoni, si fanno le scorte, si azionano le lavatrici e infine si riempiono le vasche da bagno. Alla fine della giornata si vede chiaramente che quella è stata una giornata particolare per quella famiglia.
Dopodichè ricomincia l’attesa, che potrebbe essere anche piuttosto lunga, nella quale ovviamente sono vietati sprazzi di alcun genere. È impossibile, ad esempio, lavare la frutta sotto il getto dell’acqua; è vietato lavarsi al mattino con la scocca (il getto) d’acqua aperta; ma soprattutto è proibito usare lo sciacquone: quello è uno spauracchio, guai ad azionarlo senza una vera ragione e non aggiungo altro.
Man mano che i giorni passano, quindi, le scorte cominciano a finire; il nervosismo, soprattutto delle madri di famiglia, comincia a farsi solido. Viene, pertanto, istituita la legge marziale e il riciclaggio dell’acqua. Cioè, se lavi la frutta devi far andare l’acqua nella bagnera (bacinella), nella quale poi saranno lavati i piatti e la stessa acqua andrà a finire nel cato (secchio) per poi essere gettata nel gabinetto. Oppure, al mattino ti lavi mani e faccia in una bacinella e con la stessa acqua ti puoi lavare i piedi o ti puoi fare un ricco bidé ma poi ricordati di versarla in un altro cato e poi ovviamente nel gabinetto, la destinazione ultima. Nelle case di Girgenti vi è sempre una vasta gamma di oggetti di moplen: bacinelle, catini, tinozze, secchi. Il cannolo (che oltre ad essere il delizioso dolce, è anche il nome siciliano del rubinetto) deve essere aperto solo quando è strettamente necessario e sempre facendo scorrere l’acqua a filo.
Sapete quella canzone di Giorgio Gaber, quella in cui lui a un certo punto dice: “Quasi quasi mi faccio uno shampoo”? Ebbene, quella non l’ha scritta sicuramente a Girgenti. Sì perché noi lo shampoo lo dobbiamo preventivare con congruo anticipo. Intanto è meglio farlo quando viene l’acqua. Se, dopo qualche giorno, sulla testa senti dei formicolii – capita – e pensi che sia il caso di farti uno shampoo, devi innanzitutto vedere se non si consuma troppa acqua e poi agire nel modo seguente: riempire una pentola d’acqua, riscaldarla (più la riscaldi, meno acqua ti serve, meglio è), stemperarla con acqua fredda dentro una bacinella, fare lo shampoo. L’acqua sporca va per il bagno, se rimane acqua pulita, ‘u Signori t’u renni, il Signore te ne renda merito.
Più i giorni passano e più la situazione si fa drammatica. Ogni tanto qualcuno telefona all’ufficio idrico e viene rassicurato che l’acqua domani-massimo-dopodomani arriva. Lo dico per inciso, se esistesse un campionato o una coppacampioni per le bugie, l’ufficio idrico del comune di Girgenti sarebbe il Real Madrid. Ma l’acqua naturalmente non arriva e magari si è già alla prima settimana senza. Il marito o qualcuno dei figli, allora, va alla fontana a riempire qualche bidoncino per sopperire alle necessità più impellenti, almeno lavarsi il viso al mattino. In famiglia la tensione si taglia col coltello e a questo punto la madre si seppellisce in casa con la seguente motivazione: forse oggi viene l’acqua. E difatti, metti che l’acqua arriva e non ci si trova in casa, si è praticamente perso un pacco di tempo prezioso. Ma nonostante la clausura l’acqua non viene lo stesso e si è magari al decimo giorno. Con la mamma non ci si può più parlare per il nervoso. Ormai in famiglia si mangiano solo pizzette, sfincioni e miscate (pizza a taglio e pezzi di rosticceria) in piatti di plastica. Improvvisamente si ode l’atteso rumore, uno sfiato dal cannolo principale. I cannoli vengono aperti senza ritegno e… un solo grido: l’acqua, vinni l’acqua! Torna il sorriso nella casa di Girgenti, si fanno tutte le pulizie di rito e il ciclo ricomincia.
Nella casa in cui abitavamo quando ero bambino, in cucina avevamo un rubinetto particolare, quello che funzionava solo quando veniva l’acqua. In tutti gli altri giorni era muto, potevi aprirlo quanto volevi, tutt’al più veniva fuori uno spiffero d’aria. Questo cannolo era usato per riempire le bottiglie di acqua potabile. Infatti il vano sotto il lavello era pieno di bottiglie, che a poco a poco si svuotavano e perciò dovevamo anche bere con una certa moderazione e vi assicuro che soprattutto d’estate – e qui l’estate è bella calduccia – non è affatto una bella cosa. Poi si disse che l’acqua del cannolo non era più buona da bere e si cominciò a comprare l’acqua imbottigliata, per cui almeno questo problema fu risolto.
Quando l’acqua delle scorte finiva, bisognava andare a riempire le taniche, che noi abbiamo sempre chiamato bidoni o bidoncini, alla fontana, perlopiù alla fontanella di Bonamorone, di cui vi parlerò in seguito.
Qualcuno dice che si sta parlando troppo di ‘sto fatto dell’acqua a Girgenti – in tv, nei giornali – e che soprattutto non se ne dovrebbe tanto parlare a livello nazionale, visto che la cosa pregiudicherebbe l’immagine della nostra città. Dicono che i panni sporchi si lavano in casa. Sì, ma quando viene l’acqua.

