giovedì, novembre 27, 2008

PICCOLE STORIE AFRICANE


Oggi inauguro questa nuova rubrica: Piccole storie africane. Non si tratta di racconti o favole dal continente nero (vi ho sentito, avete detto paraponzi-ponzi-pò) ma di brevi reportage da chi ogni tanto in Africa ci ha bazzicato. Non a Malindi o a Zanzibar ma a Ismani, lavorando in una missione nel cuore della Tanzania, dove i bambini vanno scalzi, si mangia solo riso o polenta di mais e l’AIDS se li sta mangiando vivi. Dove le famiglie vivono in case di fango e paglia senza luce, senza acqua, senza niente; dove non ci sono strade asfaltate, solo sentieri battuti, e andare da un posto a un altro è estremamente problematico. A Ismani le condizioni igienico-sanitarie sono precarie e l'alimentazione insufficiente, a causa dei frequenti periodi di siccità, la qual cosa rende la popolazione particolarmente soggetta alle più gravi malattie tipiche dell'Africa tropicale. La Tanzania, infatti, è la nazione con il più alto numero di morti di malaria. Metteteci pure la carenza di strutture ospedaliere, di personale medico, di medicine e vaccini, ed ecco spiegato l'altissimo tasso di mortalità infantile. Meno male che adesso fanno un bel G8 per discutere dei problemi del terzo mondo, quindi per la Tanzania la sofferenza è pressoché finita.
Vorrei raccontare di fatti, cose, persone che fanno parte del quotidiano di quel posto e per un breve periodo, quale può essere un mese, anche del mio e di coloro che sono con me. Un quotidiano e un posto certamente molto diversi dai nostri e che spesso stentiamo a credere e a capire. Anche a trovarsi lì, fianco a fianco con chi a Ismani ci vive 365 giorni l’anno, non è semplice capire come si possa vivere in certe condizioni. Io non so di chi siano le colpe, ammesso che ce ne siano, fatto sta che tutta questa differenza di vita mi fa male. Ogni volta che vado in Africa, e dall’Africa ritorno, mi assale un gran senso di frustrazione. Di forte impotenza. Sembra che il lavoro di un mese, lavoro duro, pesante, sia completamente inutile. Mi volto indietro e vedo le cose esattamente come le avevamo trovate quando siamo arrivati. C’è talmente tanto da fare che quello che si fa è nulla. La miseria, il bisogno, le malattie, i fastidi, la morte sono cose che noi non riusciamo nemmeno a scalfire. Nonostante tutta la buona volontà. Ma l’Africa è sola e la buona volontà dei pochi singoli è veramente poca cosa. Non so se ci siano colpe, dicevo, e chi le abbia. Forse in Africa ho imparato questa cosa: il fatalismo. Quello che ti fa credere che le cose sono sempre state così e che le differenze ci sono sempre state e sempre ci saranno. Sebbene io sappia in cuor mio che non è questa la verità. Ma almeno che non se ne parli. Che si taccia sull’Africa. Che non si sprechino fiumi di inchiostro e di parole quando si sa che non si vuole cambiare nulla.

Le gemelline di Usolanga
Usolanga è un villaggio piuttosto lontano da Ismani, attorno al quale gravitano altri cinque-sei villaggi, nella zona cosiddetta malenga makali, l’acqua amara. Vi operano delle missionarie laiche che con grande energia hanno messo su un piccolo ospedale di maternità e pediatria dove le donne vanno a partorire o a curare i bambini malati. Quando siamo andati giù nel 2004, tra le pazienti c’era anche una giovane donna masai con due gemelline nate di sette mesi, minuscole, pelle e ossa. In Tanzania i gemelli, al momento della nascita, vengono tutti chiamati Kulwa e Doto. La simpatica Rita, una delle volontarie – donnetta piemontese canuta e arzilla, che porta avanti anche un progetto di microcredito per le donne del luogo – era pessimista sulla loro sopravvivenza. Ma Ismani o Usolanga non sono posti dove possa abitare il pessimismo. Delle bottiglie riempite di acqua calda, avvolte in una kanga (la veste coloratissima delle donne africane), sono diventate una piccola incubatrice e hanno fatto sì che le piccole trovassero il calore che serviva loro per vincere la prima sfida della loro vita.
Nell’agosto del 2007, quando siamo tornati a Ismani abbiamo trovato due belle bambine gemelle masai di tre anni (foto), che vivono a Iguluba, nei pressi di Usolanga e le abbiamo riconosciute come Kulwa e Doto, le gemelline neonate di tre anni prima.

Maria Goretti
Nell’estate del 2003, una donna si presenta alla missione. Porta con sé una bambina di un paio d’anni, Sikudhani, in evidente stato di denutrizione. Il padre della piccola era morto qualche tempo prima, a causa dell’AIDS, e anche la mamma era lì lì per raggiungerlo. L’AIDS, che in Tanzania chiamano ukimuy, sta decimando la popolazione. Nelle zone interne del paese raggiunge percentuali impressionanti, l’aspettativa di vita è intorno ai 44 anni e vi è una stretta correlazione fra l'aumento della mortalità dei giovani adulti e il diffondersi della infezione da HIV/AIDS. L’ukimuy sta lasciando soli milioni di bambini. Magari accuditi dalle nonne, anziane e non più nelle condizioni di prendersi cura di loro. A questo scopo sta sorgendo Nyumba Yetu, la Nostra Casa, il villaggetto a ridosso della missione, che ospiterà bambini sieropositivi o affetti da AIDS o orfani di genitori deceduti per AIDS o, ancora, abbandonati. La mamma di Sikudhani lasciò la bambina alle cure delle suore della missione, che la accudirono amorevolmente, la fecero battezzare e le diedero il nome, invero orrendo, di Maria Goretti. In Africa sta un po’ accadendo come qui da noi quando chiamiamo i nostri figli Kevin o Sharon. Per noi c’è l’universo di Hollywood, per loro quello meno patinato dei santi cattolici. Nel 2004, scoprimmo che la bimba era sieropositiva e cercammo di portarla in Italia per farla curare. Ma le restrizioni delle leggi tanzaniane e italiane non permisero che ciò si realizzasse. Adesso Maria Goretti è ospite di Nyumba Yetu, dove vive serenamente la sua vita di bambina.

1 commento:

Coq Baroque ha detto...

Dovresti passare da fake glasses, la trovi nel mio blog roll. E' un'esperta di Africa (con la A maiuscola)