lunedì, gennaio 05, 2009

”IL VECCHIO HOLDEN”


Prendo di peso dal suo blog – e lo faccio mio bassamente – il pezzo che Nico Pillinini ha scritto in onore dei novant’anni di Jerome David Salinger (foto), autore de Il giovane Holden, il libro della vita.
***
Se proprio volete saperlo, le articolesse meditative non si addicono alle celebrazioni del caro vecchio Jerome David Salinger. Il quale ieri ha compiuto (beninteso, qualora sia ancora qui con noi in questa schifa vita, anche se molto, molto lontano da noi) la bellezza di 90 anni. Se proprio volete saperlo, giornali e riviste - spiegava un puntuale dispaccio d’agenzia Agi - hanno rinunciato a mandare inviati a Cornish, il paesino del New Hampshire in cui lo scrittore si ritirò dopo il successo del suo romanzo, per intervistare il vegliardo. Sarebbe stata fatica sprecata, una nota spese buttata via, una domanda ingoiata dal vento. Un po’ come chiedersi dove vanno le papere del laghetto di Central Park in inverno. È chiaro che vanno dove gli pare e via dicendo. E dove gli pare se ne sarà andato lui, J.D.. Magari semplicemente a fare la spesa in un supermercato (se i supermercati sono aperti il primo dell’anno, da quelle parti) come la volta in cui un fotografo lo beccò, con le borse di plastica in mano e una smorfia di comprensibile dispetto per l’intrusione fuori programma. Se proprio volete saperlo, Il giovane Holden viene periodicamente ristampato in Italia da Einaudi, ovviamente nella stupenda versione di Adriana Motti. Ma abbiamo corso il rischio, qualche annetto fa, che Sandro Veronesi e Alessandro Baricco ne facessero una nuova. Se proprio volete saperlo, negli Stati Uniti il libro si studia a scuola e, nel mondo, se ne vendono circa 250mila copie ogni tot di mesi. Mica male. Inoltre sono tutti lì che ancora aspettano il nuovo-vecchio libro di Salinger, quell’Hapworth 16, 1924 di cui da tanto tempo si annuncia la pubblicazione. Amazon parla di gennaio 2009. Sarà la volta buona? Se proprio volete saperlo, a noi non frega niente, perché a noi basta Il giovane Holden. È ancora una cosa da lasciarti secco.

sabato, gennaio 03, 2009

UNO SGARBO A SGARBI


L’altra sera, a Girgenti, è venuto Vittorio Sgarbi. Solo per questa frase iniziale, il pezzo andrebbe sotto l’etichetta Chissenefrega. Ma c’è dell’altro, ovviamente. Sgarbi è stato contestato. È questa è la vera novità, dirompente nel panorama narcotizzato della società agrigentina. Premetto che io non ero presente all’evento, avevo senz’altro cose più importanti da fare (cfr. Guccini, L’avvelenata, 1976: “godo molto di più nell’ubriacarmi...”), per cui ne parlo soltanto per una conoscenza attinta da articoli di giornale online e dal video che ormai spopola, persino su Repubblica.
Ma molti agrigentini c’erano, alla messa cantata della volgarità, celebrata da Vittorio Sgarbi. C’è pure da dire che il libro presentato dal critico d’arte era fondamentale per la formazione culturale, politica e soprattutto umana di ogni agrigentino: “Clausura a Milano e non solo. Da suor Letizia a Salemi”. Vattelo a perdere cotale evento!
Nell’affollatissima sala della biblioteca Franco La Rocca, si aspetta l’illustre ospite – dicono – per due ore. Strana questa cafonata per una persona così misurata e di buon gusto come Vittorio Sgarbi. Ma tant’è. L’ospite arriva e il moderatore dell’incontro inizia con delle battute sul ritardo dovuto alle nostre straordinarie strade. In sala ovviamente c’erano personaggi ai quali è da addebitare di peso lo stato penoso delle nostre strade e della nostra terra in generale ma noi sull’argomento preferiamo fare delle battute da cabaret. Perché noi siamo simpatici. Il bravissimo Sgarbi, pertanto, sente il dovere etico di dire delle frasi sconce sull’argomento e lì inizia la bagarre. Il ragazzo Giuseppe Gatì, anni 20, da Campobello di Licata (Ag), armato di volantini e coraggio inizia la sua contestazione. Prima gli rinfaccia di essere volgare, poi gli ricorda di essere un pregiudicato. Cose entrambe false. O vere? Cosa importa? Cosa importa, nel paese che ha Silvio Berlusconi quale premier, se uno è pregiudicato per truffa ai danni dello Stato e siede nelle istituzioni? E invece secondo Gatì questo importa, eccome, e lui vorrebbe – pazzo! – essere governato da gente onesta. Poi, sempre Gatì, inneggia a Giancarlo Caselli, al pool antimafia e a tutti quegli uomini che hanno lottato per la legalità e per essa sono anche morte. In sala scoppia il finimondo e il giovane viene “accompagnato” di là, dove resterà per un’ora e mezza senza disturbare il manovratore. Dei suoi amici, altri ragazzi che erano venuti con lui e che hanno anche realizzato le riprese, si erano nel frattempo perse le tracce.
Bene, ho letto gli articoli, ho visto più volte il video, ho letto la lettera che il ragazzo ha inviato a Qui Milano libera, ho persino visitato il sito di Giuseppe e sono arrivato a una conclusione: io sto con Giuseppe Gatì. E voglio fare mie le parole di Beppe Grillo: “Nessuno tocchi il ragazzo. È un piccolo eroe, un fiore raro”. Purtroppo il ragazzo è stato toccato, e proprio quella sera alla biblioteca. Ma credo che questo non scalfisca di un millimetro la soddisfazione per aver gridato la verità. Mentre tutti erano intenti ad ammirare i bellissimi abiti del re, lui ha semplicemente detto che il re – mannaggia – era nudo.
Io sto con Giuseppe Gatì, ne ammiro il coraggio e l’idealismo. E, sia chiaro, lo invidio.

LA CLASSE


Francois Bégaudeau – “La classe” – Einaudi Stile libero – Euro 16,00

Celebratissimo in patria – il libro è francese – anche qui da noi questo libro ha ricevuto una buona accoglienza. Grazie anche al film, che pare sia un bel pezzo di cinema – non a caso ha beccato la Palma d’oro a Cannes.
Il libro parla di un professore francese alle prese con la sua classe di scuola media, in una scuola multietnica della banlieue parigina, dove i problemi non sono soltanto di natura scolastica ma anche sociale. Il povero prof, pertanto, deve affrontare anche difficoltà legate all’ambiente in cui i suoi ragazzi si trovano a vivere, che sono problemi di inserimento, di integrazione, di marginalità; oltre al fatto che la maggior parte di loro sono immigrati – e non sempre regolari. Nel libro ci sono parecchi temi della scuola odierna, anche italiana: il bullismo, l’emarginazione, la violenza. Ma anche la difficoltà di comunicare col mondo degli adulti e l’incapacità di questi – insegnanti in testa – di essere guida per i giovani d’oggidì. Anche da questo libro, infatti, la classe insegnante esce piuttosto malconcia.
Boh, che dire? Bello, il libro è bello, però – che ne so? – non mi ha catturato né convinto del tutto. Sarà perché le storie della scuola risultano più interessanti a chi nella scuola non ci vive. Io ci vivo, per cui, in tutta onestà, questo libro, che non è brutto affatto, non mi ha preso del tutto. La dico tutta: non mi ha emozionato. La scuola deve anche essere emozione, se no diventa la lotta del professore contro l’allievo – e questo mi pare traspaia dal libro –; diventa una lotta continua per l’affermazione di certi principi: di convivenza civile e di affermazione di regole ma anche di grammatica, geometria e lingue straniere. Per il resto il libro è sicuramente godibile.

giovedì, gennaio 01, 2009

UOMO DELL’ANNO 2008


And the winner is: BEPPINO ENGLARO.
Esatto, nella mia personalissima – e inutilissima – classifica dell’uomo più rappresentativo dell’anno, vince quel signore di Lecco che da diciassette anni assiste la figlia morta. Ha superato al rush finale il giovane iracheno Muntazer al-Zaidi – colui che ha lanciato le proprie scarpe a George W. Bush – ma solo a causa della sua pessima mira: se al-Zaidi avesse colpito Bush, è ovvio che Englaro non ce l’avrebbe fatta.
Perché vince Beppino Englaro? Perché come dicevo assiste da diciassette anni la figlia Eluana, una giovane donna che nel gennaio del 1992, in seguito a un incidente stradale, entra in coma e non ne esce più. Da allora la donna vive in stato vegetativo permanente, alimentata da un sondino e senza la minima speranza di poter riprendere conoscenza.
Ma questa è una storia che tutti conosciamo. Come tutti sappiamo la vicenda del padre Beppino, il vincitore del concorso Uomo dell’anno 2008, che da anni chiede, a chiunque ne abbia l’autorità, di staccare il sondino e permettere a sua figlia di andarsene in pace. Finalmente questo gli è stato accordato anche se adesso, operativamente, sembra molto difficile fare il passo finale. Non si trova nessuno che, nonostante la decisione dei giudici, “stacchi la spina”; o se si trova, questi viene ostacolato da altri impedimenti.
La faccio corta, perché premio Beppino Englaro? Perché la vita, quella vera, non è fatta di trasmissioni televisive né di prime pagine dei giornali; non di papi e vescovi contrari né di comitati di bioetica; non è fatta di bacchettoni di destra né di soloni di sinistra, né di dibattiti sulla necessità del testamento biologico. La vita, quella vera, è una persona che ogni giorno apre la porta di una stanzetta di ospedale, si siede accanto alla figlia intubata e la guarda. Le guarda il viso alterato da diciassette anni di coma, le guarda gli arti deformati e spera che muoia al più presto.
Questa persona, la vita, è Beppino Englaro.